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The Brutalist (2224) di Brady Corbet

Inserito da serrilux

The Brutalist (2224) di Brady Corbet

“Quando alla fine ti arrenderai a noi, accadrà per tua spontanea volontà. Non eliminiamo l’eretico perché ci resiste, anzi: finché resiste, non lo eliminiamo. Semmai lo convertiamo, ci impadroniamo dei suoi pensieri più intimi, gli diamo una nuova forma. Debelliamo tutto il male e tutte le chimere; lo portiamo dalla nostra parte, non nell’apparenza ma nel profondo, anima e corpo”.
George Orwell

La dittatura del profitto del cinema hollywoodiano è profluvio di sciocchezze che sguazzano nel letamaio della gloria da Oscar… e dominano un mondo consacrato al linguaggio degli affari… seguono la logica utilitaristica del mercato e i film sono dei veri attentati alla distruzione della conoscenza e dei valori fondamentali sui quali si poggia la vita dell’uomo… l’onnipotenza della finanza, della politica, delle religioni monoteiste si specchia nel denaro e col denaro si possono comprare politici, giudici, poliziotti, armi e produrre guerre, colonizzazioni, genocidi… con i soldi si uccide la «memoria del passato, Le discipline umanistiche, le lingue classiche, l’istruzione, la libera ricerca, il pensiero critico e l’orizzonte civile che dovrebbe ispirare tutta l’attività umana» (Nuccio Ordine). L’uniformazione dei “bisogni primari”, l’educazione seriale dei mezzi d’informazione di massa, l’omologazione dei linguaggi della politica, delle fedi, delle promesse finanziarie… hanno mutato la morfologia della cultura e i corpi monopolizzati dal potere sono deposti in una situazione di emergenza, di precarietà, di sottomissione o di consenso a tutto… la polarizzazione degli uomini alla macchina/capitale è compiuta. Solo la conoscenza affinata può sfidare le leggi del mercato e seminare i vagiti di un’utopia di fraternità, solidarietà, accoglienza e libertà tra gli uomini, passando da una resistenza al presente.

Il cinema (nel suo insieme) è un dispositivo di domesticazione sociale… non si sono mai prodotti tanti film come dopo la “rivoluzione digitale”… l’industria cinematografica ha invaso il mondo attraverso la televisione e internet (infocrazia) è il supermercato dove ingoiare ogni schifezza… tutto passa di lì e lì tutto muore nella caterva di immagini consumate in un analfabetismo sorvegliato che distrugge ciò che promette… il dominio e il suo spettacolo sono ormai interiorizzati e la colonizzazione dei saperi ha investito l’essere umano ai quattro venti della Terra… la valorizzazione di un sistema di speranze fagocitate dai governi e sempre disattese, è quella che le guerre, gli indici delle Borse internazionali, i piani di colonizzazione dei Paesi meno attrezzati, sono al fondo del benessere generale… l’imperialismo totalitario è in atto e solo “un’improvvisa insurrezione di un intero popolo con nessun altro obiettivo se non il bene della libertà” (Hannah Arendt), può modificare lo stato di cose presente. Occorre dunque insorgere contro le burocrazie dei partiti, le gogne della finanza, le convenienze degli scienziati, le imposture dei profeti, le prostituzioni degli intellettuali, le soggezioni dei lavoratori, le miserie delle migrazioni e cercare di trasformare dal basso, come ogni mezzo utile, la protervia sanguinaria dei governi in democrazie consiliari… poiché l’evento della libertà di pensiero non può che nascere sulle loro spoglie.

The Brutalist è un esempio di come la macchina/cinema hollywoodiana s’innesta nel delirio irreversibile della sua struttura/merce e mostra in bella luce quello che la critica velinara (specie di sinistra, la più servile del mondo) non dice: dietro un bel film da Oscar c’è spesso un bel cretino da celebrare! E Hollywood sembra non ne possa fare a meno di cretini né di pubblici cretini… poiché i cretini abitano la stessa lingua.

Primo tempo: L’enigma dell’arrivo: 1947. L’ebreo ungherese László Tóth, scampato al campo di sterminio di Buchenwald, arriva negli Stati Uniti. La Shoah, ovvero lo sterminio di oltre 6 milioni di ebrei d’Europa conquistata dalle armate di Hitler (senza contare i comunisti, gli anarchici, i dissidenti, gli zingari, gli omosessuali, i folli, i malformati…), naturalmente sostenute dai grandi imprenditori tedeschi, intellettuali benemeriti e un intero popolo prono ai deliri di un dittatore più stupido dei suo discorsi… un totalitarismo da macelleria pari alle atrocità della dittatura stalinista… nazismo e comunismo di Stato sono sinonimi… si autoincensano sulle medesime forche e i medesimi massacri del loro stesso popolo! László (prima dell’ascesa al potere del nazismo, è uno stimato architetto del Bauhaus), in attesa che venga raggiunto dalla moglie, Erzsébet, lavora a Filadelfia nell’azienda di mobili del cugino Attila Molnár, ormai completamente assimilato nella vita americana (cambia anche il cognome in Miller) e ha sposato una fervente cattolica, Audrey.

László disegna arredamenti d’interni in maniera essenziale, modernista… intanto le Nazioni Unite ratificano il piano di ripartizione della Palestina (1947) che prevedeva due stati per due popoli… c’è da ridere… la terra di Palestina viene divisa a macchia di leopardo e i palestinesi vengono accerchiati dallo Stato d’Israele… si dà inizio a uno degli eccidi più sprezzanti del ventesimo secolo e con il beneplacito di Stati Uniti e l’intera collettività internazionale, i militari e i coloni israeliani attuano le persecuzioni del popolo palestinese con gli stessi metodi di sterminio del nazismo. Anche i bambini sono decimati, perché, dicono gli israeliani, posso crescere e diventare terroristi… ma proprio non si capisce il perché di un popolo invaso, martorizzato, vilipeso non debba prendere le armi in difesa della propria giustizia e libertà.

László fa amicizia con Gordon, un nero senzatetto e il figlio… quando ecco che appare come un segno del destino (tutto ebraico), il figlio del magnate, Harrison Lee Van Buren, Harry, e chiede ad Attila e László di ristrutturare lo studio del padre… il senzatetto è assunto come manovale… tuttavia il lavoro non piace ad Harrison e licenzia Attila e l’architetto… poi, la moglie Audrey (respinta da László, con il quale vorrebbe scopare), convince Attila a cacciare dalla sua casa il cugino. László va a vivere in dormitorio pubblico e spala carbone insieme a Gordon… si drogano con l’eroina… colpo di scena… si fa per dire… dopo tre anni arriva sul posto di lavoro di László, Harrison Lee Van Buren… gli dice che il suo studio è diventato un’attrazione per l’alta società di Doylestown ed è finito sulle riviste di architettura… e lo invita a un ricevimento dell’alta borghesia nella sua villa. Gli commissiona il progetto per la costruzione di un centro creativo monumentale (Istituto Van Buren) a nome della madre scomparsa e senza badare a spese. Grazie alle intercessioni da uno degli amici del magnate (un avvocato ebreo), la moglie Erzsébet si ricongiungerà al marito.

Secondo tempo: Il nocciolo duro della bellezza: Erzsébet è accompagnata dalla giovane nipote Zsófia, rimasta orfana… è costretta a una sedia a rotelle per una grave forma di osteoporosi dovuta alla denutrizione nei campi di sterminio e Zsófia ha smesso di parlare. Il progetto dell’Istituto Van Buren di László suscita molte critiche da parte dei potenti della città e quando in un incidente ferroviario muoiono degli operai… Harrison Lee Van Buren licenzia László. 1958. I Tóth si sono trasferiti a New York… László lavora in uno studio di architettura, Erzsébet ha una rubrica su un giornale. Zsófia riprende a parlare (i miracoli del Signore vengono bene sul grande schermo o scherno?)… annuncia ai Tóth che lei e il marito andranno a vivere a Gerusalemme. Harrison Lee Van Buren vuole ricominciare i lavori dell’Istituto… con László va a Carrara per acquistare il marmo per costruire l’altare immacolato… si uniscono a una festa dei cavatori e Harrison Lee Van Buren, fortemente ubriaco, sorprende László a drogarsi e lo stupra (qui l’imbecillità raggiunge livelli impensabili nemmeno per i film di Steven Spielberg, Quentin Tarantino o Roberto Benigni che hanno trattato la condizione degli ebrei con la debolezza o l’impalpabilità poetica di tirannelli che figurano l’olocausto ebraico alla maniera di un avanspettacolo).

László si butta sulla conclusione del suo progetto… in uno scatto d’ira licenzia Gordon… smette di frequentare la sinagoga (e questo è un dolore anche per gli affamati di tutte le periferie del mondo, scherzo)… quando Erzsébet è colta da forti dolori e non ci sono i medicinali, le somministra l’eroina… e le confessa dello strupo… fanno l’amore ed Erzsébet è colta da overdose, ma si salva e decidono di andare in Israele. Erzsébet, un po’ zoppicante, irrompe nella villa Van Buren e mentre la famiglia è a tavola racconta dello stupro subito da László a Carrara… Harrison Lee Van Buren sparisce e nessuno lo trova più (!?).

Epilogo: 1980. Alla prima mostra internazionale di architettura di Venezia… una retrospettiva è dedicata all’opera di László, rimasto vedovo e sulla sedia a rotelle… Zsófia legge un discorso e dice che László ha progettato l’istituto ispirandosi ai campi di sterminio nazisti… e chiude con queste parole: “Conta la destinazione non il viaggio”.

Non ci interessa qui snocciolatele le incongruenze storiche su brutalismo architettonico, il Bauhaus o l’uso della IA (intelligenza artificiale)… che hanno fatto storcere il naso a (qualche) critico, storico e architetto… un film non deve necessariamente seguire perfettamente una storia o un romanzo per essere importante… come insegnano certi capolavori come Diario di una cameriera (1964) di Luis Buñuel o Jules e Jim ( 1962) di François Truffaut o Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini… la produzione ha speso tra i 6 e i 10 milioni di dollari e ottenuto un film/merce accattivante da quintuplicare le spese… i premi Oscar al miglior attore protagonista (Adrien Brody), alla migliore fotografia (“Lol”, Laurie Crawley), migliore colonna sonora (Daniel Blumberg) hanno trascinato il film nel favore della critica e del pubblico… mescolando la Shoah al potere dell’America puritana e razzista, il ritorno in Israele degli ebrei che sono riusciti nell’impresa e il riconoscimento internazionale per un progetto “brutalista”, hanno conferito a questo film lo statuto di “opera eccezionale”. Vero niente. Intanto The Brutalist è più brutto che “brutalista”, ma ben congegnato e colorato come si deve a un prodotto di largo consumo. Una sorta di pubblicità del “brutalismo” (che non c’è) destinato alla benevolenza delle platee addomesticate dalle reti televisive mondiali.

Va detto. The Brutalist non è epico, né drammatico, né storico… come viene classificato nelle veline cinematografiche… è un guazzabuglio di idee sugli effetti della tragedia nazista, svuotate d’ogni contenuto artistico… gli ebrei ricchi americani riconoscono il genio architetturale dell’ebreo povero e lo defenestrano con la semplicità, tutta altamente borghese, di come lo innalzano al loro rango… la moglie sulla carrozzina è spigliata, intelligente quanto basta da accattivare la pietà umana più bassamente commerciale, la nipote che ha perso la parola nei campi dell’orrore, riprende a parlare e col marito (un po’ tonto) se ne vanno in Israele (forse a sparare contro il popolo palestinese che subisce gli identici terrori della Shoah), il povero architetto viene stuprato in una cava dal padrone in un’improbabile festa dei cavatori di Carrara (la bruttezza fotografica della sequenza è di quelle indimenticabili)… c’è anche il negro che rifiuta di drogarsi con l’architetto e viene cacciato dal lavoro… poi c’è l’Istituto Van Buren… una colata di cemento piena di stanze, cunicoli e l’altare di marmo pregiato illuminato dal cielo… ci mancava che il grande impostore (Gesù Cristo) calasse giù dal paradiso su un calesse di nuvole attorniato da angeli omosessuali e poi c’era proprio tutto in questo film pomposo, magniloquente, anche funesto… un qualcosa che sta al concetto di Dio dopo Auschwitz, come le commedie di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia a La corazzata Potëmkin (1925) di Sergej M. Ejzenštejn. La regia di Brady Corbet affastella inquadrature edulcorate senza avere lo sguardo esperto (anche ruffiano) dei più modesti artigiani hollywoodiani… la sceneggiatura (Corbet e della sua compagna Mona Fastvold), mette insieme brani di film già rimasticati, la fotografia (Laurie Crawley) è levigata nei toni abituali ai video musicali, il montaggio (Dávid Jancsó, figlio del grande regista Miklós Jancsó, autore indimenticabile di I disperati di Sandór, 1964), si limita ad aggiuntare sequenze di una lunghezza improponibile, la scenografia (Judy Sarah Becker) intreccia l’arredamento con l’insignificanza visiva, la musica (Daniel Blumberg) è smielata lungo il film fino alla nausea… poi c’è l’attorialità… Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy, Stacy Martin, Emma Laird, Isaach de Bankolé, Alessandro Nivola… fanno di tutto per risultare credibili nelle loro parti… quello che tuttavia esce solo schermo non supera il marionettismo della recitazione hollywoodiana prona a tutti i manierismi di facciata… per manifestarsi la macchina/cinema esige il vuoto e la sua domanda mercatale è la stessa che la annulla traslocandola in arte del consenso.

The Brutalist istituisce un universo di menzogne nel compiacimento dello spettacolo come frenesia dell’intelletto che si adatta a tutti e a nessuno… si spinge a una visione ebraica/israeliana del mondo che piace molto ai caimani di Wall Street, i tenutari delle finanze dell’intrattenimento cinematografico, del ministero della menzogna, delle guerre e delle stragi del popolo palestinese… e tutto è beneficiato nell’indifferenza generale… il grido muto degli sterminati investe democrazia, verità, fascismo, manipolazione, potere, decostruzione dell’identità e il regime dell’informazione (infocrazia) continua a partorire i mostri del totalitarismo. Non c’è più verità nella storia perché non c’è più storia della verità, fino a quando gli uomini non si prenderanno il diritto di vivere tra liberi e uguali, con tutto quello che comporta la costruzione della rivolta sociale.

Per chiudere come per aprire: Possedere l’amore significa uccidere l’amore: «Non confondere l’amore col delirio del possesso, che causa le sofferenze più atroci. Perché contrariamente a quanto comunemente si pensa, l’amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto di proprietà, che è il contrario dell’amore», Antoine de Saint-Exupéry, diceva… coloro che fanno del loro sapere una servitù volontaria, si rendono schiavi ad ogni potere e cessano di ridere come di amare… «è il godere non il possedere che ci rende felici» (Michel de Montaigne)… gli uomini liberi abitano qualsiasi luogo dell’universo e fanno della dignità l’utensile con il quale scardinare ogni malefizio del profitto… far morire esseri umani per accumulare ricchezze e potere significa pregiudicare il divenire dell’umanità.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 12 volte maggio, 2025