a ricordo del Maggio ’68,
quando le giovani generazioni dettero l’assalto al potere,
non per possederlo, ma per meglio distruggerlo!
« Una camera in mano e un’idea in testa… Sappiamo, di fare questi film brutti e tristi, questi film gridati e disperati
dove non sempre la ragione parla più forte, che la fame non sarà curata con le pianificazioni di gabinetto
e che le toppe del technicolor non nascondono ma aggravano i loro tumori.
Così, solo una cultura della fame, minando le proprie strutture, può migliorarsi qualitativamente:
e la più nobile manifestazione culturale della fame è la violenza ».
Glauber Rocha
I. L’insurrezione della gioia
Prologo sul nostro scontento. La rivoluzione o l’insurrezione della gioia scoppiata nel ’68 ha radici lontane… le giovani generazioni che interpretavano le turbolenze degli anni sessanta e uscivano dai — movimenti per la pace, le manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, la nascita del Black Panther Party, la rivolta di Berkeley, la Grecia dei colonnelli, lo strappo della Polonia contro il comunismo, Don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana, Rudi Dutschke e il movimento studentesco tedesco, Martin Luther King, Mao Tse-Tung, Ho Chi Min, Eldridge Cleaver e il Black Panther Party, Ernesto “Che” Guevara, Fidel Castro, Herbert Marcuse, Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, i Blousons noirs d’ogni paese, i Provos olandesi, gli Zengakuren giapponesi, la Primavera di Praga, il Maggio francese (Daniel Cohn-Bendit, Guy Debord, gli Arrabbiati, i Situazionisti), Potere Operaio, Lotta Continua, gli Uccelli in Italia (fino all’eversione in armi delle prime Brigate Rosse), la radicalità armata della RAF in Germania, gli anarchici di terre liberate o di magiche utopie —… disertavano dall’indecenza e dalla brutalità della civiltà del terrore e dell’abuso, e da “vecchie talpe” indemoniate andavano a dare il “colpo di grazia” ad un’umanità dell’apparenza che continuava a produrre infelicità e dolore nei poveri più poveri del pianeta.
Nel ’68 la critica della politica e dello Stato dell’uomo in rivolta rigetta il concetto di un esse-
re assoggettato, degradato, abbandonato, spregevole, vilipeso, violentato, torturato, ucciso… e dà inizio a una rivoluzione dello stato di cose presenti… anticipa i naufragi dell’ideologia, delle religioni monoteiste, dei capitalismi parassitari… e nel salto mortale di una rivoluzione dei bisogni radicali abbatte le barriere del presente politico e diventa protagonista dell’emancipazione generale della società.
Il Maggio francese fu anticipato da contestazioni e/o occupazioni delle università a Bonn, Francoforte, Roma, Madrid, Barcellona, Salamanca, Nantes, Orangeburg (South Carolina), Narita (Giappone) Napoli, Torino, Pisa, Padova, Trieste… in febbraio gli studenti parigini erigono le barricate nel Quartiere Latino e negli scontri con la polizia non vanno tanto per il sottile… una filosofia di resistenza e d’insubordinazione s’allarga contro i sogni svaligiati del perbenismo d’accatto… il mondo dei cretini di vaglio è svelato è l’irruenza libertaria dei movimenti irrompe nelle strade della terra… la critica della modernità (anche estetica) passa negli scritti di Karl Marx, Michail A. Bakunin, György Lukács, Walter Benjamin, Hannah Arendt, Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Alexandre Kojève, Antonio Gramsci, Frantz Fanon, Herbert Marcuse, Wilhelm Reich, Karl Popper, Ernst Jünger, Elias Canetti, Louis Althusser, Paul K. Feyerabend, Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Michel Foucault, Georges Bataille, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Félix Guattari, Henri Lefebvre, Raoul Vaneigem, Guy Debord, Pier Paolo Pasolini… e infonde ovunque nuove possibilità di esistenza.
Insubordinazione, resistenza, insurrezione sono parole che invitano al cambiamento, alla mutazione molecolare della vita quotidiana. La scelta è stare con una parte contro l’altra, semplicemente, e spezzare i legami ideologici e dottrinari che tengono a catena interi popoli. Il lavoro, così organizzato e parcellizzato dai padroni, non rende affatto liberi, ma è ingranaggio del profitto e riduce gli uomini a schiavi. Il divenire liberato degli individui non esclude nessun atteggiamento rivoluzionario e là dove impera il peggio, cioè il capitalismo liquido (Zygmunt Bauman, diceva), la forza libertaria può scardinare la cultura (economia-politica) dell’ostaggio e aderire al meraviglioso che la abita. Il compito di una filosofia di liberazione e critica radicale della società dell’opulenza è quello di rifiutare la stupidità generalizzata e seppellire, non solo sotto una risata, tutte le mitologie su un buon governo. Diffidare di ogni autorità per principio non è solo auspicabile, meglio ancora disconoscere un qualsiasi valore ai possessori e agli esecutori del potere.
II. Sierra Maestra
La civiltà dello spettacolo è l’espressione massima dell’illusione mercantile e lo spettacolo — in ogni campo del comunicare — è anche la principale produzione di consenso della società moderna… lo spettacolo è il monologo elogiativo delle proprie forche, è l’autoritratto del potere di un’epoca dove basta essere un po’ meno stupidi per sembrare intelligenti… “lo spettacolo non vanta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni” (Guy Debord, diceva)… ecco perché ogni merce è anche una confessione e la coscienza del desiderio o dei piaceri inconfessati si trascolora in genuflessione d’infelicità e solitudini senza desideri. Chi non ha mai conosciuto la barbarie di un confine, non possiederà mai la saggezza dell’esilio.
Nel 1969 esce sugli schermi dell’italietta catto-comunista, uno dei film più ostici della storia del cinema italiano, Sierra Maestra1. È il debutto nel lungometraggio di Ansano Giannarelli, Fernando Birri (un utopista anarchico), esule dalla dittatura argentina, collabora alla sceneggiatura e interpreta un guerrigliero… il film è straordinario, poco amato dalla critica di sinistra e boicottato da quella di destra. Un giornalista italiano viene arrestato in Venezuela dai militari, con l’accusa di essere un rivoluzionario… il giornalista, intervistato dalla stampa, dice di non avere nessun legame con le organizzazioni della guerriglia ed è sbattuto in carcere e sottoposto a violenze psicologiche e fisiche… poi sono gettati nella stessa cella (una sorta di castro per maiali), un fotografo di moda e un guerrigliero… i dialoghi tra il guerrigliero e il giornalista descrivono la situazione rivoluzionaria in America Latina, ma è più la forza morale del guerrigliero che stampa sullo schermo la necessità della lotta armata (dei contadini, degli operai, degli studenti…) in paesi oppressi dalla dittatura, che le riflessioni, anche profonde, dell’intellettuale, sull’importanza della cultura del dissidio come strumento di liberazione. All’inizio del film, il giornalista guarda in macchina e dice: “No, non ho partecipato alla guerriglia, mi considero uno studioso e un testimone della guerriglia, naturalmente, un testimone a favore”.
Dopo una serie di brutalità e derisioni dei militari, il fotografo (che collabora con gli aguzzini) viene liberato, il guerrigliero fucilato e il giornalista resta in carcere. Il Mereghetti — dizionario di facezie cinematografiche piuttosto stupide e prone a tutti i poteri — liquida Sierra Maestra come velleitario e alla moda, secondo la contestazione politica del momento… un’imbecillità da corda del boia di Londra… presentato alla Mostra del cinema del ’69 il film di Giannarelli suscita aspre polemiche e i “velinari” cercano di confinarlo nei lager dell’indifferenza. Ispirato alle vicende del caso Régis Debray (che prese parte al tentativo di rivoluzione in Bolivia con Ernesto “Che” Guevara)2, ma, come sappiamo, il rampollo dell’aristocrazia francese fu arrestato qualche mese prima dell’assassinio del “Che” insieme a Ciro Bustos, artista e rivoluzionario (notevoli i suoi schizzi dei guerriglieri denunciati all’esercito e alla Cia)… sarebbero stati loro a rivelare la presenza di Guevara in Bolivia. Molte biografie sul “Che” scagionano Debray dall’accusa di delazione e indicano in Bustos il traditore che permise la cattura del rivoluzionario argentino… Bustos accusò Debray e Fidel Castro di avere informato la Cia del “Che” in Bolivia. Certo è che Bustos e Debray vennero condannati a 30 anni di prigione, ma tre anni dopo ottennero il condono della pena dal presidente Juan José Torres e (dichiarato dall’Argentina persona non gradita) Bustos fuggì in Svezia, Debray divenne consigliere del presidente francese François Mitterand e nostalgico della politica autoritaria del generale Da Gaulle (al quale dedicò un libro).
Il documentario di Erik Gandini,Tarik Saleh (Marten Nilsson, Lukas Eisenhauer e Johan Soderberg), Sacrificio. Chi ha tradito Che Guevara? (2001), tuttavia sostiene la tesi che Debray è stato il vero traditore… specie quando si parla della lettera di Debray inviata al suo avvocato, dove scrive che “aveva raggiunto un accordo segreto con l’esercito boliviano di non rivelare la presenza del “Che” in Bolivia”, perché andava catturato e ammazzato. La breve intervista di Debray, non sconfessa l’accusa. Va ricordato che il 1°aprile 1971, il console della Bolivia in Germania, Roberto Quintanilla, detto Toto, il colonnello e responsabile dell’amputazioni delle mani del Che (dopo la sua fucilazione a La Higuera), fu giustiziato ad Amburgo da una giovane guerrigliera, Monika Ertl… la ragazza, ricercata dalle polizie di tutto il mondo, cadde uccisa in un’imboscata a El Alto (Bolivia) nel 1973.
La lotta armata terzomondista di Sierra Maestra è una sorta di apologo contro la violenza e la rapacità del neoliberismo intrecciati alle chiacchere o le teorizzazioni marxiste/maoiste dei “compagni” italiani dopo il Maggio ’68… Giannarelli mescola frasi di Camillo Torres (un sacerdote ucciso col mitra in mano nel 1966 in Colombia), lette da un prete operaio (Bruno Cirino), a versi tratti dal Marat-Sade di Peter Weiss, lette dalla fidanzata del giornalista (Carla Gravina) in salotti borghesi e montate con la segregazione del fotografo, del giornalista e del guerrigliero… ci sono inoltre i discorsi politici (molto teorici) degli amici del giornalista a Roma, la madre che va nella capitale boliviana per trattare la liberazione del figlio… documenti visivi della guerriglia venezuelana, l’estrazione del petrolio, le lotte dei pastori sardi… i prigionieri subiscono angherie fisiche e morali da parte della polizia militare e degli agenti della Cia, e le loro differenti reazioni diventano specchio o memoria di un tempo dove non bastava più pregare né filosofare, ma rispondere con tutti i mezzi necessari alla tirannia. Nelle parole e nell’interpretazione fisica di Birri c’è tutto il succo del film: non è possibile separare la lotta politica dalla vita e dall’azione che ne consegue… una volta diventata sovrana, l’intelligenza si erge contro tutti i bastioni che la umiliano e mette al loro posto, non importa come, i frequentatori d’illusioni e i becchini della libertà.
Giannarelli costruisce un film-saggio… una metafora contro la passività della sinistra e la ferocia della destra… immagini sconnesse, pezzi di cinegiornali, attorialità straniante, macchina a mano (si vedono anche elementi della troupe), interviste ai pastori sardi, giovani che cantano “bandiera rossa”… figurano uno dei film più estremi mai apparsi in Italia e ci porta a riflettere sulla lotta armata, che non è “una serata di gala”, e rari sono quelli che possono sopportare il peso o le responsabilità di questa scelta… anche se alcune citazioni (maoiste) forse rivelano cecità ideologiche del momento storico, Giannarelli riesce a dire che ogni coercizione fatta a un solo uomo è una sopraffazione contro tutto il popolo. L’interpretazione di Birri è materica, iconica, ereticale… il guerrigliero sa di essere ucciso e solo l’insurrezione del popolo unito potrà sconfiggere i garanti del “buon ordine”: i finanzieri, i preti, i militari, gli schiavi del consolidamento del potere. La figurazione del guerrigliero di Birri è davvero alta… non tende a convincere ma ha raccontare il romanzo autobiografico che si porta addosso.
La poetica sovversiva di Sierra Maestra emerge con forza, non solo per l’attorialità braccata dalla cinecamera, dal montaggio fuorilegge o nell’uso diretto della macchina a mano e conferiscono all’intero film momenti di virulenza politica… la fotografia bruciata di Marcello Gatti (per la quale vinse il Nastro d’Argento) immerge gli spettatori in una struggente bellezza… una sorta d’elogio dell’imperfezione che avevamo giù visto in film da lui fotografati, come Le quattro giornate di Napoli (1962) o La battaglia di Algeri (1966. In Sierra Maestra Gatti scompagina l’intero alfabeto fotografico del cinema… affabula un’estetica della povertà e dell’ingiustizia e infrange l’inganno del conformismo… ribalta anche i fraseggi sull’attualità e (come Jean-Luc Godard, insegna), dietro le emorragie spettacolari c’è quell’aria di profittatori (specie di sinistra) o di eletti senza la grazia che fanno di un film poco meno di un protettorato elettorale o, come nel caso di Giannarelli-Gatti, uno sputo sprezzante contro il mercato e l’impero che lo produce… i buffoni di ogni arte, lo sappiamo, ereditano lo schermo dei simulacri, contemplano il successo da “tappeto rosso” senza un filo di disagio, peccato che nemmeno si accorgono della nevrastenia, dell’epilessia, delle convulsioni che accompagnano le stelle di cartapesta della macchina/cinema.
La storia inciampa nel vento delle giovani generazioni che combattono il diritto della forza (politica, mafiosa, religiosa, finanziaria…) con la forza del diritto e l’autobiografia della bellezza che si portano dentro… la politica della bellezza appartiene alla geografia della rivelazione… nella bellezza c’è anche la giustizia, sostenevano gli antichi greci, e per difendere la bellezza presero le armi (Albert Camus, diceva)… quando i popoli si accorgeranno della fame di bellezza che c’è nei loro cuori ci sarà la rivoluzione sociale nelle strade della terra.
Ce n’est qu’un début…
(È solo l’inizio…)
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 14 volte marzo, 2018
1 Scheda: Sierra Maestra (1969), regia di Ansano Giannarelli, sceneggiatura di Giannarelli, Fernando Birri, Vittorina Bortoli, fotografia di Marcello Gatti, montaggio, Velia Santini, musica di Vittorio Gelmetti, produzione di Marina Piperno, interpreti: Antonio Salinas, Fabian Cevallos, Fernando Birri, Barbara Pilavin, Carla Gravina, Piero Vida, Soko, Giorgio Piazza, Franco Graziosi, Stefano Massotti, Giacomo Piperno, Bruno Cirino, Arnaldo Belfiore, Roberto Bonanni, Sebastiano Calabrò, Riccardo Campanelli, 111 min. Presentato al xxx Festival di Venezia, Premio Laceno d’oro (1969), Premio della contestazione all’VIII Festival di Nyon (Svizzera, 1969). Produzione, Marina Piperno.