“L’assassinio politico non piove mai con continuità, ma viene a rovesci.
Anche i tempi nostri possono andare orgogliosi di qualche bell’esemplare”.
Thomas De Quincey
Il cinema è morto di cinema… affogato nelle televisioni, nel web, negli smartphone… e nei festival internazionali del cattivo edonismo (quelli provinciali sono l’esatta riproduzione ri- dotta, sovente penosa, della macchina/cinema)… col cinema e in tutte le forme del comuni- care omologate, bisognerebbe applicare l’assassino come una delle belle arti, Thomas De Quincey, diceva, tra una fumata d’oppio e l’altra… incoraggiare l’omicidio del cinema e di tutti i burattinai e burattini che ne fanno parte, dovrebbe essere un’operazione di difesa so- ciale contro la delinquenza mercatale che lo suscita. Fra le considerazioni sensuali sul tè e il Martini ghiacciato con le olive delle conferenze stampa, e “star” impegnate a salvare il mondo con le mutandine firmate Armani, perfino l’ultimo degli stupidi sembra intelligente! Specie quando si mette a parlare dell’arte del cinema (che non conosce) svenduto nei centri com- merciali. I servi hanno sempre le convinzioni dei loro padroni, ma i padroni almeno sanno decapitarli con una qualche eleganza!… ai servi invece non resta che accettare il cappio al collo, il fucile e l’aspersorio, o ribellarsi con tutti gli strumenti utili… del resto, il padrone si è accorto dell’umanità del servo, solo quando il servo gli ha tagliato la gola e ha decretato la fine della letteratura.
Uno dei “maestri” prediletti di Hollywood è Martin Scorsese… autore qualche volta di una certa robustezza fattoriale (America 1929. Sterminateli senza pietà, 1972), altre volte un modesto artigiano dello schermo dorato (New York New York, 1977) o un confratello della grammatica filmica, anche pregevole (Toro scatenato, 1980)… tuttavia sempre attratto dalla fascinazione mafiosa di Little Italy (dov’è cresciuto)… e siccome chi è stato allevato nelle strade di questo quartiere di New York non può che diventare “un gangster o un prete [e] io non potevo essere né uno né l’altro” (Martin Scorsese)… ecco che Scorsese ha unito le due cose e si è fatto regista di opere accattivanti sulla mafia italo-americana o sui caimani della Borsa di New York che determinano guerre, elezioni politiche e governi… e basta vedere con attenzione l’apologia di Cosa Nostra di Quei bravi ragazzi (1990) o passando alla rivisitazio- ne oleografica di Wall Street con The Wolf of Wall Street (2013), per comprendere il successo, le ragioni e le virtù di Scorsese disseminati sugli schermi/video planetari… ora nessuno è obbligato a mettere ciò che guarda, ciò che sente e l’intelligenza avuta in sorte nel sacco del- l’immondizia, specie quando s’imbatte in un impostore (Dio su tutti!)… ciascuno coltiva i suoi gusti e succhia ciò che più lo aggrada nella vita… foss’anche riabilitare i campi di stermi- nio di Hitler o Stalin e farci sopra una bella miniserie… ai tempi di mio padre c’erano ubriachi che avevano una qualche idea sul fatto che la cultura è sempre stata a guinzaglio delle politi- che dominanti e, a memoria d’avvinazzato in allegrezza, ricordo bene che si brindava al rovesciamento dell’arroganza e alla liquidazione dei padroni e degli sbirri! “Bisogna prenderli a calci in culo i padroni, non baciargli la mano”!, diceva mio padre mentre inzuppava il sigaro nell’anice… i cortigiani non potranno mai essere dalla parte della libertà dei popoli.
Ora… è piuttosto vero che un uomo si merita una bastonatura per aver diretto The irishman (2019), o due o tre bastonature per aver abilitato (all’encomio) le famiglie mafiose americane (sempre conniventi con la politica del proprio tempo)… quello che appare più strano è come un film come questo possa riscuotere consensi (quasi) unanimi di critica e pubblico… ma la verità (come l’amore) non è mai innocente… proprio perché è senza pietà, perché è aggres- sione (o deposizione), ci aiuta a fa saltare tutte le certezze imposte e non rinuncia ai processi di liberazione! Quando un film è un salmo, è un contenitore di acculturazioni… finge di par- lare il linguaggio dei contadini, dei mercati generali, delle portinaie… ma quello che ne fuo- riesce abita l’immaginario addomesticato alle regole del più armato… il grande autore inter- roga la sua “ignoranza”, mai consacra l’opera alla probità del successo! La libertà d’espressione rifiuta la soggezione al mercantile e là dove il grossolano diventa il mezzo degli specia- listi del clistere, si sparge il lezzo dell’inumanità.
The irishman è una superproduzione Netflix (140 milioni di dollari) e altri finanziatori (tra i quali Vittorio Cecchi Gori, Irvin Winkler, Robert De Niro, Martin Scorsese)… fabbricato in Widescreen, un formato video che occupa orizzontalmente tutto lo schermo… adatto in modo particolare per gli apparecchi televisivi 16/9… si mostra per quello che è, un dispositi- vo seriale che designa sempre altro dal vissuto autentico. Netflix è una piattaforma di distri- buzione e produzione di film e serie televisive quotata in Borsa (la capitalizzazione supera i 150 miliardi di dollari)… l’enorme offerta delle sue “confezioni” consiste soprattutto in un catalogo di schifezze americane che nulla hanno a che fare col cinema e molto con le richieste bassamente commerciali… gli utenti/spettatori assorbono una quantità di segnali (audiovi- suali) che esaltano la patria, la violenza, la fede e ai bambini riservano speranze come occa- sioni di felicità temporanea, in attesa di entrare nei gangli della società spettacolare che li ar- ringa nell’indifferenza a tutto… è l’impronta di un futuro canonico banalizzato, quello di as- servire la potenza costitutiva di un mondo che educa al “conosciuto” o alla “copia”, sprofon- dato nella genealogia dell’obbedienza. L’immaginario liberato non li riguarda, tantomeno l’utopia… la sola forza intellettuale e sociale utile a costruire qualcosa di reale! Si può vivere senza vedere né leggere nulla… passare accanto all’essenziale, all’amore, alla gioia, al dolore dei secoli inzuppati di lacrime dei popoli impoveriti, ma uno sguardo esercitato alla curiosità, disavvezzo a chinare il capo o cresciuto nell’onestà intellettuale è il solo viatico che porta al piacere di offrire, al piacere di donare, al piacere di conoscere la scoperta del Sé come voluttà e desiderio finalmente realizzato che ha abolito l’impossibile! a un uomo in rivolta, tutto è permesso.
La sceneggiatura di The irishman è di Steven Zaillian (premio Oscar per aver scritto Schind- ler’s List – La lista di Schindler, 1993, di Steven Spielberg, abile artigiano amato e sopravalu- tato per le sue infime furberie da box-office)… Zaillian mescola vari generi (biografia, storia, gangster, dramma, con quel tanto di violenza che molto piace al pubblico col pop-corn e la Coca-cola)… racimola i ricordi dell’assassino di Cosa Nostra, Frank Sheeran (realmente esi- stito), considerato l’esecutore materiale dell’omicidio di Jimmy Hoffa, sindacalista a libro paga della mafia e fondatore dell’International Brotherhood of Teamsters (sindacato degli autotrasportatori), attualmente nelle mani del figlio, James Philip Hoffa… il cadavere di Hoffa non è stato mai ritrovato. Scorsese riprende quell’atmosfera delinquenziale, agiografica de Il padrino (1972) di Francis Ford Coppola… e trasforma i fasti di un’organizzazione criminale in ideologia del delitto. Il malgoverno non c’entra, quello che importa è la famiglia, la politica e la mafia americana come braccio armato del potere… a partire dagli anni ’50 e per tutti gli anni ’70, fino all’uccisione di Hoffa, Sheeran mostra una disinvolta professionalità omicida, sottolineata con cura da Scorsese… finirà in una casa di cura e confesserà a un prete cattolico i crimini commessi.
Il film si avvolge intorno alla seconda guerra mondiale… John Fitzgerald Kennedy, l’invasione statunitense della baia dei porci a Cuba, Robert Kennedy, Richard Nixon, i traffici dell’F- BI con i mafiosi… più di ogni cosa si coglie una certa inclinazione a salvare o a non condanna- re gli assassinii di Frank Sheeran (Robert De Niro), James Riddle “Jimmy” Hoffa (Al Pacino), Russell Bufalino (Joe Pesci), Angelo Bruno (Harvey Keitel), Ray Romano (Bill Bufa- lino), Felix “Skinny Rasoio” DiTullio (Bobby Cannavale), Anthony “Tony Pro” Provenzano (Stephen Graham)… e finiamola qui… perché sono tante le vicende costruite intorno a questi criminali, figurate come siparietti d’immacolata indecenza… ciò che è avvilente sono le chiacchere di De Niro, Al Pacino, Joe Pesci e di tutto il contado di mafiosi che sembrano rie- sumare il codice d’onore dei crociati quando sgozzavano gli infedeli in “terrasanta”… De Niro, Pacino e Pesci poi, così truccati e quasi impietriti nei loro ruoli, sovente cadono nel bozzetto o nel ridicolo… del resto il crimine paga non solo in politica ma anche al cinema. Il Time, Il Fatto Quotidiano e il solito euforico del mercantilismo cinematografico, Paolo Me- reghetti, gridano al “capolavoro”… per noi The irishman sta tra il qualunquismo di Topolino e La Bibbia (2013) raccontata in dieci puntate per far credere che Dio c’è… presto si produr- ranno delle saghe che venderanno a un prezzo accessibile il “cuore umano” dei tiranni.
La fotografia (Rodrigo Prieto), il montaggio (Thelma Schoonmaker), gli effetti speciali (Pa- blo Helman), la musica (Jaime Robbie Robertson), s’accordano con le fumisterie di Scorsese e nelle 3 ore e 30 minuti di noia mortale, nemmeno ci passa negli occhi una qualche emozio- ne scritturale del regista di Toro Scatenato… l’architettura filmica è miracolosamente piatta… un caleidoscopio d’inessenze descrittive… incline alla lacrima facile, anche… Scorsese fa lunghe inquadrature sui faccioni dei protagonisti che ballettano di scena in scena quasi in maniera goliardica… non filma, parla, detta, impone… non assolve né crocifigge… è una sorta di confessore che aspira alla proclamazione di uno stile che non c’è… avere stile significa su- perare il talento… disseminare la sua essenza, che è sempre fuori moda! La distruzione della ragione — disseminata nella comunicazione di massa — prepara così bene gli uomini alla sot- tomissione o alla cancellazione della memoria che ciascuno crede davvero a quello che vede… senza sapere mai che “il potere non crea niente, recupera” (Internazionale Situazionista) e sancisce l’alienazione della dominazione spettacolare sulla vita.
L’immagine del mondo (e del cinema) passa attraverso la lingua televisiva che la veicola, la racconta, la trasporta e decifra il consenso nell’universale che uccide… è difficile, certo, par- lare il linguaggio dei contadini, dei poveri, dei malfattori come Louis-Ferdinand Céline… quello dei mafiosi è più colorito di sangue e i politici lo conoscono bene… meglio creare fin- zioni e aneddoti storici, elaborare abbozzi d’impareggiabile stoltezza che affrontare la ricerca di tutto ciò che è stato, dell’orrore passato e presente organizzato ed eseguito da mafie e politiche… cancellare i morti dimenticati da un sistema parassitario che si fonda su un’unica opi- nione, dove ciò che oggi appare vero, domani è già falso. “Tutti i fatti possono essere cambia- ti e tutte le falsità rese vere” (Hannah Arendt, diceva)… l’impossibile è ingoiato nelle fauci del solo possibile… vivere senza comprendere, questo è il paradiso! Il linguaggio dell’adula- zione è l’elogio del potere e le sue merci perfezionano la reificazione e il fanatismo… la deva- stazione degli uomini passa da qui… dalle infatuazioni dell’idolatria e dei simulacri: “Si teme l’avvenire solo se non si è certi di potersi uccidere quando si vuole” (E.M. Cioran). Gli ideo- logi d’ogni bandiera sono i guardiani dello spettacolo dominante, svuotano i concetti dai con- tenuti, li rimettono in circolazione al servizio della ragione imposta… certo, ognuno ha dirit- to all’ignoranza o alla complicità, financo alla tabula rasa dellebelve della disuguaglianza, senza dimenticare mai che l’evasione dalla realtà è la via maestra che porta a ogni forma di dispotismo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 19 volte luglio 2020