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Io capitano (2023) di Matteo Garrone

Inserito da serrilux

Io capitano (2023) di Matteo Garrone

“Nell’istante in cui gli uomini non forgeranno più idoli, si uccideranno a vicenda, fino all’ultimo
(…) Il risultato certo del divenire storico è che essi non possono vivere senza idoli, senza culto,
senza l’accecamento dell’adorazione. Sia che s’inchinino ai fantasmi religiosi o a quelli politici,
storditi dal simulacro di assoluto di un feticcio, di un dio o di un partito”.
E.M. Cioran

Nell’imbecillità conclamata del cinema italiano, e C’è ancora domani di Paola Cortellesi, è l’apogeo del provincialismo mercantile nel quale è affogato… s’affacciano talvolta autori di una certa levatura autoriale — oltre s’intende ai soliti randagi di resistenza culturale come Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, Paolo Benvenuti, Pietro Marcello, Alice Rohrwacher, tanto per fare qualche nome —… tra i pochi film che hanno davvero il carattere del disinganno si possono annoverare opere come La bocca del lupo (2010) o Le vele scarlatte (2022) di Pietro Marcello, Lazzaro felice (2018) di Alice Rohrwacher, Il vento fa il suo giro (2005) di Giorgio Diritti, Rapito (2023) di Marco Bellocchio o Io capitano di Matteo Garrone.
Qui il cinema mostra che la libertà è il diritto alla differenza e ogni tipo di supremazia istituzionale/ religiosa, contiene in germe ogni forma di tirannia.

Va detto… che a Io capitano vengano assegnati premi o un Oscar a noi interessa poco o niente… di Oscar a brutti film ne sono stati dati a balle… tra questi, Nuovo cinema Paradiso (1990) di Giuseppe Tornatore, Mediterraneo (1992) di Gabriele Salvatores, La vita è bella (1999) di Roberto Benigni, La grande Bellezza (2014) di Paolo Sorrentino… si distinguono per le ricette di sentimentalismo, pietismo e misericordia dispensati alla benevolenza del pubblico… i critici, come sappiamo, sono le mosche cocchiere della mediocrazia e incensano tutto ciò che i loro padroni gli dettano. Gli Oscar dati a (1964) e Amarcord (1975) di Federico Fellini, Ieri, oggi, domani (1965) e Il giardino dei Finzi Contini (1972) di Vittorio De Sica (uno dei maestri intramontabili del Neorealismo), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1971) di Elio Petri… sfuggono alle categorie dell’orazione, contengono l’aura seduttiva della condiziona umana che tuttavia si traduce in evasione dal reale e invasione del reale… e non è nemmeno una colpa… la comunione esaltata tra pubblico e cinema si riproduce in un’estetica inglobata, integrata, deposta nel religioso, nel nazionale, nel politico ed è al fondo dello spettacolare integrato in universi convenuti.
Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa, dell’impostura politica, della mercificazione dei bisogni, poiché “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (Guy Debord). Il cinema spettacolista (e quello americano specialmente), è allo stesso tempo il risultato e il progetto del modo di vivere esistente… è un surrogato del mondo reale, la sua distrazione ornamentale… è l’inganno dell’illusione diretto al cuore dello spettatore… è il modello accettato della vita socialmente dominata.
Io capitano è una sorta di odissea della miseria, della povertà, della violenza imposte dalla grande finanza, governi condiscendenti, politiche autoritarie che legittimano il colonialismo, il saccheggio, il massacro dei Sud della Terra… le guerre sono la genesi o il suggello di una crudeltà generalizzata… invece di disertare, sabotare, contrapporsi alle logiche dei mercati che le provocano, gli uomini finiscono per accettare la stupidità eretta a sistema… rifiutare la guerra con tutti gli strumenti possibili, significa ignudare i precetti criminali degli Stati… né Dio, né Patria, sempre… che vadano i presidenti, i generali, i banchieri, i politici, gli artisti, gli operai guerrafondai a scannarsi tra loro… per fame di potere si sbraneranno come ratti su cumuli di spazzatura. Non pisceremo sulle loro tombe e come monumento avranno una valanga di sputi.

Il film di Garrone è una fiaba universale… non parla solo di emigrazione ma soprattutto d’ingiustizia sociale e la libertà di sognare un mondo diverso, meno feroce, più umano, forse.
Due ragazzi senegalesi, Seydou e Moussa… lasciano la miseria di Dakar e intraprendono il viaggio della disperazione per raggiungere l’Italia, dove Seydou vorrebbe diventare un rapper famoso e fare autografi ai bianchi. Hanno lavorato duro e messo insieme i soldi per attraversano i deserti del Mali, Niger e giungere in Libia… naturalmente, nel tragitto sono ingannati e truffati dai trafficanti di uomini, poi arrestati, imprigionati e torturati dalla mafia libica… Garrone costruisce i momenti delle torture con abile destrezza figurale… conduce lo spettatore dentro un labirinto di situazioni estreme (mucchi di cadaveri) senza mai cadere nel compiacimento o nella volgarità.
Nella prigione, intermediari dei ricchi libici, comprano gli uomini per farli lavorare come schiavi… Seydou, aiutato da un detenuto muratore, viene comprato per fare il manovale in una villa nel deserto… costruiscono una fontana che molto piace al padrone… gli viene data la libertà e i soldi per andare a Tripoli. Nella capitale libica Seydou lavora nell’edilizia e un po’ avventurosamente (forse troppo) ritrova Moussa, ferito a una gamba. In ospedale non accettano clandestini e i ragazzi decidono di riprendere il viaggio verso l’Italia. Non hanno abbastanza denaro per attraversare il Mediterraneo… gli scafisti raggiungono un accordo con Seydou… impartiscono poche istruzioni al ragazzo e gli affidano un peschereccio gremito di profughi che deve guidare fino alle coste italiane… gli danno anche il numero di telefono delle organizzazioni non governative per avvertirle sull’arrivo dei disperati. Seydou riesce a portare la “carretta del mare” in Sicilia e ai militari che li traggono in salvo, urla: “Io capitano”, Io capitano, Io capitano”. Il ragazzo è diventato capitano della propria esistenza.

Nel film di Garrone non c’è sorta di retorica dell’emigrazione che investe tutti i festival del cinema… è piuttosto il viatico impervio di due ragazzi che sognano il successo nel Paese-Italia, dove anche il primo imbecille di un partito, di un movimento o di un’azienda di ventilatori può albergare felicemente nella cloaca del parlamento. Il popolo conta solo il giorno delle elezioni, lo sappiamo, ma davvero pensate che i saprofiti del capitalismo o dei tagliagole del comunismo di Stato vi farebbero votare se la scheda elettorale cambiasse qualcosa?
Finanza, politica, chiese, mafie e fucili… sono i possessori dell’immaginario e attraverso l’oligarchia dei media (televisione, cinema, fotografia, carta stampata, social-network) inducono all’alfabetizzazione della stupidità… sostengono l’aberrazione del potere come sacralità… gli indici della Borsa sono Dio, le guerre la profanazione della libertà, i massacri una teologia delle lacrime versate dai governi sulle macerie dell’innocenza… sono i propugnatori dell’entusiasmo beota delle folle e attraverso la feticizzazione della merce, l’industria della povertà hanno eretto i cippi d’una nuova schiavitù. Perché mai frequentare Epicuro, Nietzsche, l’asino Platero o la Banda Bonnot, quando basta uno smartphone per farci intravedere un mondo a portata di mano dove in nome dell’indifferenza, della disuguaglianza e dell’obbedienza tutto
è permesso?

La sceneggiatura di Io capitano, scritta da Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri, esprime una poetica asciutta, financo lirica, e non sappiamo quando deve alle storie sulle migrazioni dal continente africano di Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia, servite per la documentazione… e nemmeno c’importa… non ci pare riconoscere nel film, come è stato detto, neanche i filamenti della narrativa per ragazzi di Jack London o Robert Louis Stevenson… la trattazione filmica di Garrone semmai rimanda alla corposità visiva di François Truffaut ne I 400 colpi (1959) o Gli anni in tasca (1976), più ancora a Il piccolo fuggitivo (1953) di Raymond Abrashkin (accreditato come Ray Ashley), Morris Engel e della fotografa Ruth Orkin… poca letteratura e molto cinema, insomma… diverse le ambientazioni, profondamente uguali i significati etici… una scrittura visuale per niente istintiva, né spontanea… caratterizzata invece nella conduzione degli attori in maniera madrigale, secondo la lezione geniale della veridicità che supera il reale di Jean Renoir. Gli interpreti sono se stessi e al contempo specchio-immagine di tutte le tragedie migratorie che sfuggono dall’impoverimento imposto dai sistemi dell’economia-politica.

Garrone gira il film in sequenza, con la Steadicam e macchina a mano… si avvale della perizia tecnica del direttore della fotografia, Paolo Carnera, che incastona il film in una bellezza insolita per il cinema italiano dell’approssimazione, per non dire dell’insignificanza… insieme all’operatore Matteo Carlesimo, manovra le camere ALEXA Mini LF e ARRI Signature Primes, mi pare, con grande pregevolezza estetica… i rossi, i marroni, verdi, esprimono una cromatica che fuoriesce dal favoloso per addentrarsi nel drammatico del racconto. Carnera dice di essere stato influenzato dalla cultura figurativa dei grandi reporter —“tra tutti il mio maestro Ernest Haas, e poi ai colori del fotografo statunitense Steve McCurry e alla composizione del fotografo brasiliano Salgado”, dice —… a noi sembra che dal suo lavoro emerga certo il “realismo magico” di Haas, ma non il colore furbesco di McCurry… mentre la composizione materica di Salgado è del tutto intarsiata con le solide quadrature del regista.
Il montaggio di Marco Spoletini esegue una partitura filmica complessa… campi lunghi, primi piani, movimenti di macchina lenti… raccordano la storia sui volti, i corpi, gli sguardi dei protagonisti… un’elegia scritturale di grande respiro emotivo che infonde all’intero film la forza di un linguaggio-metafora della quotidianità violentata… un esercizio di de-fascinazione stilistica da ciò che corre e intreccia una filosofia dell’accoglienza con qualcosa che sfugge ai canoni della realtà. Le musiche di Andrea Farri, per niente consolatorie o commedianti, s’innestano nella creatività epopeica-ciclica del film, fino a toccare le corde della compassione laica.
Garrone inserisce nel film due visioni surreali di notevole finezza costruttiva… quella nel deserto, quando Seydou non riesce a salvare la donna anziana dalla morte, e i riferimenti evidenti sono all’immensa pittura di Chagall, e quella dell’angelo che lo riconduce alla propria casa… un rimando al favolesco di Pasolini, più volte usato nel suo cinema in forma di poesia…. la semplicità degli effetti speciali di Laurent Creusot è sorprendente… non s’affida a troppi manierismi tecnici e le sequenze entrano ed escono dal film in una visione onirica che stupisce per la loro bellezza scenica… è uno slancio emotivo, una missiva metafisica che travalica l’agonia per attestarsi nella speranza che nessuna cattiveria può spezzare.
Gli interpreti di Io capitano, Seydour Sarr, principalmente… qui al suo debutto nel cinema… sono incisi nell’autenticità del film… i loro corpi parlano, come i loro desideri… raccontano l’emarginazione sociale attraverso sofferenze che conoscono da vicino… esprimono una realtà tragica che confisca la finzione e la rovescia nella dura verità del loro tempo. Sui loro volti si legge ogni lacrima versata dei padri e le violenze storiche che hanno strozzato ogni avvenire di felicità. Nei dogmi di progresso, civilizzazione e mitologie dell’impero mercatale, sono stati compiuti più crimini di quelli descritti nei Vangeli. La civiltà dello spettacolo si nutre di lacrime… intolleranza, brutalità, espropriazione, dominazione… hanno confiscato il diritto alla vita dei popoli umiliati… e fino a quando i conquistatori non impallidiranno di fronte all’ostentazione della libertà dei popoli insorti, il compito dell’uomo non sarà finito.
Amen, e cosi è.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 17 volte febbraio, 2024

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