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Ennio (2021), di Giuseppe Tornatore

Inserito da serrilux

Ennio (2021), di Giuseppe Tornatore

“Semplicemente fondarmi su una verità chiara, cioè fedele a un solo taglio di coltello”.
Antonin Artaud

 

ùIl documentario di Giuseppe Tornatore su Ennio Morricone (Ennio), è un atto d’amore verso un amico e compositore di musica che ha attraversato cinquant’anni di storia del cinema internazionale e molto altro ancora… nel 2017 gli americani hanno assegnato a Morricone il premio Oscar onorario e nel 2020 è stato insignito dell’Oscar per la colonna sonora di un brutto film, The Hateful Eight di Quentin Tarantino. Il maestro (qualche volta la sottolineatura è appropriata) muore il 6 luglio 2020… ci ha lasciato in sorte una cosmogonia musicale che profuma di alfabeti scomparsi o ricomposti, al di là della commissione, per sfociare in pezzi d’azzurrata bellezza.
La partitura filmica di Ennio s’innesta su interviste di Tornatore fatte al compositore e all’uomo, testimonianze di registi con i quali ha lavorato (Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Giuliano Montaldo, Dario Argento, Paolo e Vittorio Taviani, Carlo Verdone, Roberto Faenza, Elio Petri, Sergio Leone, Gillo Pontecorvo, Roland Joffé)… opinioni di musicisti (Nicola Piovani, Hans Zimmer, Bruce Springsteen, Joan Baez, John Williams, Joan Baez, Quincy Jones, Pat Metheny)… che il regista intreccia abilmente con materiali d’archivio… è una sorta di viaggio intimo tra musica e iconologia nell’arte di Morricone… persona schiva, discreta, quasi un’anomalia nel rutilante (e spesso falso) mondo della macchina/cinema.
Ora… che Morricone sia il più grande compositore di colonne sonore per il cinema di tutti i tempi, come scrivono… ci sembra eccessivo… a forza di cucinare maestri in tutti i campi del sapere si è finito per dimenticare i maestri uccisi dall’arte mercatale… il cui uso uniforme costituisce lo spirito e il verbo della bassezza. La definizione prezzolata è la menzogna della coscienza tradita, insufflata di successo, una sorta di pozza d’acqua santa del mercato, così superficiale dove ciascuno e tutti finiscono per annegarci… alcuni, tuttavia, si chiamano fuori dalle determinazioni e dal compiacimento del sé… e fanno a meno anche di pretesti creativi che costituiscono la trama di tutto ciò che respirano… e se trovano riconoscimenti, consensi o sputi in faccia, tirano dritto per la loro deriva ereticale.
La dissolutezza dell’arte la lasciano ai cesari o ai coglioni che dicono di contestare il mondo con chitarre, castelli e facce da scemi come i Rolling Stone o i Beatles… baronetti impiumati dalla regina d’Inghilterra con la vocazione municipale d’allevare intere generazioni nella musica alla crema o nel calcolo egoista che mette tutti d’accordo nei lupanari/stadi affollati della civiltà dello spettacolo. “Lo spettacolo [ci ricorda Guy Debord] è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine… è l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni d’esistenza”. Il discorso elogiativo che il potere tiene su se stesso… è la ricostruzione dell’illusione religiosa sulla quale si fonda la mediocrazia, che è la forma denotativa della passività.
A forza di dire sempre le medesime cose, si corre il rischio di diventare santi… la sconvenienza è che poi erigono monumenti agli dèi nei parchi pubblici e lì pisciano i cani e ci cagano i piccioni… le aureole portano con sé sempre qualcosa dell’assassinio impunito. Poiché in ogni uomo si cela il servo che vuole diventare il padrone, senza nemmeno averne la capacità innata dell’uso della frusta… figuriamoci una qualsiasi star dello spettacolo… in totale adorazione di sé e preda dei suoi seguaci che l’inchiodano nelle camere da letto tra Cristo e Che Guevara. Non c’è niente di più stupido di una linguaccia di Jagger o il culo nudo di Lennon… per parlare di pace… sono solo icone di una genealogia del fanatismo che riproduce mostri di piccolo cabotaggio.
Il ritratto di Morricone, compositore, sperimentatore, arrangiatore, direttore d’orchestra… fuoriesce in bella luce dalla sequela delle sue invenzioni musicali e centinaia di canzoni che hanno contribuito a creare il sound, come dicono quelli che parlano bene, degli anni ’60. Sapore di sale di Gino Paoli, Il barattolo di Gianni Meccia, Abbronzatissima di Edoardo Vianello, Se telefonando di Mina (scritta da Maurizio Costanzo)… restituiscono l’ingenuità, forse l’utopia amorosa di un’epoca in cui il domani che arrivava era già ieri che moriva, e si riverserà poi (in tutte le sue contraddizioni) nella rivoluzione della gioia del Maggio ’68. Céline Dion, Andrea Bocelli, Bruce Springsteen, Roger Waters… hanno interpretato i suoi maggiori successi… e allargato i confini della canzone di là dall’entusiasmo del momento… inciso la musica di Morricone nel canto mai abbastanza cantato, nel vocabolo d’una epifania creativa che debutta nella spiritualità eversiva d’appassionati destini.


Un’annotazione a margine. Missa papae Francisci. Anno ducentesimo a Societate restituta è una composizione di Morricone dedicata a Papa Bergoglio… commissionata dall’Ordine di Sant’Ignazio in occasione del bicentenario della ricostituzione della Compagnia di Gesù e trasmessa in prima serata su Rai 5, l’11 giugno 2015… scritta per doppio coro, organo e orchestra, è di una bellezza travolgente… naturalmente a noi (che siamo del tutto sprovvisti di cultura musicale e stiamo bene solo in compagnia di illetterati, folli e poeti), sarebbe piaciuta molto di più se fosse stata dedicata ai padri gesuiti che furono massacrati dall’esercito ispanoportoghese, dalla malevolenza della chiesa e dai mercanti di San Paolo, perché si schierarono a fianco degli indios Guaranì, sconfitti e ridotti in schiavitù tra il 1631 e il 1641 in Brasile. Morricone però sembra avvertire qualcosa d’inespresso o forse d’ingiusto, e immette nell’opera un intero pezzo della colonna sonora che aveva scritto per il film Mission (1986) di Roland Joffé (lo sceneggiatore di Mission, Robert Bolt, condensa gli eccidi degli Indios nel 1750). La musica di Mission si compone di venti brani ma è Gabriel’s Oboe a restare indelebile nel dolore di quanti si sono indignati per le carneficine degli indios. Peccato che il brano sia stato ripreso da molti spot televisivi e la Chiesa cattolica ne faccia largo uso per ricevere la donazione dell’otto per mille. L’infinito amore per il giusto, il bello e il bene comune è altrove.
Il documentario di Tornatore è un po’ scolastico, didascalico, contiene però quella verità passionale propria a un visionario geniale… il regista entra in intimità con Morricone… lì nella sua casa, nel suo disordine apparente, in quel canticchiare e suonare del compositore al pianoforte… si commuove spesso, gli scappano le lacrime diverse volte… anche il suo sguardo scivola dallo schermo e investe lo spettatore di emozioni sincere… dice di essere un suonatore di tromba costretto a studiare al conservatorio dal padre (anch’esso suonatore di tromba)… ne esce un uomo taciturno, schietto, intelligente, giocatore di scacchi, ma anche determinato a conseguire il sui viatico di musicista senza limiti.
Estromesso dall’accademia e dal suo venerato maestro, Goffredo Petrassi, che riteneva la musica per il cinema una mortificazione di quella nobile… peraltro anch’esso autore di colonne sonore in film di un certo spessore culturale, come Riso amaro (1949) e Non c’è pace tra gli ulivi (1950) di Giuseppe De Santis, La pattuglia sperduta (1954) di Piero Nelli o Cronaca familiare (1962) di Valerio Zurlini… Morricone dicevamo… non teme nemmeno di frequentare la sperimentazione e col Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, si misura in suoni, voci e idee musicali che poco hanno a che fare con il “grande pubblico”… la grandezza intellettuale di Morricone, appunto, sta nel coagulare musica e immagini, anche dettate dalla strada… come il tema per Il buono, il brutto e il cattivo (1966) di Sergio Leone… l’ha scritto, dice Morricone, vedendo gli operai in una manifestazione a Roma che battevano le mani sui bidoni di latta. Una vocazione per la musica alta attraversata da contrappunti — motivetti, carillon, flauti, oboe, armoniche a bocca — e la sovrapposizione di più strumenti, permetteva a Morricone d’inventare sonorità che resteranno incancellabili nell’immaginario collettivo.
La geografia musicale di Morricone (il più prolifico musicista del XX°secolo) investe i resti del cinema neorealista, western-spaghetti, film-tv, erotici, thriller, storici, melodrammi, commedia di costume, cinema politico… I giorni del cielo (1978) di Terrence Malick, Mission (1986) di Roland Joffé, Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri o la rielaborazione della canzone ebraica Gam-Gam… non lasciano spazio a fraintendimenti… si ascoltano come interrogazioni al disagio sociale che gronda dallo schermo e investe l’indifferenza o la rapacità di un tempo in cui i sogni interrogavano il potere non per renderlo più forte, ma per distruggerlo.
Senza la musica di Morricone i film Sergio Leone e l’attorialità di Clint Eastwood… sarebbero un’altra cosa… i temi di Il buono, il brutto e il cattivo (1966), C’era una volta il West, Giù la testa (1971) e C’era una volta in America (1984), specialmente… imprimono nell’immagine cinematografica un carattere musicale senza compiacimenti né merletti d’autore… e proprio in questa dismisura tra rito del cinema e abbraccio della musica che l’avvolge, i film di Leone toccano in qualche modo l’umano nell’uomo, anche se sono costruzioni filmiche furbesche, adattate al gusto culturale corrente.


Visto che l’insolenza non ci fa difetto, cominciamo dal fondo… i primi 45 minuti di C’era una volta in America sono un capolavoro… il resto buon artigianato o poco più… la musica comunque lega l’intera narrazione e lascia lo spettatore attaccato ai mutamenti biografici… frammenti figurativi di solida, quanto struggente presa della realtà (tutto l’inizio, la bambina che danza, lo stupro in macchina, l’amicalità dei ragazzi di periferia), si fondono con la musica e trasportano lo spettatore al di là della situazione e della storia.
Ne Il buono, il brutto e il cattivo, C’era una volta il West e Giù la testa… la musica di Morricone acquisisce la funzione di collante tra il girato di Leone e l’indicalità magnificata dei protagonisti… tutti sempre sovra le righe… cloni di altri film, nemmeno ben fatti… pause interminabili e primi piani accozzati a improbabili campi lunghi… la resa dei conti alla pistola o al fucile (tempi dilatati fino all’impossibile)… poi… lascia presagire che fra la Genesi e l’Apocalisse ci sia la giustizia, il coraggio o la freddezza dell’uomo che minaccia ciò che lo minaccia… Clint Eastwood passa indenne su tutto, anche sull’incomparabile interpretazione di Toshirō Mifune in La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa, del quale Per un pugno di dollari (1964) è un affannato rifacimento. Eastwood non cambia volto, né postura e nemmeno il sigaro… attraversa i film di Leone con tutta la determinazione, il mistero e la malinconia d’un cavaliere errante della giustizia, una specie di Alan Ladd di Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens, attualizzato. Uno Shane (Ladd) senza sorriso e senza ironia… che non sa uccidere i cattivi con gentilezza.
Morricone, excompagno di scuola di Leone, dice da qualche parte che “i film western all’epoca erano considerati un genere minore, tanto che a quelli prodotti in Italia venne poi data l’etichetta ‘spaghetti western’, modo di dire che ne sminuiva il valore. Spesso trattava, invece, di pellicole straordinarie”. Vero niente. Il cinema-western italiano, Leone incluso, anche se su piani diversi, è un sottoprodotto del B-movie americano. Non c’è il mito dei pionieri, non c’è la cultura dei pellerossa (sterminati dalle “giacche blu”), non c’è la maniera di cavalcare, né d’impugnare il fucile o la pistola che sono propri del western americano, anche nel più
sgangherato… ci sono più morti in un solo western-spaghetti che in tutta la filmografia sulla grande frontiera americana. Anche quando Leone ha importato star hollywoodiane come Henry Fonda, Rod Steiger, Charles Bronson, Jason Robards o James Coburn… nei suoi film risultano sepolcri imbiancati o poco più.
Il grande cinema western non è né all’inizio delle sue menzogne né alla fine delle sue imposture… è tra il vero che nasce e la favola che continua, come Ombre rosse (1939) di John Ford, Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray o Quaranta pistole (1957) di Samuel Fuller… se si capisce questi film si può attraversare, a nostro rischio, lo specchio di Alice nel paese delle meraviglie o restare affascinati dall’incoronazione provinciale di miti decapitati. In apertura di Gli implacabili (1955) di Raoul Walsh, Clark Gable e il fratello Cameron Mitchell, exsoldati dell’esercito confederato, cavalcano nel territorio del Montana… arrivano davanti a un albero dove è stato impiccato un uomo e Gable dice al fratello — “Ecco i primi segni della civiltà” —. Un inferno di salvatori degli umili, alla maniera di Clint Eastwood, ne conferma l’agonia.

Ennio comunque è un buon documentario… Tornatore è persona perbene… ama il soggetto/musica del suo film, si vede… sono belle le sequenze di Morricone nella sua casa… le parole toccanti, sincere, financo esagerate che amici, colleghi, estimatori versano al maestro, disseminate in una solida impalcatura filmica (cinegiornali, spezzoni familiari, interviste)… portano alla conoscenza dell’umanesimo profondo di un artista che non si fa profeta, semmai uomo che si racconta attraverso la sua variegata arte e dice che là dove c’è libertà di coscienza c’è anche amore dell’uomo per l’uomo. In una scienza dei condizionali, propria della teologia, diceva… non si abita la parola-immagine del divenire imposto, solo quando l’arte diventa specchio-memoria di una vita, ci lascia in bocca e negli occhi tracce-stelle d’eternità.

Ennio Morricone

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 2 volte maggio 2022

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