“La ricerca dell’utopia è una ricerca religiosa, un desiderio assoluto.
L’utopia è la grande fragilità dello storia, ma anche la sua grande forza.
In un certo senso, è l’utopia a riscattare la storia”.
E.M. Cioran
La verità, vi prego, sul cinema della mediocrazia nella civiltà dello spettacolo… i padroni dei media sono anche i tenutari dei linguaggi-dispositivi (film, fotografie, carta stampata, televisione, social-network) tesi a educare i clienti-utenti alla stupidità. L’omologazione dei linguaggi comporta la massificazione del pensiero critico e l’instaurazione della dittatura della felicità. La coscienza della fatalità non lascia spazio a nessun disvelamento culturale/politico e tutto ciò che è edulcorato o falsamente provocatorio, mostra che la realtà non è altro che quello che della realtà viene detto. Gli infatuati del “progresso” delle deregolamentazioni internazionali, colonizzazioni finanziarie, guerre e crescita delle disuguaglianze — politici, finanzieri, ecclesiali, generali, intellettuali, artisti, sindacalisti, fino all’ultimo coglione che crede che la farsa elettorale possa davvero cambiare qualcosa —… andrebbero passati per la corda del boia all’istante!… non tanto per cercare d’interrompere la secolarizzazione della povertà, quanto per un semplice atto di giustizia! Ecco perché preferiamo stare in compagnia di illetterati, analfabeti, folli, ubriachi o poeti del disprezzo accertato… anche i ribelli senza causa — che non sia quella d’azzeramento dei privilegi dei padroni dell’immaginario — non ci fanno difetto…. poiché la loro vita fruga nelle ferite della storia e le allarga a nuove primavere di bellezza. Nel ’68 anche i vini e le marmellate vennero più buoni!… e i maglioni inzuppati di sangue di quella gioventù in rivolta sono i vessilli, mai ammainati, della ricerca a venire diuna società libertaria.
Il catechismo della merce spettacolista invade tutti i mezzi di comunicazione… il cinema mercantile fa male a chi lo fa e a chi lo sussume come prodotto culturale, senza aver compreso che impoverire la lingua vuol dire abolire la verità, propagare l’imbecillità e concorrere all’instaurazione dell’Impero dei prosseneti. I film di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon (2023), Ridley Scott, Napoleon (2023) o Greta Gerwig, Barbie (2023) esprimono la polarizzazione dei comportamenti, emozioni, credenze che congedano il significato dal significante e legittimano l’asfaltatura dell’intelligenza. Il consenso sociale è specchio-memoria del
consenso politico e il circolo vizioso d’una cultura della prostrazione invade la sfera personale dei consumatori d’illusioni… qualsiasi cosa che abbia un qualche coinvolgimento con la politica, finanza, industria, saperi, migrazioni, guerre… è concepita come asservimento al padronato dei bisogni indotti. La corruzione, la colonizzazione, il trasformismo, la confessione, la soggezione, la paura, il terrore… rifluiscono nella propaganda, che è il braccio esecutivo dei poteri finanziari-politici “invisibili”, l’agente del pensiero unico che ripropone gli stilemi delle tecniche dittatoriali.
In questo senso il cinema italiano, il più brutto del mondo, sicuramente il più imbecille, sostenuto dalla critica più servile della masseria cinematografica, ha prodotto una messe di banalità edificate sul ridicolo, superficialità e infantilismo che hanno eretto il cantico della subordinazione là dove il Neorealismo aveva disseminato il degrado dei valori di Stato. C’è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi è l’esempio più fulgido… la regista ha indossato l’uniforme della politica corrente e nei siparietti della commedia di terz’ordine ha sversato la rivoluzione femminista nella menzogna dell’ottimismo obbligatorio… una falsità assoluta!
Figuriamoci! Quando l’interpretazione della vita offesa finisce sugli scranni di un governo, ogni forma di negazione o di ribellione scompare. Persino Dio tra le braccia di una puttana redenta assume l’aspetto del santo… è la frantumazione di un universo scontato che abbatte le frontiere e divelte il monopolio della sofferenza. Ogni insurrezione che viene a patti con l’ordine costituito si allontana e tradisce le proprie radici. La sovversione non sospetta dell’immaginario comincia là dove si nega la religione del consenso e si rigetta la spiritualità dell’obbedienza fondata sulla propria rovina… a che pro frequentare una catechesi, un’ideologia o i reliquiari consumeristi della civiltà dello spettacolo, quando basta un cretino qualsiasi a influenzare i suoi pari nei dispensari dei social-network… il potere abilita tutto e permette alla finzione di prendere il posto della verità.
Il pensiero-crimine di George Orwell è sempre attuale e ci sono maestri del cinema proletario, come Ken Loach, che operano allo smantellamento della disumanizzazione insita nell’apologia dell’odio razziale… il suo rizomario artistico incrina le sofistiche del potere e dà il colpo di grazia a tutte le conversioni riconducibili alle spartizioni del profitto. Gli esperti, i tecnici, i produttori dell’entusiasmo controllano tutto, persino l’opposizione… il loro dizionario è una rete di protezione che attraverso la spettacolarizzazione di merci, massacri, stragi, genocidi, impone le proprie regole. Folle di alfabetizzati da Internet (segnati, schedati,
classificati, sorvegliati, repertoriati, sorvegliati, puniti) vivono il surrogato della libertà e si fanno complici di assassini, criminali, dittatori, tiranni nella cementificazione della ragione.
Il cinema di resistenza di Loach sta dalla parte degli ultimi… il regista inglese sa bene che non è col cinema che si può cambiare il mondo, ma restituire almeno la dignità a uomini e donne là dove è stata calpestata. Con The old oak (La vecchia quercia), Loach e lo sceneggiatore di sempre, Paul Laverty, costruiscono un film dalla bellezza “primitiva”, sradicata dalle confezioni cinematografiche che riguardano l’oligarchia dell’asservimento a burocrati, finanzieri, tecnici, pubblicitari, sociologi, psicologi, insegnanti, politici, militari, preti, sindacalisti…
Loach e Laverty continuano il loro cammino di fuorilegge della diseguaglianza… mostrano che le favole delle democrazie, dei totalitarismi, degli imperi finanziari impediscono qualsiasi sommovimento sociale e sono sempre gli ultimi, gli sfruttati, gli oppressi a pagarne il prezzo. Il film chiude la trilogia sull’emarginazione iniziata con Io, Daniel Blake (2016) e Sorry We Missed You (2019)… l’insegna del pub che cade a pezzi non rimanda però a una sconfitta, semmai a una direzione ostinata e contraria ancora capace di combattere contro l’ingiustizia di Stato.
The old oak è l’unico pub aperto in un’ex cittadina mineraria dell’Inghilterra… TJ Ballantyne (Dave Turner) lo gestisce con grandi difficoltà… i clienti sono pochi, la gente è impoverita, le case sono vendute all’asta per poche sterline e affittate ai profughi siriani scaraventati nel paese dalle politiche discriminatorie del governo britannico… giovani e vecchi entrano in conflitto con i diseredati siriani, l’amicizia di Ballantyne con la giovane fotografa Yara (Ebla Mari), sommuove i malumori razzisti della comunità e l’utopia della solidarietà s’affaccia in una storia che racconta l’umano dall’interno. Ballantyne e Yara, con l’aiuto dei “beduini” e di alcuni cittadini, ripuliscono la sala nel retro del pub (usata un tempo per feste, matrimoni, momenti di aggregazione conviviale), rispolverano le fotografie alle pareti che ricordano le lotte dei minatori e attraverso donazioni offrono pasti caldi ai profughi e agli inglesi indigenti… riuniti nello slogan: “To eat together is to stick together” (Mangiare insieme è stare insieme).
Loach e Laverty dicono che per mutare lo stato delle cose bisogna prima modificare i piccoli gesti quotidiani nella fratellanza del dolore… l’utopia è di quelle estreme, forse… tuttavia, come l’asino Beniamino di La fattoria degli animali, Ballantyne e Yara rappresentano la realtà che non si vede, il sogno d’amore tra le genti che confisca la dialettica della dominazione e mostra che quando gli uomini e le donne si riconoscono nella medesima disperanza, ogni miseria è spazzata via.
L’impalcatura filmica di Loach è essenziale, scarna, senza compiacimenti e la sceneggiatura di Lavert, appuntellata su dialoghi secchi, veri, profondi, sottolinea razzismi endemici e il loro superamento. La fotografia di Robbie Ryan (ha collaborato con Loach anche in La parte degli angeli, 2101; Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà, 2014; Io, Daniel Blake), lavorata sui marroni, verdi, rossi, deposita il film in una visione quasi documentaria e non sono pochi i momenti etici-estetici nei quali la semplicità emozionale si trasfigura in poesia. Il montaggio di Jonathan Morris è asciutto… coniuga ambiente e personaggi in una sorta di contrappunto visivo che fortifica la trattazione filmica. L’attorialità di Dave Turner e Ebla Mari è minimale, improntata su sguardi incrociati, figurazione dei corpi, silenzi che danno voce a chi viene repressa… contrariamente a quanto è stato scritto sulla dissonanza e la mancanza di sfumature dei protagonisti, la loro intimità o una carnalità del vero, s’attesta nello stupore dell’amicizia… anche la musica di George Fenton s’intreccia nella narrazione con
amorevolezza e contribuisce alla vivezza anti-letteraria o anti-marginale del film.
The old oak non solo è lo svestimento di un dramma sociale, soprattutto è l’invito a lottare contro l’iconologia dell’imposizione, della persuasione, del razzismo in un realismo tragico che nei profluvi del mercato neoliberista ritrova momenti di speranza senza vendetta. Loach non tratta di un mondo dimenticato ma oltraggiato, dove il riscatto individuale si mescola con quello della comunità che si oppone alla rassegnazione. Il riscatto degli sconfitti non può passare dai sermoni delle istituzioni né dai furori razzisti delle popolazioni immiserite… la condivisione dell’esclusione si trascolora in un atto di sconnessione dal disagio razzista e attraverso la fraternità esonda in una nuova decenza. “Non importa da dove vieni ma ciò che porti con te”, si legge nel manifesto del film… l’autenticità dell’assetto filmico è un affresco di denuncia sociale che rigetta le vessazioni del capitalismo saprofita.
The old oak è una lezione di stile non solo sull’erranza imposta dalle guerre e la decadenza della classe operaia… è un grido di libertà contro le politiche xenofobe della partitocrazia in Europa e ai quattro angoli della Terra… il cinema resistenziale di Loach è inevitabilmente politico e contrasta i fasti del cinema d’intrattenimento — che è il più politico in assoluto, poiché educa all’evasione dalla realtà —… le grandi produzioni dell’industria hollywoodiana e le filmografie da cortile (come il cinema italiano), affastellano l’immaginale collettivo sulle gogne del sistema economico dominante e sono le opere dei disfattisti come Loach a risvegliare
le coscienze e indicare un’altra visione del mondo.
Avvicinati, prendi il mio amore in cui ho sotterrato il tuo e spezzettalo nella compassione dell’innocenza insanguinata, diceva un mio amico ubriacone che sapeva Don Chisciotte a memoria… il cinema, nella sua infinitezza e sregolatezza, si è sottratto anche al vuoto dei formulari di ammirazione… ci sono film che rigettano il destino dei popoli immiseriti e invitano ad alzare gli occhi contro l’idolatria del possesso senza abbassarli mai più!… il sorriso degli uomini in libertà non è là dove si piega alle tavole comandamentali dell’oppressione, ma dove recide le catene dell’apparenza e della sottomissione, e, qualche volta, taglia la gola ai prosseneti dell’intollerabile.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 15 volte gennaio, 2024