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The Post (2017), di Steven Spielberg

Inserito da serrilux

The Post (2017), di Steven Spielberg

“Finché la libertà sarà solo un prodotto del libero scambio,
la giustizia si limiterà a regolare a tutelare, a punire l’uomo,
considerandolo non tanto in ragione del suo valore come essere umano
quanto in ragione del suo valore commerciale”.

Raoul Vaneigem

 

Chi conosce la forca non sempre sa fare il cinema e chi fa il cinema non sempre conosce la forca, anche se qualche volta la meriterebbe. Il cinema hollywoodiano, come sappiamo, è una fabbrica di mitologie dell’illusione spesso battezzate con premi Oscar e affini… una farmaceutica che celebra la disperazione di una civiltà esausta e si accolla il patronato della fatalità con l’inganno, ben mascherato, d’intrattenere il pubblico su tematiche sociali e ingiustizie politiche. La seduzione degli idoli si porta dietro anche la soggezione dei servi… pochi si accorgono (e altri non ne vogliono tener conto) che al tempo dello spettacolare integrato, ogni forma di comunicazione è avvelenata dal messianismo dei mercati e sono davvero rari gli autori che si salvano dalla volgarità, dall’ovvietà e dal successo. L’abitudine alla serialità (che impera nella tv e ovunque) è una consolazione da suppliziati felici e il brutto si mescola all’evidenza del conformismo che solo i filosofi del disinganno e i poeti maledetti infrangono. Gli imperi, come i miti, sono sempre franati per mancanza di umorismo.

The Post di Steven Spielberg (uno tra i più sopravvalutati registi del baraccone hollywoodiano), a una prima lettura disattenta alla patina sociale di questo capace artigiano di fesserie da botteghino) è di una tristezza esultante… tutto imperniato sulla capacità allusiva di due attori decotti, quasi morti (Meryl Streep e Tom Hanhs), che tra mossette (Streep) e seriosità parrocchiali (Hanks) alimentano 115 minuti di noia mortale, fatta salva la grande inquadratura finale… le lingue malevoli dicono che quell’immagine l’ha fatta il trovarobe, in quanto Spielberg si era assentato per portare il cane a fare la cacca al parco (sembra che volesse chiudere il film con il Washington Post quotato in Borsa).

Un’annotazione a margine. Per lanciare The Post in Italia, si è subito prestato (dopo lauto compenso) il leccaculo della tv italiana, Fabio Fazio… l’ospitata riverente delle “stelle” di The Post è stata a dire poco penosa… per non dire indecente… Fazio legge cosa gli scrivono in qualche foglietto e non sa nemmeno di quale film si parla… e pensare che nessuno lo manda a fare in culo insieme a quella scimmietta insulsa della Littizzetto… patetica interprete di una comicità più stupida dell’acqua dei lupini… l’incrocio fra il santo e l’imbecille ha sempre alzato gli indici di gradimento (alla tv e dappertutto), del resto, l’idiozia, la volgarità e la sozzura sono parte non secondaria di miserie meritate, che a malapena suscitano le smorfie del disgusto!

La storia di The Post è quella vera dei Pentagon Papers (documenti segreti del Pentagono)… circa 7000 pagine del Dipartimento Difesa degli Stati Uniti d’America… uno studio approfondito sulle strategie e i rapporti del governo federale sulla guerra del Vietnam (raccolti dal 1945 al 1967). Furono adoperati da Robert McNamara (segretario della difesa dal 1961 al 1968) per sostenere Robert Kennedy che voleva candidarsi alla presidenza. L’ex militare ed economista Daniel Ellsberg, in un primo tempo sostenitore della guerra in Vietnam (combattente con gli specialisti contro-insurrezionali di Edward G. Lansdale, generale dell’Air Force, al servizio dell’OSS e poi della CIA), visti i massacri di civili vietnamiti… fotocopia il dossier coperto dal segreto di Stato e consegna i materiali al New York Times, che ne pubblica alcuni estratti… il presidente Nixon cerca di bloccare la diffusione, ma nel frattempo il Washington Post pubblica altri risvolti dei Pentagon Papers. La vicenda finisce davanti alla Corte suprema che blocca l’ingiunzione di Nixon a favore del diritto alla libertà di stampa. Il Washington Post, va ricordato, è il quotidiano che rivelò le intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del Comitato Nazionale del Partito Democratico da uomini legati al Partito Repubblicano (“Watergate”, 1974) e portò alle dimissioni di Nixon. L’inchiesta fu fatta di due giornalisti del Post, Robert “Bob” Woodward e Carl Bernstein (naturalmente aiutati da figure interne alla CIA), raccontata con sobrietà da Alan J. Pakula nel film Tutti gli uomini del presidente (1976).

The Post raccorda i dietro le quinte dei Pentagon Papers… l’insicurezza e la determinazione un po’ manierata della proprietaria del Post, Katharine “Kay” Graham (Streep), le aspettative finanziarie di un membro del consiglio del giornale, Arthur Parsons (Bradley Whitford) e la furbizia del capo redattore Ben Bradlee (Hanks)… il tutto è condito tra lunari discussioni in salotti borghesi, redazioni raffinate, giornalisti pronti a immolarsi in nome della libera espressione… e questo potrebbe anche andare bene, specie se pensiamo al grande film di Richard Brooks, L’ultima minaccia (Deadline, 1952), ispirato alla vita di Joseph Pulitzer e alla chiusura del suo giornale, il New York World… qui, il direttore (Humphrey Bogart) apre una campagna contro la casta della politica e le connivenze con un’organizzazione criminale, e in chiusa al film dice al gangster: « È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente! ». In L’ultima minaccia Brooks sostiene che la battaglia per la libertà di stampa significa non calpestare i diritti dell’opinione pubblica, semmai smascherare gli intrecci tra criminali e politici in formato grande… i profeti, i fanatici, i gazzettieri di ogni ordine predicano speranze e catastrofi, e allo stesso tempo si pongono come rassicuratori di un avvenire ordinario… la parata di secondi fini che incarnano, cioè quella di predazioni millenarie a danno di chi non ha voce, lascia intravvedere l’urgenza di una notte di san Bartolomeo dei loro misfatti, sino ad ora troppo a lungo rimandata.

Il film di Spielberg esprime una saggezza da portinai… millanta la libertà d’espressione sul modello della cultura imperante… la prolissità e la dilatazione del racconto aspirano a santificare la forza dello Stato e riveste di parole, alquanto letterarie, il rimpianto di una verità che non affronta (né denuncia davvero) i responsabili di genocidi continuati contro gli indifesi, gli oppressi, gli ultimi della Terra… c’è da dire che per quanto riguarda l’aggressione degli Stati Uniti contro il Vietnam, quella volta non è stata sufficiente a impedire un certo numero di bare fasciate con la bandiera a stelle strisce rinviate al mittente… se poi il comunismo vietnamita è diventato una sorta di vigliaccheria repressiva quanto quella dei guerrafondai che avevano sconfitto, questa è un’altra storia.

La sceneggiatura di The Post (Liz Hannah, Josh Singer) è una sequela di dialoghi malati di buonismo, spalmati in ricevimenti eleganti e stanze del potere dove tutti sono buoni e comprensivi… si gioca in Borsa ma con un certo gusto da ricchi e potenti… la volgarità è lasciata al popolo che compra i giornali e crede davvero che un gruppo di finanzieri o politici corrotti possa prendersi cura dei loro problemi quotidiani… in ogni civiltà raffinata si comprende bene la differenza tra il verbo (il dogma) del padrone e la pietà (la sudditanza) concessa da una cosca di saprofiti che decide i destini del maggior numero, a favore certo dei loro privilegi. Una “bella” guerra può fare al caso giusto… in fondo si diventa presidenti, Capi di Stato o Papi sull’uso prolungato delle ghigliottine… e tutto viene commesso sempre in nome della libertà del popolo. Basta leggere uno dei libri più importanti mai scritti sui fondamenti e le convenienze per una buona politica e una buona morale — Il manuale del boia di Charles Duff—, per capire che sia la filosofia del boia di Londra, come le menzogne del politico o le malversazioni del criminale, sono stati creati a immagine di Dio… occorre dunque sapere che le prediche umanitarie, come quelle religiose, tendono a ottenebrare la ragione delle masse… si potrebbe perfino arrivare all’abolizione della guerra… che disastro sarebbe! Immaginate un mondo in cui regnasse lo spirito di uguaglianza e la vita umana fosse considerata sacra. C’è inoltre il grave rischio che un governo sentimentale composto dai cosiddetti uomini umanitari, sia tentato di cedere di fronte al clamore della piazza in favore all’abolizione della pena di morte e del diritto di avere diritti dell’intera umanità. I morti non parlano e il romanzo della storia si legge solo in macelleria.

Tom Hanks (Ben Bradlee), David Cross (Howard Simons), John Rue (Gene Patterson), Bob Odenkirk (Ben Bagdikian), Jessie Mueller (Judith Martin), and Philip Casnoff (Chalmers Roberts) in Twentieth Century Fox’s THE POST. Photo Credit: Niko Tavernise.

Le inquadrature di Spielberg sono televisive, descrittive, anonime quanto l’intero impianto filmico… l’agiografia è sempre in agguato nei lavori di Spielberg e da notevole manipolatore del dispositivo, s’accorda sempre con un’umanità di second’ordine. Il grigiore della fotografia di Janusz Kamiński affascina… usa tutti i trucchi della seduzione per accattivarsi lo sguardo del pubblico… una lezioncina professorale già pervenuta in Schindler’s List – La lista di Schindler (1993), Amistad (1997), Salvate il soldato Ryan (1998), Lincoln (2012), Il ponte delle spie (2015) e molti altri film diretti da Spielberg, nei quali ha lavorato… Kamiński non sembra temere l’ipertrofia del monocorde… converte la forza visiva del poetico in ministero (o mistero) dell’arte come ascesi della merce e a torto o a ragione finisce per fotografare le frivolezze di Spielberg, quasi come un fumetto a puntate… non si capisce proprio come possa rovistare nel pattume del cinema mercatale con tanta disinvoltura… degradare lo stupore in aneddoti, significa rifugiarsi nell’oscuro dove ogni artista è contemporaneo di tutti gli stili, tranne il suo.

Le musiche di John Williams e il montaggio di Michael Kahn e Sarah Broshar, si fondono in uno zuccherificio dell’indefinito… a tratti sconcertante… lunghe attese (inquadrature) e merletti musicali conferiscano alla materia filmica un ritmo a dire poco archeologico… un’agonia espressiva che rincorre la fine nel grossolano e nel vocabolo ripetuto… senza mai accorgersi che la gloria, il consenso e l’eternità sono la rovina della coscienza… lo smarrimento, per niente sensazionale, che alberga in tutto il film è fatto di sermoni e affermazioni regolati sul paradosso della tolleranza… eppure anche lo scemo del villaggio sa che la tolleranza è una forma normale di delirio: non si tratta di essere tollerati, ma di essere compresi. Quando si celebra la mistica della apparenze, si perde il sapore autentico della vita.

Il cinema di Spielberg non canta la verità e i suoi insorti… come l’orgoglio dei santi, la stupidità dei martiri e l’idiozia degli eroi… architetta miracoli, riproduce salvezze e trionfi, evoca conversioni e convincimenti, ammaestra l’ottimismo del progresso e più di ogni cosa, alimenta il sistema di una società del disamore… è un cinema della felicità che s’attesta sul tono della rassegnazione obbligatoria, anche quando dice di filmare il contrario (senza l’estro ruffiano di Frank Capra, quello di È arrivata la felicità, 1936, e La vita è meravigliosa, 1946). La tela puttana del cinema si rivolge alla simulazione, alla farsa, alla teologia della domesticazione sociale… e non c’è film — che non sia permeato dall’istinto libertario dell’uomo in rivolta — che non si richiami alle gogne del mercato o ai fasti dell’alienazione dominante.

Le bombe, le banche e l’aspersorio sono gli imperativi dell’umanesimo consumerista… le cianfrusaglie dello spettacolo (cinema, fotografia, carta stampata, televisione, internet, telefonia…) servono a tenere le folle in letargo e tribuni, burocrati, cialtroni del totalitarismo mercatale, alzano i patiboli sulle umane libertà… le lobby delle armi, delle auto, del petrolio, dei farmaci, dei terrorismi (il capitalismo parassitario)… producono falsi bisogni, sostituiscono la gioia di vivere con la barbarie e lasciano ai palafrenieri dei governi il compito d’impiccare la libertà agli scranni del crimine organizzato. Agli ultimi della Terra non resta molto da fare, se non avere piena coscienza di un’indignazione profonda che faccia da invito o detonatore alla rivoluzione sociale che si fa ponte e passaggio da una civiltà miserabile a una civiltà umana.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 22 volte febbraio 2018

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