“Vorrei parlarvi francamente di un argomento molto importante. Di un argomento di cui possiamo parlare tra noi, ma di cui non dobbiamo far parola davanti agli altri. L’argomento è l’evacuazione degli ebrei, lo sterminio del popolo ebraico.
Il popolo ebraico sarà sterminato, dice ogni iscritto al partito. Non ci sono dubbi, è nel programma. Eliminazione degli ebrei, sterminio”.
Heinrich Himmler Discorso pronunciato il 4 ottobre 1943, al Congresso dei generali di Posen.
I Sulle fotoscritture dell’antisemitismo
Le radici della barbarie nazista e dello sterminio di un intero popolo, emergono dalla ghettizzazione e persecuzione degli ebrei già nel racconto biblico di Mosè (XIII secolo a.C)
… secondo la Bibbia, nei pressi del monte Oreb, Mosè s’accorda con Dio o viceversa, e dopo aver invocato le “dieci piaghe d’Egitto”, sconfigge il faraone e permette la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù… l’Esodo verso la Terra di Israele sarà lungo tre mesi… Mosè riceve la chiamata del Signore sul Monte Sinai, dopo tre giorni di purificazione il Signore/ Dio gli consegna le Tavole di pietra sulle quali ha scritto con la folgore i Dieci comandamenti e parla per sua bocca agli israeliti: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei all’infuori di me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra (…) Non pronunzierai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronunzia il suo nome invano. Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro (…) Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Questa è la versione più ossequiata nell’Ebraismo, Cristianesimo, Islam e di molte altre religioni… viene perfino cantata alle sfilate per cani di marca… dalle regge alle ghigliottine, dai salotti al colonialismo, dalla santa inquisizione ai campi di sterminio, il grande impostore (Gesù Cristo) c’è stato sempre… se fosse morto mentre raccoglieva funghi nel giardino dell’Eden e non in croce in bella luce, forse l’umanità non sarebbe mai uscita dall’innocenza del divenire e avrebbe scoperto la bellezza dell’umano nell’uomo. Finiamola qui… i paludati dei catechismi hanno sempre a che fare col sangue dei ribelli, eretici, agnostici o i senza patria della filibusta… modellarsi a un Dio è un abbrutimento dell’anima nostra… meglio un bacio col rossetto sfatto di una puttana dabbene in un bordello qualunque, che ingoiare il corpo sacralizzato di un impostore che si nasconde in un’ostia!
Quando la feccia adora un profeta, un martire o un eroe, frotte di servi impugnano il fucile e inaugurano l’epoca delle fosse comuni.
La lebbra delle conversioni e dei convincimenti monoteistici ha prodotto religioni, sistemi, nazioni e popoli sempre all’altezza di mattatoi di prim’ordine, e attraverso onore, gloria e fama hanno instaurato epoche di terrore, affinché soltanto lo spettacolo dell’Apocalisse sussista. L’iconografia della cultura di massa è stata subito servita… pittura, scultura, letteratura, fotografia, filmografia… hanno attraversato secoli d’indecenza e al soldo di ogni tirannide hanno mostrato che è più facile diventare un assassino che un artista… la tras/ figurazione dell’uomo passa dalla consolazione che si riverbera nell’obbedienza al simulacro… gli idioti non conoscono il suicidio, poiché sono sostenuti dalla vergogna o dall’indecenza di rituali che avvolgono paure o violenze nel sudario del potere che l’inganna e li rallegra. “Non c’è niente di più prestigioso di una bella fine se questo mondo è reale” (E.M. Cioran)1. Di tutte le condizioni, la meno desiderabile è quella di credere in qualcosa, in qualcuno o nella libertà concessa, che presuppone una mancanza di riguardo verso di sé… poiché qualsiasi fede rende ciechi, ridicoli o portatori d’odio. Oltre duemila anni di teologia hanno prodotto l’isteria della trasmigrazione dei corpi nello Spirito Santo e non hanno mai esaurito le scorte di demenza sulle quali hanno riposto la lucidità imperdonabile di una storia degradata sulla dominazione dell’uomo sull’uomo.
L’iconografia di propaganda cristiana ha intuito subito che lo scandalo della creazione rendeva bene… a ciascuno il santino del funesto demiugo, il Dio pescatore di anime, sempre collocato tra un re o un dittatore o un rivoluzionario… in bella vista nelle camere da letto proletarie, nei salotti borghesi o nelle sedi dei comitati centrali dei partiti… la resurrezione dopo la morte e la pietà come lusinga delle proprie cattiverie che legittima la disinvoltura delle fucilazioni. Poi la storia degli storici che la storia non ha ammazzato, le gerarchie ecclesiali, i banchieri, i politici, i sociologi, gli psicoanalisti, i magistrati, i sindacalisti, gli operai, financo i lavavetri… hanno riposto in un cadavere la propria salvezza… e ciascuno ha arraffato ciò che poteva per ascendere al più alto dei cieli, quello della servitù volontaria… dove la merce è l’uomo e l’uomo è merda. Il successo, il consenso, la potenza del ruolo sono il viatico degli scimuniti, specie se colti o arricchiti… qualunque potere succeda al potere, ci sono sempre loro che cambiano casacca ma non le mutande nelle quali tengono timori, tremori e schiavitù millenarie mai superate… i leccaculi, i sottoposti in perpetuo o gli stolti che credono nel trionfo di sé sul sangue dei giusti! Più entro in intimità con gli illetterati, più mi convinco che sono i poeti senza allori, i visionari senza porti e i folli senza speranze, i soli ad aver capito qualcosa sulle ondate di civiltà che hanno prodotto ere di terrore e sepolto la bellezza, la libertà e la giustizia, per sempre, forse.
A pochi anni dalla nascita del cinematografo (1895, si fa per dire), lo schermo s’illumina d’immenso (diceva, il poeta che aderì al fascismo firmando il Manifesto degli intellettuali fascisti, Giuseppe Ungaretti) e il film La Sacra Bibbia (1920) mostrerà che senza Dio tutto è nulla o, forse, solo Dio decantato dai suoi amanuensi, esposti fuori dalla magnificenza della sua falsità. Il regista del film, Pier Antonio Gariazzo, è figlio di buona famiglia piemontese… pittore, incisore, scrittore e cineasta… dispensa alle platee della Lanterna magica un film muto (11 rulli, 123 minuti) e sembra che una mondina appena uscita dallo sfruttamento delle risaie, volesse lanciare una pietra contro il Gesù Cristo tremolante sullo schermo che faceva miracoli con vezzosa protervia… fu accompagnata fuori dal cinema da due carabinieri impennacchiati e internata in luoghi più adatti ai pazzi che non vogliono essere turlupinati dalla macchina/cinema… alla maniera degli anarchici, quando facevano saltare in aria pignatte di dinamite sotto il culo dei potentati e i loro sgherri… naturalmente non è vero niente della mondina… degli anarchici sì… ma se andiamo a sfogliare le cronache dei giornali sulla “settima arte” (Ricciotto Canudo, 1921), vedremo che episodi simili non sono affatto isolati. Perché frequentare Shakespeare, quando basta un ciarlatano a farci intravedere altrettanto bene che “i vigliacchi muoiono molte volte innanzi di morire; mentre i coraggiosi provano il gusto della morte una volta sola (…) Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato, ama il tuo peccato e sarai innocente” (il Bardo). Ciascuno è fatto della stoffa di cui sono fatti i sogni che gli confezionano addosso… i libri, le arti e le accademie ne procurano il gusto, il falso, l’insensato, ma solo l’amante, il pazzo e l’eretico mostrano, contengono e nutrono il mondo di bellezza e di giustizia.
Il film più eclatante su Mosè si deve a quell’affrescatore hollywoodiano di grande mestiere, Cecil B. De Mille… I dieci comandamenti (The Ten Commandments)… colore (VistaVision), 220 minuti di noia abissale… Charlton Heston è Mosè, Yul Brinner, il faraone Ramesse, Anne Baxter, Nefertari, Edward G. Robinson, lo schiavo traditore Dathan, John Derek, Giosuè, Yvonne De Carlo, Sefora… non abbiamo mai provato tanta insofferenza né predisposizione all’attentato nemmeno dopo i 246 minuti della copia integrale di C’era una volta in America (Once Upon a Time in America, 1984) di Sergio Leone… una storia di gangster, come quella di De Mille… la musica esplicativa/geniale di Ennio Morricone, come quella di Elmer Bernstein, è modellata/indirizzata a immagazzinare il racconto e stimolare la ricezione dello spettatore… i salti della messa in scena, attori che scompaiono e ritornano in sequenze che poco c’entrano con l’andamento della storia, Joe Pesci in C’era una volta in America o John Derek in I dieci comandamenti… l’uso della suspence come figura retorica per cercare di chiudere in qualche modo il film e riportare il pubblico nel plauso delle stigmate in gloria di Dio o della Nazione… è parte del gioco giocato del cinema mercatale… che porta a versare sempre i medesimi singhiozzi o a lenire ingiustizie secolari. Insieme a Il padrino (The Godfather, 1972) di Francis Ford Coppola, che figura il canto più alto mai deputato alla mafia italo-americana… questi film rappresentano il grado di raffinatezza raggiunto nello spettacolare integrato di una società fluida, parassitaria, omologata in tutto, fino alla mutazione antropologica della corporalità popolare o metafisica della morte a favore di Dio e dello Stato, Pier Paolo Pasolini, diceva2… sono i medesimi stilemi espressivi che si ritrovano anche nei film di propaganda fascista, nazista, sovietica o del moderno comunismo capitalista russo e cinese.
L’antisemitismo contro le tradizioni delle comunità giudaiche attraversa l’Europa da millenni… cattolici, luterani, islamici o semplicemente stupidi… e ce ne sono anche tra intellettuali d’alto lignaggio, come Richard Wagner, Ezra Pound o Thomas Eliot, e perfino anarchici come Pierre-Joseph Proudhon o Michail A. Bakunin, non si sottraggono all’odio contro gli ebrei… che ritengono responsabili della “giudaizzazione del mondo”… e qui ci sarebbe di andare a fondo e sviscerare le responsabilità sulle economie di guerra — e corruzioni, sfruttamenti, repressioni —… a partire dalle baronie alla Rothschild fino alle tartuferie predatrici di Wall Street… chiunque conquista il potere a danno del popolo, getta la maschera e cede il passo al sangue della tirannia (come i sionisti israeliani contro i palestinesi nell’età moderna), e iniziano le discriminazioni, le deportazioni e gli assassinii di massa. Il crepuscolo degli dèi avviene sempre troppo tardi e quando un governo permette di affiggere cartelli con su scritto: “Vietato agli ebrei e ai cani”, noi siamo dalla parte dei cani e degli ebrei!
La cultura cannibalesca del profitto poggia sulla demagogia politica che ne tesse gli imperi… le università si prodigano a sfornare economisti, sociologi, psicoanalisti, giornalisti, specialisti digitali che vanno a costruire, difendere o servire una concezione poliziesca della storia che rappresenta la forma più estrema di alienazione politica, diceva Joseph Gabel, studioso e psichiatra ungherese, una figurina fuori album… e la sindrome del nazionalismo, del patriottismo e l’avvento dell’uomo forte sulla ribalta della storia non può che portare alla catastrofe… qui terrore e terrorismo si confondono… è forse una novità che l’intero mondo politico sia fatto da carogne e criminali? E lo spettacolo dell’olocausto non coincide forse con l’interesse comune e il bene generale di un’intera nazione? La vigliaccheria di un popolo non la si può nascondere nella mascherata d’una pretesa “supremazia della razza”… il fatto è che un Paese che si autoproclama nazionalsocialista, in realtà è alla mercé di poche centinaia d’imbecilli in divisa, medaglie e pugnali, i quali temono che un giorno la propria stupidità venga smascherata e gettata nelle fogne… insieme ai treni-merci che arrivavano in perfetto orario nei campi di sterminio col biglietto di sola andata a carico degli ebrei!
Nella civiltà dello spettacolo della modernità, qualcosa è cambiato… terrori e terrorismi (sempre manovrati dai servizi segreti delle nazioni dominanti)… si occupano di massacri di secondo grado… una guerra qui, una là… poi scattano gli aiuti internazionali gestiti dagli stessi che buttano le bombe sulle popolazioni civili… ai tavoli di pace nessuno fa sconti… non si parla di smetterla con la produzione di armi, si discute sulle ricostruzione delle macerie… i morti non contano… però servono ai premi internazionali di fotografia (cinema, letteratura, giornalismo, fiabistica per bambini con abitini firmati…) per solleticare nelle masse il volto del dolore colorato, in perfetta sintonia col mercato della falsità. In margine a una guerra dove ci siamo trovati a fotografare senza gioia i bambini iracheni che saltavano in aria sulle mine anti-uomo di produzione italiana, sembra le più affidabili… e le sequenze notturne dei bombardamenti americani sulla Città delle mille e una notte venivano diffuse nelle televisioni tra un telegiornale, un salotto politico, una messa del papa e un masterchef o uno stilista di moda che dissertano sulla munificenza della “meritocrazia”, il cui centro è la famiglia, il lavoro, il decoro… mai delle discriminazioni, gli sfruttamenti, le disuguaglianze… e senza che nessuno gli sputi in faccia.
Così, in margine ai libri che stavo leggendo in una stanza alla periferia di Baghdad, tra pulci e scarafaggi di una certa sfacciataggine, e colpi di fucile che sparavano alla luna (e ogni tanto spaccavano la testa a qualche bambino che mangiava nella spazzatura), ho appuntato nel mio Moleskine questo: — Nel novembre 1952, Gregory, il più giovane dei tre figli di Hemingway, poco più che ventenne, aveva ha scritto al padre: “Quando tutto si sommerà, diranno di te: ha scritto alcune belle storie, ha prodotto un romanzo e aveva un approccio fresco alla realtà, e ha distrutto la vita di cinque persone – Hadley, Pauline, Marty [Martha Gelhorn, la terza moglie di Hemingway], Patrick, e la mia. Che cosa pensi che sarà considerato più importante, il tuo romanzo egocentrico, le tue storie, o le persone?”. Diventare disumani anche negli affetti familiari è facile, perfino i grandi come Dickens, Rousseau o Balzac ci sono caduti, più difficile è lottare per il benessere collettivo… poiché l’umanità non ha bisogno di eroi ma di uomini e donne che hanno come preoccupazione centrale l’educazione formativa avviata verso l’amore di sé e dell’altro, che è alla base della trasformazione e rigenerazione radicale di un nuovo umanesimo fondato sulla società del dialogo.
Il termine “antisemitismo” è stato attribuito al giornalista Wilhelm Marr, siglato nel suo opuscolo, La vittoria del giudaismo sul germanesimo 3, ma a quanto ci risulta, questa parola non compare lì nemmeno una volta… e nemmeno c’importa se è vero, tanto è il ribrezzo che ci suscita… proviamo il medesimo disprezzo riguardo alle affermazioni antisemite sostenute nel libro rivoltante del conte Joseph Arthur de Gobineau (ambasciatore francese in Persia, Grecia, Brasile, Svezia), Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, uno dei primi esempi di “razzismo scientifico”, dove Gobineau scrive che “la storia sorge solo dal contatto con le razze bianche” e che le civiltà si sono sviluppate sotto la guida di razze ariane” (?!) 4. L’elencario sulla “scienza della razza” di intellettuali, artisti, scienziati di alto pregio accademico è lungo e variopinto… francesi, inglesi, italiani, tedeschi… hanno fornito tesi forbite sul mito e contro il mito della razza ebraica… e basta leggere lo studio importante di George L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto5, per capire che il razzismo e l’assassinio di massa risponde a una degenerazione della politica, della religione e dei saperi.
Le ideologie (anche quelle della società consumerista del XXI secolo) aspirano tutte e in vari modi al mattatoio sociale! Non esistono boia o clienti annoiati! Agonie senza epilogo, sì! In ogni cittadino si cela il santo e il macellaio e finite le esagerazioni verbali, entrano in ballo il rimbecillimento e l’assassinio registrato sotto il segno delle definizioni arbitrarie. Non si può andare alla verità facendo stragi degli indifesi, ci si può andare solo mettendo fine alla coscienza di morte che li concilia con l’immoralità del tempo! L’amore ricomincia vivere con ogni storia raccattata dall’inferno dei vivi… come il pane fresco che non ha il sapore del sangue che sgorga dal suolo che nutre gli assassini e ridiventa accoglienza, condivisione, parola che non appartiene a nessuna infamia. Ti amo come tu mi ami! E sulle labbra degli amanti felici c’è il non-luogo dell’amore che ci porta nel luogo dove non siamo mai stati. Nel desiderio di passioni colme d’inchiostro e abbracci di velluto appesi ad alberi di aggettivi! E ritrovare lì il pozzo d’infanzie intramontabili.
Siamo amareggiati che uno dei nostri cattivi maestri, E.M. Cioran (dal quale abbiamo imparato tutto, anche il coraggio di contraddirsi o inventare favole amare contro l’inettitudine generalizzata), nella sua giovinezza non abbia compreso che i totalitarismi di sinistra e di destra sono ugualmente inadeguati alla comprensione, accettazione, crescita del bene comune, e sconfitta del bene sul male inamidato su tribune, chiese o galere d’ogni folata autoritaria… come del resto la società mediocratica attuale dimostra… si uccide su vasta scala perché una minoranza di parassiti della finanza, della politica e dei saperi… possa continuare a educare, corrompere, sedurre uomini e popoli trasformati in linguaggi/merci, per meglio saccheggiarli anche nelle loro più intime realtà… nel corpo, nella carne e nel piacere… l’uccisione degli inerti sembra fungere da catalizzatore tra il criminale e il suo superiore… ammazzare ebrei insomma sprigiona quel miele impareggiabile dell’obbedienza che assolve tutti i peccati… nulla è più desiderabile di un omicidio senza giudizio… poiché porta a soddisfare la perversione del più forte sul debole e verso l’imperialismo della vita.
Cioran individua Hitler come coscienza di un’intera nazione… il 27 dicembre 1933, in una lettera all’amico e critico d’arte Petre Comarnescu (nel 2014 è risultato essere un informatore della polizia segreta della Repubblica socialista di Romania), scrive: “Alcuni nostri amici crederanno che sono diventato hitleriano per ragioni di opportunismo. La verità è che qui [Cioran si trovava in Germania nei giorni che Hitler sale al potere] ci sono certe realtà che mi piacciono e sono convinto che la cialtroneria autoctona potrebbe essere arginata, se non distrutta, da un regime dittatoriale”6. Come si vede, a volte anche le menti più eccelse cadono nella devozione e non avvertono nel nazismo un sistema di orrori e devastazione già presente nella propaganda del partito nazionalsocialista.
Nel 1934 Cioran scrive un articolo sulla rivista di destra Vremea (Il tempo) di questo tono: “Non c’è alcun uomo politico al mondo che mi ispiri una simpatia e un’ammirazione più grande di Hitler. C’è qualcosa di irresistibile nel destino di quest’uomo, per il quale ogni atto della vita della vita acquista significato solo attraverso la partecipazione simbolica la destino storico di una nazione (…) La mistica del Führer in Germania è pienamente giustificata (…) che ha fatto della personalità di Hitler un mito (…) I suoi discorsi sono pervasi di un pathos e di una frenesia che solo le visioni di uno spirito profetico possono toccare. Goebbels è più fine, più sottile, ha un’ironia più discreta, gesti sfumati, tutte le apparenze di un intellettuale raffinato e impeccabile (…) Il merito di Hitler consiste nell’aver tolto lo spirito critico a una nazione” 7. Cioran non si sottrae all’estasi collettiva che il popolo tedesco prova davanti al Führer… le parate, le marce, i canti, la folla che acclama vedono nella figura carismatica di Hitler la guida delle mille Germanie a venire… i tedeschi non vi ravvedono la caricatura in quel mito nefasto (lo stesso è successo ai fascisti italiani che divinizzarono Mussolini)… e l’esaltazione del cameratismo, dell’eroismo e di una nuova razza di uomini, furono il lasciapassare verso lo sterminio programmato… la mistica nazionale di coloro che hanno compiuto il loro dovere di criminali, stava nella sua glorificazione.
Diversi anni dopo Cioran è in Francia e ritorna sulla fascinazione avuta di Hitler nel 1933 e nei Quaderni si legge: “La mia ammirazione patologica mi ha avvelenato la vita. È stata la peggiore follia della mia giovinezza. Come ho potuto avere il culto di una nazione in fondo così poco interessante? Dei mediocri estremamente ostinati, senza alcuna indipendenza spirituale?” 8. Quando vede un film su Churchill e in una manifestazione nazista appare in primo piano Hitler, Cioran si accorge che “ha tutta l’aria di un pazzo da manicomio, con gli occhi persi, a tratti tesi e sconvolti, il viso attonito. Se una pallottola lo avesse ammazzato si sarebbero salvate milioni di vite” 9. Cazzo! Ci volevano tutti questi anni per capire la politica d’annientamento di un mentecatto che inneggiava all’assassinio, alla demenza, alla barbarie? L’antisemitismo gioca brutti scherzi, poiché i timori razziali sono vicini alle preoccupazioni sessuali e l’arianità diventa catalisi di frustrazioni, impedimenti, costrizioni private e collettive che svolsero una funzione epurativa del corpo impuro degli ebrei a favore dell’intero corpo nazista che si scioglieva nel mito del Führer!
Le ragioni del successo del nazismo poggiano sull’interrelazione tra le forze economiche, psicologiche e ideologiche che ne hanno determinato il carattere sociale… l’ideologia nazista ha esercitato le tensioni sadiche e masochistiche di un popolo sotto la mascheratura della virilità e del coraggio. In Anatomia della distruttività umana Erich Fromm lo spiega bene… c’è una stretta relazione fra il disturbo narcisistico e il fenomeno politico-sociale del nazismo, poiché nel rapporto dell’individuo con gli oggetti esterni, il narcisismo esprime la funzione di assorbimento degli impulsi libidici10. La carnalità del male di Hitler era alimentata da un’inclinazione all’odio e alla distruzione che si ritrovavano in tutti gli strati della società e sostenuta dai fabbricanti di armi, nobiltà, borghesia che profondevano in ogni anfratto sociale la “popolarità della guerra”, come la sola possibilità di riscatto messianico e liberatore da aggressioni esterne… il passaggio alla “pulizia etnica” è già nel programma politico del nazionalsocialismo.
Tuttavia ci sono sempre stati uomini e donne che hanno disobbedito e sono insorti contro l’efferatezze di re, governi, padroni, generali e dell’indifferenza… hanno agito (con tutti i mezzi necessari) contro l’effigie della tirannia al canto di Bella ciao e nessuno è mai stato ucciso perché le loro anime belle ci hanno fatto ritrovare la “più preziosa qualità umana: l’amore per la vita” (Erich Fromm). Tutto risponde all’uomo che crede nell’amore per l’uomo, niente ritorna all’uomo dalla malvagità verso gli altri, poiché l’odio genera odio e affoga nella merda delle ideologie dalle quali è nato.
In Guida perversa all’ideologia (2012), un film estraniante di Sophie Fiennes, il filosofo, sociologo, psicoanalista Slavoj Žižek, attraverso il disvelamento di film come Taxi Driver, The Dark Knight, Brazil, L’ultima tentazione di Cristo, Titanic, Full Metal Jacket, Tutti insieme appassionatamente, Cabaret, West Side Story o Il trionfo della volontà… mostra che ogni ideologia è una sorta di Dio ubriaco che risveglia atteggiamenti, comportamenti, megalomanie e il capitalismo postmoderno è il crogiolo che li promuove e li contiene tutti… dittatori, capitalisti, consumatori, artisti… si identificano o si sottraggono all’obbligo di avere un destino… e non è nemmeno troppo difficile comprendere come una parte dell’Inno alla gioia di Ludwig van Beethoven, possa essere il contenitore sentimentale nei raduni nazisti, parate comuniste o guerriglie clandestine (e palafrenieri dell’Unione Europea)… immagini, musica, parole cosparse di voluttà schizofreniche… si sostituiscono alla realtà e la religione della Coca Cola è la medesima della liturgia ideologica delle esecuzioni sommarie di popoli aggrediti… dopo le metafore, la “soluzione finale” degli ebrei, così si applicano i grandi convincimenti! Senza l’imperialismo del mercato e senza l’ideologia del crimine organizzato né la burocratizzazione della paura, le masse si sentirebbero orfane e la sovranità di pochi sul maggior numero, spiega il permanere della mattazione dell’umano nella storia.
Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler presta giuramento come Cancelliere nella camera del Reichstag, sotto gli sguardi allucinati e gli applausi indecorosi di migliaia di sostenitori del nazismo… il 20 marzo 1933 il prefetto di polizia di Monaco annuncia alla plebe l’apertura del campo di concentramento di Dachau e la segregazione di 5000 prigionieri politici, antinazisti, asociali o ebrei… Himmler invita i giornalisti a visitarlo e vedere l’efficienza nazista di “rieducazione” e “risanamento pubblico”… le agenzie d’informazione tedesche ne danno il risalto d’ordinanza… gli entusiasmi e le fanfaronate sono gli stessi dei “cani da riporto” della stampa odierna… e non vanno certo ammazzati, poiché non è bello vederli tremare di paura… quanto a me, se vi incontrassi per strada, state pur sicuri che v’insegnerò a vivere come a morire, coglioni!… e senza nemmeno abbandonarmi all’agio dell’improvvisazione.
Il secolo XVIII si porta dietro Progrom antisemiti documentati che lasciamo alla consultazione dei libri scolastici… poiché la storia dell’antisemitismo investe chiese, caste, partiti, banche e rivoluzioni… a dispetto dell’antisemitismo bollato dai Padri e Dottori della Chiesa (Sant’Agostino, Giovanni Crisostomo o Tommaso d’Acquino), tra il XIII e il XVI secolo gli imperi bancari concorrono all’instaurazione di regimi autoritari a fianco della Santa Sede 11. Va detto inoltre che su dodici membri del Comitato centrale del Partito Comunista Russo del 1918, nove erano ebrei. Dopo la rivoluzione d’Ottobre sorge il mito di Stalin e milioni di persone sono trucidate nel lager dai giannizzeri della bandiera rossa (dei quali il P.C.I. ne era degno complice, come nelle “purghe stalianiane” degli anni ’30). E poco importava essere ebrei, bastava esprimere diversità e dissensi contro la menzogna del comunismo di Stato.
Alla fine della prima guerra mondiale, la popolazione ebraica europea si concentra in tre grandi aree geografiche: 1.500.00 in Europa occidentale, 3.000.000 in Unione Sovietica e
4.500.00 in Europa centro-meridionale… cifre all’ingrosso per far capire l’entità della tradizione ebraica nel vecchio continente. Nel 1791, sulla spinta degli ideali egualitari, la Francia è il primo Paese che concede agli ebrei il diritto di cittadinanza… gli ebrei sono inseriti nelle grandi città (Berlino, Vienna, Londra, Amsterdam, Parigi)… e non sono solo venditori ambulanti, operai, artigiani o piccoli commercianti, ma banchieri, insegnanti, medici, giuristi, uomini d’affari, politici, artisti, letterati, educatori… l’antisemitismo è sotterrato ma non per molto… già nel 1924, un ex-caporale viennese con gli occhi da scemo in gita al Santuario del Cristo flagellato di Wieskirche, aveva scritto in un libro Mein Kampf (La mia battaglia): “Il giudeo si comporta secondo il suo scopo, si fonde col popolo e ne mina le basi: combatte col tradimento, con la falsità, tende al traviamento totale in modo da distruggere l’odiato nemico (…) Il primo dovere non è di formare una costituzione nazionale dello Stato, bensì quello di annientare gli ebrei” 12… si chiamava Adolf Hitler. L’oscenità perversa del nazismo sarà perfettamente incarnata in questo ometto con gli stivali incerettati, dalla fraseologia demoniaca che affascinerà un’intera nazione… il simbolo del declino di una società avvilita nel gusto e nello spirito, avviata nell’isteria assassina dei raduni di massa e finita, sempre troppo tardi, nella metafisica della vergogna. Una farsa finita in tragedia.
II Sulla cartografia fotografia dell’Apocalisse
La cartografia fotografica dell’Apocalisse o dell’annientamento del popolo ebraico, parte dalle immagini del fotografo personale di Hitler, Heinrich Hoffmann… un artigiano di bassa temperatura creativa… le fotografie Hoffmann costruiscono nella sala di posa la fisionomia di un dittatore e come un lugubre Cristo su sfondo nero, riflettono i moti, gli asservimenti e i sentimenti delle masse… Hitler si costruisce la statura di leader del nazismo su un’oratoria primitiva che faceva leva sull’inconscio collettivo… arringava le folle così: “La rivoluzione tedesca non sarà completa se non quando l’intero popolo tedesco sia stato rimodellato, riorganizzato e ricostruito”13. Nelle sedute fotografiche con Hoffmann furono studiati gesti, atteggiamenti, inflessioni del corpo e del viso… si vede che Hitler cerca l’immagine simbolica di sé da dare un che di sacro al pubblico… una traslazione di fede incondizionata sull’uomo che trascende in mito. Hitler si prende così sul serio che in molte fotografie cade nel ridicolo… come quella che lo ritrae in pantaloni corti di pelle bavaresi con la croce uncinata sulla camicia bruna o quella che sembra interpretare un comico da filodrammatica che apre le mani alla platea o quella davvero inquietante che stringe il pugno e lancia un sguardo divinizzato contro l’avvenire 14… la follia omicida di un tiranno è già tutta qui, peccato non sono stati molti ha intravedere che dietro tutti i monismi, monoteismi e monocrazie si celano demonologie sacrali che portano a violenze, deportazioni e massacri efferati… e sono le prerogative di coloro che fanno della fede in qualcuno o qualcosa (un Dio, un Tiranno o uno Stato) per coprire la loro originaria vigliaccheria.
La fotografia dell’Apocalisse persegue una filosofia del margine… ogni immagine si richiama l’una all’altra come anelli di una sessa catena… come se ogni verità che la fotografia comunica, porti luce là dove l’ombra del boia ne definisce le sorti di un bambino, di una donna o di un vecchio perseguitati perché ebrei… questo ci sembra identifichi l’opera fotografica di Roman Vishniac contro le pulsioni di morte della prepotenza nazista… la significazione dei suoi ritratti proviene dal viso, dai corpi, dai momenti che rinascono nella cancellazione dell’inconsentito… un modo di vedere l’infinita violenza della violenza interrogata, opposizione a una misera storia di crudeltà e derisione verso un’esistenza senza fucile… una fotografia che non ha dimenticato il suo nome di poesia e che passa attraverso la liberazione dell’immaginario circonciso… quell’infinito altrove di un popolo ostinato che conosce il nome di tutte le stelle e quello di tutti i libri, e significazioni del mondo come irrecusabile verità del dolore delle origini.
Roman Vishniac nasce in una famiglia agiata a Pavlovsk (San Pietroburgo) nel 1897. Il padre aveva una fabbrica di ombrelli e la madre era figlia di commercianti di diamanti… cresce la sua infanzia a Mosca… è affascinato dalla biologia e dalla fotografia… pubblica a sue spese i suoi studi di zoologia e dopo la rivoluzione d’Ottobre (1918), si trasferisce con la sua famiglia Berlino… qui sposa Luta (Leah) Bagg e nascono due figli, Mara e Wolf. Nel 1935, con la crescita dell’antisemitismo in Germania, l’American Jewish Joint Distribution Committee (JDC), un’organizzazione di soccorso ebraico americano, lo incarica di fotografare le comunità povere ebraiche nell’Europa orientale… fa diversi viaggi nei ghetti ebraici, fino al 1938… nel 1939 la moglie e i figli si trasferiscono in Svezia… nel 1940 Vishniac viene arrestato a Parigi dalla polizia del maresciallo Pétain e internato a Camp du Richard, un campo di deportazione a Indre-et-Loire. Con l’aiuto della JDC riesce a fuggire e raggiungere New York. Apre uno studio di ritrattistica, fotografa anche la vita della comunità ebraicoamericana, tra i suoi ritratti più celebre è quello di Albert Einstein, invero non proprio un capolavoro. Per far conoscere le condizioni di povertà degli ebrei nell’Europa centrale, espone le sue fotografie al Teachers College, Columbia University… che non sortirono il riconoscimento sperato. Nel 1947 torna in Europa e documenta i campi profughi e le rovine di Berlino e registra i racconti dei sopravvissuti all’Olocausto per la JDC. Scienziato, ricercatore, soggettista e creatore di molti film scientifici… insegna filosofia generale e religione nella scienza, anche fotografia… riceve lauree honoris causa in diverse università e muore a New York il 22 gennaio 1990. Il suo archivio è stato donato dalla figlia al Magnes Collection of Jewish Art and Life, poi al museo di storia, arte e cultura ebraica, Università della California, Berkeley.
A ritroso. Tra il 1935 e il 1938 Vishniac scatta oltre 16.000 fotografie nelle comunità ebraiche in Germania, Polonia, Romania, Cecoslovacchia, Lituania… quando arriva negli Stati Uniti si porta cuciti nei vestiti 2000 negativi… l’intero lavoro è lasciato a suo padre in Francia, a Clermont-Ferrand… nascosto sotto le assi del pavimento. Si faceva passare come un venditore ambulante… venne anche arrestato ma riuscì a cavarsela corrompendo chiunque lo ostacolasse… l’affermazione di Vishniac sulle attrezzature è controversa… la Leica, la Rolleiflex, il cavalletto, la lampada a cherosene… pesavano 52 chilogrammi e li trasportava sulla schiena nei villaggi arroccati sulle montagne o lungo le strade sterrate delle pianure… a noi importa parlare del linguaggio e della filosofia di un poeta della fotografia, il resto lo lasciamo ai dibattiti accademici e alle virgole degli storici. Anche perché “nel dire, niente è mai abbastanza detto che non aspiri ad essere detto nuovamente, ma in altro modo” (Edmond Jabès) 15. Ciò che si mostra nel vero, afferma il crimine e anche la sua irragionevolezza malvagia! L’apocalittica della paura è l’ultima voce prima del terrore del silenzio.
Il libro di Vishniac, Un mondo scomparso, segna l’inizio della catastrofe nazista. Nella prefazione Elie Wiesel scrive: “Non dimenticare, non lasciare che l’oblio cancelli la memoria: questa è la sua ossessione. Sfidando tutti i pericoli, superando ogni ostacolo, [Roman Vishniac] viaggia di provincia in provincia, di villaggio in villaggio, cogliendo bassifondi e mercati, un gesto qui e un movimento là, immagini di speranza e di disperazione; perché le vittime non svaniscano completamente nell’abisso — perché continuino a vivere, dopo la tortura e il massacro. E ha vinto la scommessa: vivono ancora” 16. Un’annotazione a margine: Ogni dittatura vittoriosa finisce per crollare, perché le sole virtù con le quali ha soggiogato il popolo, sono le armi, la fede è il senso mercantile della patria. A quanto la storia ci ha insegnato, la libertà non sembra indispensabile per l’uomo: nella testa infranta di un cretino prende forma l’euforia certa dell’idealista.
L’iconografia del dolore di Vishniac non teme la testimonianza ma chi la sveste di terrore… le sue fotografie sono ferite tagliate nella pietra… segni di storie eterne… conoscenze che passano per la scelta d’amore e accusano l’assassinio… reclamano tutto ciò che hanno visto e mostrano inciso nella cenere la rivelazione, il carattere e la promessa che tutto questo non avvenga mai più. Spezzare la fotografia nel vero è dar gioco alla fotografia e avvicinarsi il più possibile all’origine del male… raramente si sono viste immagini come quelle di Vishniac nella storia della fotografia… poiché il fotografo si tirava fuori da ogni compiacimento miserabilista e vedeva i ritrattati non come vittime, ma come persone che scrivevano col corpo il lutto e la salvezza della loro storia.
A ragione, Walter Benjamin affranca la fotografia alla psicoanalisi e sostiene che agisce sull’inconscio della vita comune… svela un aspetto altro della realtà e porta nel mondo visibile le tracce di quello celato o scomparso, certo… la fotografia esprime una metafisica della realtà che scinde o lega fotografati e fotografo nell’immagine fatta… infatti non pensiamo che davanti all’epifania del gesto fotografico, il fotografo deve “dimenticare di essere se stesso” o “non pensare perché la cosa riesca”, come dice Henri Cartier-Bresson, il maestro… ma piuttosto il contrario… il fotografo è sempre specchio-memoria di sé e di ciò che fotografa… ogni immagine è un’autobiografia o è solo l’estetizzazione della realtà… poiché, come dice Cartier-Bresson, “la fotografia è molto più vicina all’arte della scultura in bronzo perché, come lei, non permettete ripensamenti”17. La forza visiva che fuoriesce dalle immagini di Vishniac, differisce dalla pretesa oggettività del reportage, si mette in rapporto col fotografato e ne racconta l’oscurità, la delicatezza o la dissidenza… le sue immagini della povertà ebraica in Europa sono una lettura o un’interrogazione su un infinito male sociale in atto… i forni crematori non saranno il solo e unico crimine dei nazisti, ma alla luce della storia, sicuramente il più abietto mai conosciuto.
La scrittura fotografica eversiva di Vishniac si ritaglia sull’iconografia della passione sacrale degli ultimi dei giusti e sotto una visione di estrema verità riesce a mostrare che non esistono “mondi scomparsi” né sconfitti, ma memorie storiche che possono contribuire a fermare i massacri che una parte di umanità ha portato (e porta ancora) contro i propri simili in nome di Dio, del popolo e dello Stato (mascherati sotto il nome di progresso). La bellezza della terra è stanca. Gli uomini l’hanno violata. Gli ulivi dei patriarchi sono stati tagliati e la civiltà dello spettacolo è al culmine della disperazione. “Non sono contrario alla fine del mondo, ma preghiamo l’autorità celeste di non concedere più arche” (Guido Ceronetti). Quando si profana la gioia, tutti i cieli sono svaligiati. Ogni crimine ha i suoi fondamenti nell’ordine costituito.
La fotografia rubata al delirio del potere nazista di Vishianc, figura la dignità tutta intera di un popolo, quello ebraico (prima dei fasti terroristici dello Stato di Israele contro genti dello stesso sangue). Vishianc è un poeta dell’immagine sdrucita, un testimone di speranze spezzate e più ancora il cantore di una coscienza popolare che grazie alla sua opera resterà indelebile negli occhi e nel cuore di tutti gli umiliati e gli offesi. La sua è stata una missione di pace contro i Pogrom della rapacità e una testimonianza radicale della vita ebraica dilaniata che mette sotto accusa la speranza esiliata, dove non c’è più possibilità di pensare un altrove senza essere impiccati col filospinato. Le immagini amorose di Vishianc esprimono una visione aurorale dell’abbandono, della solitudine e della speranza insieme… srotolano i deserti si spine sui confini dell’incompiutezza e valicano il limite ineluttabile dell’oscurità dei prosatori di facezie documentali… chiosano il tremore e anche la gioia di un passato e l’inizio del futuro incendiato di slogan razziali, si abbeverano sulla soglia dell’indicibile e disconoscono la colpa delle stelle gialle che gli hanno cucito sui vestiti sdruciti… la domanda di tanto dolore appartiene all’immaginario che la fotografia suscita nello sdegno della disgregazione. Per resistere al boia ci sarà sempre una lacrima sgualcita di speranze che cade, sempre tardiva, sull’amore di chi è stato privato dell’amore.
Nei primi anni ’30 in Germania già si parlava di sterminare gli ebrei. In modo particolare i bambini, le donne, gli svantaggiati, gli omosessuali, i “quasi adatti”… non ci poteva essere futuro per i “figli di David” nella terra dei Nibelunghi e ovunque il potere nazista fosse arrivato. Tra il 1934 e il 1939 Vishianc scatta migliaia di immagini, di nascosto, in situazioni difficili, pericolose… ricordiamolo… per questa impresa il giovane ebreo conosce la galera e la fuga. Molte delle fotografie che aveva sottratto alla realtà ebraica, sfigurata dalla follia di Hitleriana, furono (in parte) distrutte dai suoi carcerieri… quando (in modo rocambolesco) riuscì a sbarcare negli Stati Uniti (1940), aveva addosso (cuciti sotto gli abiti) un pugno di negativi (circa 2000). Il resto del suo lavoro l’aveva consegnata al padre in un villaggio francese (Clermont-Ferrand) e lì rimase per tutta la durata del conflitto mondiale.
Vischianc andò errante per città, villaggi, periferie povere dell’Europa hitleriana e riuscì a fotografare l’intimità disagiata di un popolo. Gli ebrei, inoltre, non sono facili a farsi fissare sulla pellicola. Il divieto biblico (la Tōrāh ) di celebrazione delle immagini li rende scettici o schivi alla loro ritrattistrica. Quando Vishniac è chiamato a riflettere sulla sua opera dice: “Perché l’ho fatto? Una macchina fotografica nascosta per registrare il modo di vivere di un popolo che non desiderava essere immortalato dalla pellicola: può sembrare una cosa strana. Era folle entrare e uscire da paesi dove la mia vita era costantemente in pericolo? Qualunque sia la domanda, la mia risposta resta sempre la stessa: doveva essere fatto. Sentivo che il mondo stava per essere gettato nella folle tenebra del nazismo, e che il risultato sarebbe stato l’annientamento di un popolo che non aveva nessun portavoce per registrare il suo destino. Intendiamoci, la sua fede assoluta in Dio potrebbe aver impedito la ricerca di un salvatore umano. Sapevo che era mio compito assicurarmi che questo mondo scomparso non svanisse del tutto” (Roman Vishniac)18. La libertà di pensiero è più forte delle gogne, degli spari e delle esecuzioni sommarie. Perché è nel pensiero che si distruggono gli dèi e le sapienze degli angeli ribelli annunciano le realtà immaginate… dove la verità muore di verità e tutte le follie di liberazione sono divine.
Come un grande “figurinaio”, Vishniac affabula immagini di speranza e disperazione che rappresentano un atto di accusa contro la rapacità e l’indifferenza dell’intera umanità verso la “soluzione finale” di Hitler contro gli ebrei (almeno fino alla “scoperta” dei campi di sterminio degli Alleati)… queste icone di sofferenza e di liberazione continuano a vivere in noi e tra noi, anche dopo il genocidio. “Attraverso il mio dolore personale, vedo con l’occhio della mente i volti di sei milioni di persone appartenenti alla mia gente, innocenti, brutalmente assassinate per ordine di un essere perverso. Il mondo intero, gli stessi Ebrei che vivevano sicuri in altre nazioni, compresi gli Stati Uniti, stettero a guardare e non fecero niente per fermare il massacro. Il ricordo di coloro che sono stati spazzati via deve proteggere le generazioni future dal genocidio. È un mondo scomparso, ma non sconfitto, colto in immagini realizzate con una macchina fotografica nascosta” (Roman Vishniac). La dottrina della razza era già penetrata negli stereotipi della “superiorità germanica” e i “rossi” e gli ebrei, in modo particolare, erano il nemico da eliminare. L’antisemitismo divenne anche una redditizia politica elettorale, l’accidia montante del nazismo contro gli “stranieri” investì ogni ceto sociale e anche la chiesa cattolica e luterana adunava i fedeli all’ombra della croce uncinata. I contagiati dal razzismo non erano solo i proprietari terrieri, gli industriali, i banchieri, i militari… ma l’intera società tedesca… il bell’ariano schiacciava il brutto ebreo ed era la diretta espressione politica del governo che ne dettava gli ordini. Proprio come succede ai nostri giorni…gli stranieri, i migranti, gli sfuggiti dalle guerre, dalla fame e dalle morte alle frontiere dei “paesi civili”… sono considerati degli appestati da sfruttare, emarginare o sopprimere. La catechesi della bruttura mostra i volti dell’uomo rattristati. Per distruggere un sogno non bastano più le “bombe intelligenti” dei governi emancipati, il deicidio dei poveri è consumato nei supermercati dell’imbecillità globale delle guerre.
Cronache dalla Storia illustrata del nazismo 19, per comprendere a fondo la sua ferocia… le immagini parlano da sole. Germania imperiale. In principio era la fame. La guerra era stata perduta. I bambini mangiano carcasse di cavalli nelle strade. Un paranoico con i baffetti da cassiere (ladro) della provvidenza sociale, Adolf Hitler, scrive Mein kampf (La mia battaglia, 1925) e di lì a poco il delirio di un antisemita diventa collettivo. Il regime nazista di Hitler si buca da sé. Tutto è troppo falsamente epopeico perché una carnevalata di questo genere possa durare. Le facce torve dei padroni sono le stesse dei soldati aggrappati ai fucili e alle bandiere uncinate. Il cabaret impazza. Le calze con la giarrettiera di Lola (Marlene Dietrich) fanno epoca. Si bruciano i libri e si inaugurano i campi di sterminio. Papa Pio XII sta al balcone del Vaticano a guardare, intanto i suoi vescovi spruzzano di olio santo i cannoni nazisti che occupano l’Europa.
Non manca nemmeno la documentazione sull’incontro di Hitler e Mussolini a Firenze, nel 1938. La folla applaude, come sempre, i tiranni, i re, i generali e i tribunali della Santa Inquisizione. La guerra è vicina. Le lacrime anche. 60 milioni di morti sarà il bilancio del secondo conflitto mondiale. Gli italiani del ventennio fascista, voltagabbana di professione, stanno prima con i nazisti e i giapponesi, poi con gli americani, gli inglesi e i francesi. La nascita dell’era atomica debutta a Hiroshima (1945). A Yalta, Churchill, Roosevelt e Stalin si spartiscono il mondo. La Shoah degli ebrei resta a testimoniare la cattività dell’uomo contro i propri simili. Poi il processo di Norinberga, il muro di Berlino e la fine del comunismo sovietico chiudono il libro. Una lunga carrellata del dolore esplode negli occhi. E ci porta riflettere come la civiltà dell’umanità sia un illusione e come gli uomini non siano ancora riusciti a cancellare dai piani economici/politici dei Paesi ricchi, ogni forma di guerra. Per non dimenticare che “Il lavoro non rende liberi” e “Dio non né con noi”, ma dalla parte del plotone di esecuzione, occorre balzare in piedi e dire no! a ogni guerra e a ogni violenza che un pugno di bastardi ha organizzato contro intere popolazioni. L’obbedienza non è mai stata una virtù. Disertare da ogni tipo di consenso è anche un modo di rompere il flusso dell’obbedienza. Bisogna disobbedire dunque, e con ogni mezzo, ai signori dell’odio, in attesa di dare loro ciò che si meritano. Ventitré pugnalate o forse basta uno sputo.
Un’annotazione fuori margine. Ai nostri giorni, mentre nell’Europa della magnificazione dell’opulenza e della discriminazione razziale — a proposito delle migrazioni nel Mediterraneo e alle frontiere di molti paesi —… i venti di guerra tra dittatori, tirannelli e tavoli dell’Onu investono lo sconcerto delle popolazioni… nell’italietta tutta casa, chiesa e banche… le forze dell’ordine fanno sentire il proprio ruggito, ma è solo il belare di protettori in divisa che confondono la poesia con l’eccentricità… e già s’inserisce nell’immaginario collettivo il bisogno di giustificazione di questo o quel despota (come il compagno Putin) che proclama la denazificazione di una nazione (che ha suo tempo ha prodotto oltre un milione di morti del popolo ebraico a fianco dei nazisti) e innesta un guerra di portata globale… raccontata dalle agenzie televisive con la medesima spettacolarità delle pubblicità… può capitare, dicevo, che un poeta del profondo Sud molisano, uno di quei grandi che fanno poesia fuori dalle conventicole editoriali, Valentino Campo da Campobasso… possa essere fermato da solerti carabinieri, mitra in mano… e dopo la domanda di controllo dei documenti gli venga richiesto di aprire il portabagagli e le valigie… il poeta dice fra se e se che forse l’avranno scambiato per un trafficante d’armi proveniente dai Balcani e non d’essere un’esegeta della poesia di Dante… apre il trolley e viene fuori una cartucciera di libri… i carabinieri restano delusi… anche confusi, forse un po’ spaventati dai titoli dei libri di filosofi e poeti fuori schema… tra i quali Il processo di condanna a Giovanna d’arco… il più sveglio gli chiede se si occupa di esoterismo o se è un mago… il poeta infila un sorriso sarcastico alla Pasolini e pensa che i carabinieri forse hanno capito che quelle copertine sono più pericolose delle armi, perché dicono che la pace si fa con la pace… più ancora che la guerra muore con la prima parola osata che porta alla fiducia dell’umano nell’uomo… quando si bruciano i libri, il passo successivo è il rogo degli uomini.
Vishniac aveva compreso che il silenzio secca il sangue nelle piaghe degli offesi e si fa testimone supremo del mondo ebraico martorizzato. Le sue immagini evocano il dolore e i suoi personaggi (i rabbi, i venditori ambulanti, i mendicanti, i vecchi, i bambini…) sono avvolti in una sorta di amore fanciullesco, malinconico e gioioso che è proprio del cuore di tutti gli utopisti. Vishianc non vuole che l’uomo dimentichi e lasci nell’oblìo la cattiveria della sua politica… dai suoi ritratti emerge anche la grande possibilità amorosa di accoglienza, ospitalità, condivisione che l’uomo può porgere all’altro uomo. I bambini sporchi nelle strade, i vecchi avvolti in cappotti lacerati, le donne relegate in stanze malsane, artigiani, venditori ambulanti, gruppi di ebrei che si affastellano davanti a botteghe destinate alla sopravvivenza… vanno a comporre un atlante di geografia umana della sofferenza, dove qualsiasi cosa che accade è colpa delle tue origini! Una seminagione dell’intolleranza che fa dell’ingiustizia il calvario di tutte le aberrazioni del potere nazista.
A nostro avviso, e per quello che vale, è nella ritrattistica dei bambini che Vishniac ripone l’eliminazione e al contempo la risorgenza del popolo ebraico nell’Europa orientale… la lucentezza dei fotografati supera la “straccioneria” nella quale si trovano ed espongono la loro interiorità alla fotocamera in un legame di solidarità, d’amarezza della propria condizione, ma tuttavia di una salvezza futura che disconosce l’impero del male… il disvelamento del sé che indica l’oppressione e come spezzarla… la paura, il timore, il tremore e la gioia di un’infanzia ammaccata segna la fine e l’inizio della speranza, una creazione di valori che condannano l’odio… e siccome non ci sono limiti alla disperazione, non ci sono nemmeno limiti alla speranza, Vishniac affabula l’iconologia della mia parola è no!
A vedere con attenzione i bambini frantumati nella storia nazista come sommersi e salvati nelle fotografie di Vishniac… non è difficile cogliere il rapporto culturale che hanno con i vecchi… studiano le loro origini, giocano tra le immondizie, sorridono al fotografo o rivendicano lo sdegno dell’ingratitudine o di una possibile felicità… i vecchi girano per le strade con i libri sotto il braccio, i bambini si raccordano alla loro saggezza sui banchi di scuola al lume di candela, portano i latte ai più piccoli o decifrano la povertà fuori da giudizi morali e chiacchere insensate… sono parte di un antico processo culturale ebraico che unisce o affratella gli esseri umani. Ogni bambino fotografato nel candore della propria verità, risponde all’interrogazione di tutti i bambini che saranno massacrati dalla rapacità nazista (oltre un milione) e quegli sguardi di seta, odore di olive al forno e profumi di gelsomino che hanno addosso, non li definisce “martiri” ma “eroi” senza eroismo che restituiscono alla parola amore il suo significato più profondo e inconosciuto.
Nella nostra lettura partigiana dell’opera di Vishniac, vogliamo scegliere tre di questi stupefacenti bambini che contengono l’universo pedagogico dell’uomo-fotografo… poiché l’amore verso l’Altro presiede nel cammino che porta al tramonto del male, dove tutti saranno ciò che sono… dove il divenire è forgiato con le proprie mani e la libertà di gioire e vivere è nascosta in un barattolo di marmellata condiviso… dove la parola è la traccia che non si congeda dalla bellezza, semmai la rivela… dove le memorie non raccontano più Auschwitz, ma lo seppelliscono nel grido di vita dell’esiliato che ritorna all’amore. Senza dimenticare mai che la sola patria sopportabile è quella dove non ci sono profeti, né santi, né martiri, poiché dietro di loro si celano i prossimi boia!
- La bambina avvolta di coperte in una camera dove sui muri ancora resistono dei fiori (la resilienza la lasciamo ai prosatori del pressappochismo), rimanda a una grazia ingannata… a un’estensione del terrore che la contempla per distruggerla meglio! Qui il fotografo coglie la trasparenza dei sogni di una fragilità che abolisce i limiti della dolcezza… la bambina denuncia, senza volerlo, tutto ciò che la imprigiona nell’intolleranza… un visibile sospeso tra la meraviglia e il segreto che l’impicca. Un terreno di verità dove la violenza è il giudice, sentenza e delitto ratificati… non c’è nessuna partenza perché non ci sono approdi… ma ci sono gli angeli intorno a lei… si vedono, se vogliamo… che turbano anche l’incondizione di un Dio/mito malvagio che dà prova della sua desolazione. La fotografia parla dove tutt’intorno tace! L’immagine della bambina presagisce ciò che una civiltà rudimentale uccide.
- Il bambino nella strada fangosa di un remoto villaggio, stringe un mucchio di fogli di chissà quale libro e guarda stupito il fotografo che richiede il suo ritratto… evoca un immediato spargimento di sangue… la crudeltà nazista spazza via ogni ingenuità che brucia nel disvalore delle ordinanze che indicano la strada… la protezione del sapere, del conoscere, dell’attraversare il soffocamento delle ideologie non basta… perché tutte i credi sono falsi, corrotti, malvagi e vanno abbattuti. In quelle pagine sciolte che il bambino stringe al corpo, c’è un’educazione superiore, un nuovo senso d’identità e una filosofia creatrice di valori che nessuno può distruggere. Il fotografo così lo vede, così lo cattura alla sua semplicità, e così lo trasporta in un nuovo umanesimo.
- Il bambino incappottato sul letto è diviso tra lo sgomento e l’impaurito… qui Vishniac ci fa percepire una matrice sociale violata che l’attende… la scena di un disonore inammissibile o il cadavere olezzante di folle abbacinate dal marciume nazista… ma la bellezza è inadatta all’agonia e l’ingiustizia sussiste in funzione della sua fine. Le mani del bambino si alzano a protezione della sua nudità e lo sguardo penetra la fotografia fino all’osso dell’indifferenza… perseguire la verità non è sufficiente, per renderla eterna occorre che la verità nasca dell’innocenza del divenire di un bambino che si mostra ignudo all’eternità del male.
Queste poche immagini sono sufficienti, per noi, a conferire alla cartografia fotografica di Vishniac lo statuto di poetica dell’interrogazione… un’alfabetizzazione dell’istante fotografico che accarezza la vista e l’odorato, che mette sotto accusa la spietatezza della negazione dell’amore… un’estetica della sacralità che porta all’emozione e restituisce volti e voci a una minuscola stella bambina o a una manciata di mandorle amare, lasciate alla deriva d’azzurrate malinconie protette dell’infanzia e affogate nel sangue versato nelle lacrime. La lucentezza creativa del fotografo non riguarda solo il presente in rovina, ciò che ci trasmette al primo impatto, ma ciò che resta anche del futuro… una fragilità e al contempo una forza che non possono essere rappresentati o configurati in un’attimo rubato alla realtà… le sue immagini contengono una filosofia di vita accarezzata dall’amore e quando scompare resta l’immensa violenza subita. La fenomenologia dei corpi in amore di Vishniac non ci lascia perplessi ma indignati e come l’indefinibile silenzio degli amanti racchiuso in un sorriso o nel rosso di un bacio appassionato, nasce e vive in una respiro mozzato… poiché l’amore è una soglia ed è inciso nel blu del fuoco che brucia le parole… il silenzio che sale è l’incendio di tutte le vite/cose disconosciute alla parola amore!
Ogni conoscenza è interrogazione e ogni patibolo la sua risposta… solo l’infinito altrove è vero, perché si fa beffe d’ordinarie follie… l’interrogazione appassionata del mondo si staglia in possibili nascite dell’utopia e si trasforma in altre interrogazioni che condannano l’impostura all’oblìo… sciabolate di luce che accecano gli accecatori e liberano i polsi dalle catene e dall’umiliazione dell’idolatria… passare dalla distruzione alla discreazione: “far passare qualcosa di creato nell’increato” (Simone Weil), significa attuare un processo di trasformazione culturale, politica, sociale teso a rovesciare codici, morali e valori falsi… il linguaggio, lo stile, il tono adottato sono gli arnesi indispensabili (insieme ad altri utensili più appropriati, anche) per lavare la vergogna di popoli e padroni, e riportare l’uomo liberato alle scaturigini dell’esistenza.
Di Roman Vishniac: “È è stato un uomo generoso, affettuoso, che la sua missione ha reso ardito. Ognuna delle sue fotografie nasconde un rischio. Un giorno, forse, ci racconterà di come ha raggirato la Gestapo. E le spie. E la morte. Un giorno ci racconterà… gli inganni, i travestimenti, i trucchi che ha dovuto usare per riuscire a penetrare in questo luogo, per avvicinare quello studente, per cogliere la luce fioca di una certa scuola. Un giorno ci racconterà dei templi saccheggiati, del naufragio della preghiera, della desolazione che aveva previsto, che aveva visto prima ancora di fotografarla per affidarcela in custodia.
Poeta della memoria, poeta elegiaco delle speranze infrante, Roman Vishniac resta il primo e il migliore nel segno della fedeltà” (Elie Wiesel)20. Il fuoco di Eraclito come la torcia perenne che brucia alla memoria di milioni di martiri a Gerusalemme… giudicherà l’universo governato dalla violenza dei totalitarismi e delle moderne istituzioni politiche… solo i disertori dell’innocenza portano in loro il crollo degli imperi… perché a un’era di agonia preferiscono l’apocalisse della gioia.
La fotografia dell’estremità, del limite o dell’esilio di Vishniac è una lezione di amore e di risolutezza poetica che un uomo ha donato alla sua gente. Nei suoi ritratti si respirano le schegge della coscienza e le pugnalate della storia. La forza espressiva di Vishniac è insolita e irripetibile. La “brutalità” o se vogliamo, la rozzezza dell’inquadratura, i tagli arbitrari, l’occasionalità della luce… non vanno a rompere quell’equilibrio magico, quello sguardo dell’autentico, quella riservatezza o presenza del sogno… che fanno della sua fotografia una lingua dell’agorà (della piazza) che si chiama fuori dall’inclinazione all’aridità di una società che riluce nella sua decomposizione. È anche un ponte, un percorso, un cercare altri territori dove la comprensione, l’amore, l’incontro tra le genti sono all’inizio della comunità dell’arcobaleno (multietnica) da conquistare. Se poi una parte di ebrei si sono comportati come i loro aguzzini, hanno rappresentato di nuovo il terrore, le torture, la spietatezza contro gli inermi o i ribelli, in Palestina, ed esempio… questa è il proseguimento e la conferma dell’infinita miseria di ogni potere. Una volta diventata sovrana la vendetta, ogni forma di giustizia muore.
La fotografia del dolore di Vishniac si rivolge al cuore perché è nel cuore che l’immaginale si fa mondo. La visione del cuore è anche la passione dell’anima che riflette il risveglio dell’uomo. Dove è il cuore, lì saranno anche bellezza o disperazione (sant’Agostino, diceva). Ogni cuore è cuore di re. Perché il sentimento d’amore e di fraternità dell’uomo per l’uomo è il bene più importante e più bello di tutti gli uomini. “Gli ebrei moriranno di fame e di stenti, e della questione ebraica resterà solo un cimitero”, disse Ludwih Fischer, governatore tedesco di Varsavia, e tra il 1940 e il 1943 fece murare gli ebrei nel ghetto di Varsavia, e poi passò al loro sterminio. I nazisti hanno cercato di ridurre in polvere l’eco di secoli stellati di bellezza e prossimità, anche di mistero e del possibile e dell’impossibile del popolo ebraico… ma le anime delle stelle gialle di David, bruciate nei formi creamatori o gasate o ammucchiate nelle fosse comuni, i nazisti non sono riusciti a eliminarle né a cancellarle per sempre… le hanno solo private dei loro corpi, dei loro volti, delle loro gioie… tutte queste anime sopravvivono nelle icone della sofferenza, della disperazione e del dolore rubate alla storia dell’orrore da Vishniac, la loro bellezza è ancora intatta, ed è il punto più vicino fra il genere umano e l’eternità.
- 1 E.M. Cioran, Il funesto demiurgo, Adelphi, 1986
- 2 Pasolini, Le lettere, a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini, Garzanti, 2021
- 3 Wilhelm Marr, La vittoria del giudaismo sul germanesimo, Effepi, 2011
- 4 Joseph de Gobineau, Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, ristampa anastatica, Roma 1912, Edizioni AR, 2010
- 5 George L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, Editori Laterza, 2005
- 6 Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione, a cura di Giovanni Rotiroti, Mimesis, 2013
- 7 Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione, a cura di Giovanni Rotiroti, Mimesis, 2013
- 8 E.M. Cioran, Quaderni 1957-1972, Adelphi, 2001
- 9 E.M. Cioran, Quaderni 1957-1972, Adelphi, 2001
- 10 Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, 1975
- 11 Léon Poliakov, I banchieri ebrei e la Santa Sede dal XIII al XVII secolo, Newton Compton, 1974
- 12 Adolf Hitler, Mein Kampf. Le radici della barbarie nazista, a cura di Giorgio Galli, Kaos Edizioni, 2006
- 13 Alan Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, Mondadori, 1979
- 14 Con appena 475 Euro, le fotografie di Hitler scattate da Hoffmann possono essere acquistate dall’Agenzia Gettyimages… e sono molti i clienti interessati alle immagini sacrali di dittatori (Stalin, Franco, Mussolini, Mao Tse-tung…), tutta gente che aspira all’omicidio da barbieri, al taglio della gola degli indifesi… la leucemia del cervello è il giardino dove fiorisce l’impostura di un Dio… edificante adorazione di un’istituzione del male.
- 15 Edmond Jabès, Il libro dei margini, Sansoni Editore, 1986
- 6 Roman Vishniac, Un mondo scomparso, E/O, 1986
- 7 Jean Clair, Henri Cartier-Bresson, Tra ordine e avventura, Abscondita, 2008
- 18 Roman Vishniac, Un mondo scomparso, E/O, 1986
- 19 Storia illustrata del nazismo, Giunti 2002
- 20 Roman Vishniac, Un mondo scomparso, E/O, 1986