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C’mon C’mon (2022) di Mike Mills

Inserito da serrilux

C’mon C’mon (2022) di Mike Mills

Conquistarsi il diritto a creare nuovi valori
— questa è la conquista più terribile per uno spirito paziente e ossequioso”.

Friedrich Nietzsche

 

La macchina/cinema hollywoodiana, da sempre, decide la colorazione dei linguaggi e quindi dei pensieri, e organizza tanto il cretinismo quanto il genio (a volte, ma ne confuta il valore poetico poiché non è mercantile)… le sommatorie di banalità premiate con l’Oscar non deludano mai… i cani da guardia della critica passano di velina in velina delle grandi produzioni, dei festival, delle scuole di cinema, dei circuiti televisivi, delle riviste specializzate… l’inganno universale è completo… i sogni degli spettatori non sono risparmiati… il rimbecillimento è generale… ci si può immaginare un film di Spielberg, Tarantino o Scorsese-Netflix che non contenga la spettacolarità delle immagini-segni che rendono straziante ogni narrazione? La macchina da presa qui è l’accondiscendenza all’applauso e quindi alla merceologia illimitata dell’industria che la feconda e la trascolora in mito. La lusinga e il cappio del boia sono sinonimi! Bisogna essere fuori di testa come un politico, un artista o un idiota, per credere che la civiltà dello spettacolo possa produrre opere che non divorano il bisogno di credere in qualcosa d’immediatamente commestibile! Il senso del ridicolo si cela spesso nelle opere più accreditate, mai nell’arte.
A volte capita di vedere dei film “indipendenti” come C’mon C’mon di Mike Mills (costato comunque più di otto milioni di dollari)… che riescono a risvegliare l’amore per il cinema senza suscitare la malevolenza d’essere caduti in un immenso contenitore di stupidità… del resto la melanconia che attraversa l’intero film, riscatta pagine di vita quotidiana edulcorata nel consenso e, come sappiamo, la melanconia è come quel mio amico che aveva fatto scorta di veleni, ma non era riuscito ad uccidersi perché non aveva saputo quale scegliere (da e con E.M. Cioran). Infatti la melanconia riscatta tutte le illusioni, perché è avuta in sorte solo dai ragazzi di strada, dai poeti maledetti e dagli Eliogabali senza corona che hanno fatto della dissennatezza di non governare mai, né accettare d’essere governati nel culto dell’indifferenza o dell’impassibilità o del totalitarismo… libertini, eretici, interpreti di una sessualità circolare (senza confini di genere)… portatori di desideri resistenziali per umanizzare la crudeltà… l’amore non si esperimenta né si codifica, si vive e basta! Foss’anche l’ultimo canto del disinganno fucilato! Giacché la melanconia è la filosofia di Nietzsche che infiora le romanze di Puccini, lacrima nei vocaboli immortali di Baudelaire e rende unica la vita.
C’mon C’mon racconta di un giornalista radiofonico, Johnny (Joaquin Phoenix), che va in giro per l’America a intervistare i ragazzi… raccoglie le loro pagine quotidiane e come vedono il mondo intorno a loro… la sorella, Viv (Gaby Hoffmann), gli chiede se può tenere con sé il nipote di 9 anni, Jesse (Woody Norman), perché deve sostenere il marito, Paul (Woody Norman), affetto da disturbo bipolare e raggiungerlo a Oakland. Johnny va a Los Angeles per stare con Jesse. Il giornalista patisce la perdita della madre e anche della compagna che l’ha lasciato e ama ancora… insieme al ragazzo viaggiano da Los Angeles a New York, Detroit, New Orleans… e Jesse partecipa alle interviste (vere) dei ragazzi incontrati per strada. L’erranza li unisce, li fa scoprire, li avvolge in un’intimità dove la crescita del bambino coincide con l’amore ritrovato per la vita di Johnny. Jesse teme di avere gli stessi problemi del padre… si confida con Johnny che lo rassicura… dice che la madre gli ha insegnato a gestire i propri sentimenti… a liberarli, a condividerli, a farne una situazione d’incontro con chi ami e chi ti ama.
Con C’mon C’mon, Beginners (2010) e 20th Century Women (2016), Mike Mills compone una sorta di trilogia familiare che si dipana sulle tematiche dell’amore, della diversità e della risorgenza esistenziale… Jesse è visto come una persona che vive la sua particolarità, non un bambino allevato secondo i rimproveri e le giustificazioni ancorati ai linguaggi istituzionalizzati… non è un caso che Johnny e Jesse litigano, si confidano, si riappacificano sulla lettura de Il mago di Oz… e come in Alice nelle città (1973) di Wim Wenders, ciò che conta in ogni infanzia è la realizzazione della felicità, una creazione di valore in cui ognuno — scegliendo la propria libertà — sceglie anche l’umanità più vicina ai suoi sogni… che è la radice della non-
educazione di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll… una favola tenera-utopistica diretta all’umanesimo criminale nel quale i ragazzi si trovano a vivere.
Il film di Mills non pretende di seminare visioni nuove né alimentare l’ipocrisia del cinema che tratta i bambini per così dire “speciali” in maniera farisea… C’mon C’mon s’addentra nei disagi di adulti e bambini fin troppo cresciuti che cercano di coniugare l’avvenire nel presente… stabilire un raccordo tra il dentro di sé e il fuori che esorta allo spaventamento… un film dunque sulla dissonanza che si manifesta nella pura voce dell’infanzia difficile… come la poesia di Rimbaud, Mallarmé o Verlaine che si colora di pietas laica per il bambino caduto e il bambino che fiorisce nell’immagine della propria delicata identità. Solo il dolore è reale, poiché è il dolore che suggerisce il rovescio di un’aurora della vita conquistata nell’amore che riusciamo a darci… comprendere che l’essere soli di fronte all’abisso che avanza è una carezza di vetro soffocata nella parola e, a volte, basta bruciare i metodi del male per comprendere che l’azzurro è ovunque, specie là dove l’infanzia è stata strutturata nel cancellato, nella negazione, nel vocabolo imposto.


Gli psicoanalisti, i politici, i religiosi, gli intellettuali con la livrea di corte lo sanno bene (o dovrebbero sapere che l’affettuosità dell’abbraccio è l’amore esaudito)… già nella caverna dei miracoli della madre, il bambino sente prima di vedere… e fanno di tutto per allevarlo in universi divorati dalla paura, dal terrore e dalla servitù volontaria… l’educazione a una sessualità miserevole o univoca o la rieducazione funzionale alla moda psicoanalitica che ripulisce l’infanzia di tutti i peccati, specie di quelli che gli psicoanalisti non capiscono né possono capire finché non s’ignudano dei loro mattini feriti… è nociva, se non malevola… l’amore matura nell’amore dell’altro/altra e non ci sono scuole che possono insegnarlo né guarirlo… poiché non si muore in sé ma di sé, sin dal principio.
“Ed ella risponde:
«Sarò là con il frutto, tenerezza della terra. Celebrerò la stagione e andrò lontano a portare il mio saluto delle radici; ma ho scelto te perché ti stendessi la mano al mio fianco. A te ho offerto la mia bocca, la mia gola. Per te, ho un sesso, una nuca.
Sarò là dove tu sei. I miei campi hanno bisogno di braccia. Cedi i miei campi. Le mie colline hanno bisogno di spalle. Cedo le mie colline. I miei deserti hanno bisogno d’acqua. Cedo la mia sete. Nuda, sono tua» (Edmond Jabès, diceva), questo è l’amore! Il resto è la povertà di una lingua morta.
Le assenze, le malattie, le incomprensioni di fronte alla morte della madre tra Johnny e Viv, la singolarità comportamentale di Jesse, denotano il luogo e il legame insieme… poiché il corpo è il solo padrone delle emozioni… e la memoria è quel lungo sentiero di luci e ombre disegnato dal destino o improntato all’obbedienza da proscrizioni fatali. L’uomo e il bambino si riconoscono nei giochi di spiaggia, nella strada, nella registrazione delle voci di ragazzi che qualcuno ascolta… ai quali non viene sempre detto, impartito, imposto il cosa e come fare… l’apparenza viene spogliata dei suoi rituali e Johnny e Jesse mostrano che non c’è amore se non c’è l’immaginale dell’amore che spacca tutte le strutture sociali. Compiere il male dipende da noi, poiché l’amore è già dato.
La sceneggiatura di C’mon C’mon scritta da Mills non è per niente scolastica, come è stato detto, minimalista sì, se s’intende per scevra da ogni orpello spettacolare… i dialoghi sono ridotti all’essenziale, sostenuti da un afflato poetico che non li rigetta nel naturalismo… gli ambienti riconducono al lavoro di Johnny e Jesse s’inserisce in maniera ludica in ogni situazione… odorano di periferie senza cantarne troppo la povertà… Johnny non perde l’occasione nemmeno di registrare le parole in libertà del bambino e non ci sono serrature verbali a inguainare la forma… l’asciugamento del consenso colloca il film fuori dagli imperativi della merce e respinge ciò che lo rinnega.
La fotografia in bianco e nero di Robbie Ryan è di una semplicità disarmante… ricorda la bellezza elegante di Roma (2018) di Alfonso Cuarón, la medesima elegia del reale che disegna un cammino e aspira a esaudire la veridicità di un volto, di una storia, di qualcosa destinato alla dolcezza di un vissuto che si libera delle proprie asperità nell’amore. L’uso del bianco, in particolare, è preponderante… le nudità dei volti, degli atteggiamenti, degli sguardi di Johnny e Jesse disertano le sillabe interpretative dell’occasionale… il padroneggiamento della luce di Ryan avvolge interamente la delicatezza dei movimenti di macchina di Mills e porta lo spettatore in un possibile magico dove la parola vivere diventa segno-immagine di qualcosa che nasce oltre le rovine di ciò che non è più.

Il montaggio di Jennifer Vecchiarello è disteso, mai televisivo… quasi un crescendo emozionale che decifra la narrazione e induce a scoprire, poco per volta, i crocevia filmici di Mills… ogni taglio manifesta l’essenza del discorso, la definizione anche di una corrispondenza a — filo d’occhio — dell’attesa distillata di promesse che incrinano le menzogne… eppure tutto questo s’avverte appena nel lavoro della Vecchiarello… cosa strana per il cinema americano in genere… sempre votato a impressionare il nulla con effetti speciali e concatenazioni improbabili, dispiegati intorno alla dimostrazione tecnica e, più che altro, tratto di unione tra la cosa e la merce.
Le musiche di Aron e Bryce Dessner… vanno a sottolineare i momenti crudi o gioiosi, senza furbizie sceniche… semmai inghiottono l’innocenza, l’ingiunzione o l’inconosciuto in brani che collegano il sangue dei giorni al mondo… la musica qui non è il sapere, ma l’accogliere e creare la verità dell’istante nel dolore o nell’amore che l’assume. La musica conferma lo spirito che abita il film e contorna di bellezza l’assenza di categorie che definiscono la ricezione facile. Quando una musica, un canto o un verso si stacca dalla propria identicità e si scioglie nella corrispondenza con l’altro, significa che ha la luminosità di una goccia d’acqua caduta da una stella, diceva… e rende visibile la fiducia dell’umano nell’uomo.
L’attorialità magistrale di Phoenix e del piccolo Norman si distende su poche variazioni scritturali… Phoenix evita guizzi e lazzi, si cala nell’antieroe a margine dall’attore famoso e pluripremiato… si snoda nella semplicità del capire e cercare allo stesso tempo di comprendere la sua presenza nella vita… la nudità interpretativa è abbacinante… pochi gesti… qualche sorriso… intuizioni fulminanti, come si vedono in tutte le sequenza con Jesse, che rimandano a un’infanzia intramontabile… al termine dello sguardo di Phoenix c’è sempre l’alba d’un respiro, d’una creazione, d’una perdita dell’ignoranza che rappresenta l’innocenza del divenire.
Norman non ricuce l’interpretazione del bambino particolare sui canoni registrati delle lacrime al botteghino… semmai figura la prossimità di un’anima in difficoltà… una lacerazione anche di paure conosciute o allineate alla propria dissonanza relazionale… ma non è il volto di un bambino listato a lutto quello che il regista butta sullo schermo… è invece il ritorno all’amorevolezza iniziale mai perduta e ritrovata negli affetti familiari… se vogliano Jesse è una confessione del bene, poiché il male non lo riguarda… non è una resurrezione però, è l’illuminazione di sé che annerisce il dolore e lo riporta sulla pagina bianca della vita vera.
C’mon C’mon è un film che si pone sulla soglia dello sguardo… si dischiude su coscienze vicine-lontane inzuppate di silenzi incrociati e cominciamenti d’amore rivendicati… l’interrogazione di un vuoto, di tempo riconquistato, di un oblìo ridisegnato che si evolve nei ripieghi di ali ferite in attesa di spiccare il volo verso un altro reale… poiché l’amore non aspira a essere compreso, ma a essere amato… siamo parlati da ciò che fiorisce nel profondo di sé e ascoltati da ciò che si sfoglia come una rosa bianca in cerca del suo profumo d’eternità.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte giugno, 2022

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