“È stato meraviglioso scoprire l’America, ma sarebbe stato ancor più meraviglioso ignorarla”.
Mark Twain
Un artista non deve giudicare, forse! deve cercare di capire, sempre! (forse era Hemingway che lo diceva, forse era il clochard che aveva studiato Dante ed è morto di fame sui marciapiedi dell’Accademia delle belle arti di Brera, a Milano, o Jules Bonnot mentre svaligiava la banca di Francia e divideva il bottino con chi ne aveva bisogno, forse)… o anche quel filosofo situazionista, Raoul Vaneigem, che si richiamava all’autodifesa della donna, dell’uomo per abolire il regno dei capi, degli esperti, dei probi! o, meglio, mozzare la testa, senza distinzione di genere, a chi ha insanguinato la regalità dell’innocenza!
Il film di Chloé Zhao, Nomadland , è un grande film, fatto da una grande regista e interpretato da una grande attrice, inoltre ha raccolto una pioggia di premi (Leone d’oro a Venezia, Oscar, National Society of Film Critics, ecc.), dicono… e potremmo finirla qui! Siccome siamo inclini a frequentare gli invisibili, gli indesiderati, gli ultimi per grazia del Diavolo… e la distanza tra lo scemo e Don Chisciotte è tanto vicina quanto profonda… andiamo a dissotterrare quanto c’è di vera gloria dietro gli elogi di un film indipendente da 6 milioni di dollari (o poco meno)… un film anti-sistema (?!) o un film che rispetta fin troppo l’evidenza che si può fare del cinema crepuscolare e farlo passare per qualcosa che scivola o devia sul bisogno esulcerato di prosperità del capitalismo parassitario. Visto non nel suo contrario, e nemmeno nelle sue contraddizioni, sembra riprendere la spudoratezza della frontiera americana… ma il coraggio, l’individualità, il senso dell’avventura e le protervie di un Paese tutto da inventare non ci sono… semmai ci sono le tendenze a cogliere le opportunità della fuga dalle esecuzioni dell’economia-politica… la recriminazione della libertà vista come svuotamento sentimentale di dolori personali che diventano il romanzo di una vita.
Una cosa alla Cecil B. DeMille di Gli invincibili (1947), con Gary Cooper e Paulette Goddard, ammorbato in un “fantastico” technicolor… dove i pellerossa-nativi sono cattivi e gli invasori-inglesi buoni… qui l’amore fra la fanciulla e il capitano prevale col bacio finale, in Nomadland rimanda alla bonomia dello spettatore che monta sul Van di Fern (Frances McDormand) e si allunga sulle strade infinite degli Stati Uniti occidentali. L’esercizio della tolleranza è sempre vicino alla debolezza o all’autorità dei puri, quanto alla dissoluzione o all’incoronazione del sopruso! Quando non si inveisce contro l’oppressione se ne diventa complici… è la fine degli eroi, dei martirii e dei santi… sempre proni ad accettare la sofferenza come una buffonata presa sul serio… inconsapevoli che i creatori di valori coltivano le loro anime spoglie nello spirito di bellezza e di giustizia, e non tra la gentaglia che fa professione di servire o di tradire!
Chloé Zhao è una graziosa regista cinese con la propensione a raccontare storie della marginalità americana… e lo fa con una certa visione al femminile di una qualche curiosità… a 15 anni va a studiare in un collegio a Londra e poi completa la sua formazione alla Tisch School of the Arts dell’università di New York… la dittatura comunista cinese non fa per lei né per nessuno che voglia vivere nella libertà di pensiero e si tiene bene alla larga dalle galere di Xi Jinping… il “leader supremo” della Cina… il tiranno con il quale l’intera imprenditoria mondiale commercia amorosamente… facendo finta di non conoscere le repressioni sanguinarie alle quali è soggetto un intero popolo! In Cina i diritti umani più elementari sono calpestati e i campi di concentramento (Laogai) rieducano i dissidenti con la tortura, il lavoro forzato a vita o con la morte! Il Partito Comunista Cinese sostiene che i Gulag o i Lager servono per “un processo di riforma dei criminali attraverso il lavoro, essenzialmente un metodo efficace per eliminare i criminali e i controrivoluzionari”. Le multinazionali, i governi, i politici, le mafie, badano al sodo… gli affari sono affari… i mercati globali dettano la legge del profitto e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo prospera in bella uniformità su tutto il pianeta… le guerre, l’oro, i diamanti, l’acqua, la droga, i rifiuti, i vaccini… hanno il vigore e l’impeto necessari per diffondere la paura, il timore, la conservazione di privilegi economici mai raggiunti prima nella storia dell’uomo… i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri più impoveriti… e tutto per possedere un bel televisore, un’auto di grossa cilindrata, uno smartphone con la mela morsicata o un paio di mutande griffate Armani… la genuflessione dei costumi è ormai la sola realtà, poiché i barbari travestiti da ideologi, politici, economisti, sociologi, psicologici, avvocati, notai, assicuratori, sindacalisti, artisti, letterati o macellai in divisa, sono la vera autopsia generatrice della civiltà dello spettacolo.
La Zhao si fa conoscere nei festival del cinema internazionale con operine di un certo afflato filmico, minimalista… dopo aver prodotto, diretto e montato diversi cortometraggi… debutta nel lungometraggio con Songs My Brothers Taught Me (2015)… la storia “vera” di due fratelli Sioux girata nella riserva indiana del Sud Dakota, Pine Ridge… il ragazzo (18 anni) e la ragazza (12 anni) esprimono bene la ghettizzazione del popolo Lakota… disoccupazione, miseria, alcolismo, suicidi… lo scenario è quello della recinzione delle minoranze che nel “grande Paese” imperversa da sempre… la geografia del luogo, la selvatichezza delle persone, i legami con le tradizioni affascinano la regista e si vede bene… gli spazi sono attrattivi quanto drammatici… il western intimista scorre in ogni inquadratura ma lo sguardo non è quello avvolgente di Anthony Mann (Winchester ’73, Là dove scende il fiume, Lo sperone nudo, Terra lontana o L’uomo di Laramie, tutti interpretati da James Stewart), dove l’individuo è responsabile della propria libertà di fronte all’ingordigia della civiltà che avanza e calpesta tutto in nome del progresso… tantomeno nella testa della Zhao si riconosce l’indignazione e l’orgoglio dei neri d’America che sbordano dal film di Mario Van Peebles, Panther (1995) o Judas and the Black Messiah (2021) di Shaka King… a volte si resta folgorati dagli aggettivi, specie quando si tratta di discriminazioni razziali o sessuali e, come la Zhao, si rende esaustivo lo “stile” al posto del contenuto… sovente dietro la fronda moralista si cela il modello che dice di mordere e invece lo lecca!
Nel 2017 la Zhao ritorna nella riserva degli indiani Lakota (Pine Ridge)… produce e dirige The Rider Il sogno di un cowboy… albe, tramonti, pianure, comunità emarginate e annientate nei surrogati/miti della cultura dominante… è la storia (in parte vera) di Brady e della sua famiglia… Tim, il padre alcolizzato, giocatore d’azzardo, e Lilly, la sorellina autistica)… Brady è un giovane cowboy… dopo la caduta in un rodeo e gli hanno messo una placca di ferro nella testa… ha crisi epilettiche e la mano destra è rimasta lesa… non potrà più cavalcare. Cerca di tirare avanti come commesso, domatore di puledri… il padre gli regala un cavallo e riannodano un po’ la loro esistenza. Le lesioni cerebrali di Brady si accentuano… i medici dicono che non può fare più quel lavoro… il suo cavallo cerca di scappare dal recinto e si ferisce gravemente a una zampa… Brady chiede al padre di abbatterlo… dopo un litigio col padre decide di partecipare al rodeo, sapendo che gli sarà fatale. Prima di entrare nella competizione vede il padre e la sorellina che lo guardano, affranti… decide allora di abbandonare la sfida e la vita da rodeo.
Certo, se sostituiamo la bella faccia di Brady con i baffetti affilati, le orecchie grandi e il sorriso da vecchio puttaniere di Clark Gable (mentre bacia Marilyn Monroe, più bella e sensuale di sempre)… risiamo nel bel mezzo de Gli spostati (1961), ma John Huston è un maestro-cattivo, la Zhao una cattiva-allieva! Dimenticavo (motto di spirito) — al cinema col prezzo del biglietto danno anche fazzolettini di carta, per non sciupare i vestiti con lacrime versate su un popolo sterminato dall’inciviltà dell’uomo bianco! —, a volte capita!
Di Nomadland. Dietro i paraventi strutturali del film della Chloé Zhao si allungano piccole antologie esistenziali irrisolte… disperse in furbesche trovate paesaggistiche, financo cartolinesche (sempre fotografate in luce brumosa)… le serate davanti al fuoco dei “ nuovi nomadi” americani… le chiacchere dei loro affetti perduti, del lavoro precario, delle malattie personali… sono intramezzate con imbarazzanti cadute nel tempio del consumismo di Amazon o nella raccolta industriale di patate o parchi dove ci sono alligatori in cattività, serpenti, reperti paleontologici, dinosauri di cartapesta e naturalmente villette, ristoranti, guide turistiche… visti come luoghi di accoglienza ben retribuita e non come stralci di sfruttamento occasionale… qui i parcheggi per le case-furgoni dei “nomadi” sono ben fatti, sicuri, vicini alle lavorazioni… e ad Amazon ogni anno tornano i “nomadi” per intascare un po’ di dollari sicuri… non ci sono rivendicazioni sociali né altro che accettare i margini di sopravvivenza come un dono della natura, di dio e dell’impero americano!
Tutti si amano, tutti si comprendono, tutti tendono forse ad avere una casetta con le tendine bianche, il letto morbido, circondati dall’affetto della famiglia, dei cavalli, delle galline, dei nipotini… come Dave (David Strathaim)… e poi c’è il guru del nomadismo che interpreta se stesso… ha perso il figlio e attraverso il Web dispensa il ritorno alla vita agreste… dove si opera lo scambio, si canta, si parte e ci si ritrova sulla strada, dice il guru… intorno a lui la comunità ascende al piacere del selvaggio West, come culla dei padri, forse… ma i padri, non dimentichiamolo, sono stati i primi a saccheggiare, uccidere, derubare le terre dei nativi… con la bandiera a stelle e strisce in resta e il fucile in pugno… che bello! non c’è irritazione né interrogazione né altro in Nomadland, se non scendere a patti col silenzio o le sconvenienze superate in una versione cinematografica che cicatrizza l’introspezione nell’esuberanza accettata di una “buona società”, in fondo!
La ritrattistica di Nomadland non manca certo di eleganza verso i potentati… la regista non spiega, non si irrita, non deplora l’origine del male… Fern torna perfino a rivedere la casetta aziendale dove ha vissuto felice col marito scomparso per una grave malattia (ma che amava il suo lavoro ed era rispettato da tutti), dice… e aggiunge che la fabbrica quando non è stata più produttiva per i padroni, ha chiuso e lasciato sul lastrico migliaia di persone e una città abbandonata, semplicemente… insomma, la disperazione cede all’amarezza di un’ingiustizia commessa in nome del profitto. Fern ama il suo furgone… i piatti ricevuti in dono dal padre… gli sportelli di legno, anche il motore che va a pezzi… l’ultima scena è il Van che si allontana dalla città fantasma e si perde lungo una strada nel deserto.
L’adattamento cinematografico di Nomadland è tratto dal libro-inchiesta della giornalista Jessica Bruder, uscito nel 2017… dove ha documentato gli americani erranti, costretti da bassi salari e alti affitti ad abbandonare le abitazioni tradizionali per mettersi in viaggio alla ricerca di lavoro… la Bruder ha percorso 15.000 miglia in un Van per tre anni, dal Messico ai confini col Canada, e denunciato lo stato di indigenza delle sottoculture statunitensi… i produttori del film (Frances McDormand e Peter Spears) hanno visto giusto e affidato la sceneggiatura alla Zhao, che ha espunto i riferimenti espliciti all’affermazione violenta del potere sugli indifesi! In qualche modo, vinti e vincitori si assomigliano o sono parte delle medesime illusioni!
La scrittura filmica della Zhao è piuttosto elementare, naturalistica quanto basta ad affascinare i buoni sentimenti… i “nuovi nomadi” non fanno l’amore… si amano comunque… e amano ciò che li circonda… non è poco… in fondo, passare dal salotto alla strada è già qualcosa… certe raffinatezze strutturali (fiumi, monti, deserti) non sono per niente contrapposti alle gigantesche visioni dei capannoni di Amazon, ad esempio… la grossolanità sta tutta nell’assoluto che non si esclude, anzi se ne tempra la forza! La McDormand è certamente una buona attrice, premiata con tre Oscar, quanto l’algida e impalpabile Katharine Hepburn… qui si accattiva il pubblico senza fare troppa fatica… sospesa tra la mitezza e l’abulia, la pervicacia e il postulato da suora laica… si lascia scappare solo un sorriso e vaga per tutto il film in una sorta d’ingenuità consacrata al consenso… niente è detestabile né irragionevole… in qualcosa bisogna pur credere, si dice… niente eccessi, niente moti spontanei, niente frammenti d’incoscienza… tutto si ripone in vecchi vestiti, ciottoli da cucina, un apriscatole… il dileggio verso i colpevoli della situazione sociale degli impoveriti, non la riguarda… non c’è nemmeno la decadenza dell’ammirazione per il lavoro, quando non si recrimina niente, vuol dire che si accetta tutto!
Il montaggio della Zhao non presenta sussulti poetici… esegue una partitura scenica lenta, addossata a lunghe sequenze che spesso sembrano scollate (o rincollate) da quelle precedenti… una roba da fotoromanzo, ma levigato con cura… la fotografia di Joshua James Richards è lavorata su un intimismo istrionico che gioca sulle luci basse, colori smorzati… elabora quella finta trasandatezza che molto piace nei festival e alle giurie avvezze a compiacere le veline delle case di produzione… i critici poi passano all’acclamazione… le forche del prestigio richiedono sempre il giudizio del boia o del giullare del re! E tutto è ben confezionato con la musica gradevole di Ludovico Einaudi… situata sempre nei punti giusti… una sorta di sottotraccia dolcificata che permette d’inumidire gli occhi senza il collirio… la convenienza è al di sopra della brillantezza… la “nobiltà d’animo” di far credere che alla fine della strada c’è sempre una spremuta di bellezza che accoglie i destini degli emarginati!
Oh cazzo! Quando ci si preoccupa troppo della grammatica si finisce nella terminologia scolastica, si comincia ad aver paura degli angeli e fare dell’apologia verso chiunque insegua la propria difficoltà come saggezza… perfino Hitler amava gli animali… ci discorreva… affidava alla loro fame le ultime cene dell’umanità… di fronte alle stigmate del successo nessuno si tira indietro… Chloé Zhao l’ha capito bene… infatti i Marvel Studios l’hanno cooptata per un film di supereroi (gli Eterni, fumetti dell’universo Marvel, esseri sovrumani ideati da Jack Kirby nel 1976) che uscirà nel 2021… farà certamente la sua bella figura al botteghino… i discepoli dell’industria cinematografica hanno bisogno di discepoli, non di maestri irrispettosi della perversità della merce… lo sterminio degli eretici non è mai finito… la gioia comprata lo dice… la riabilitazione generale delle eresie non c’è mai stata… in arte e dappertutto la cosa fondamentale è vivere nell’insignificanza, lì non regna l’esercizio del disprezzo dell’uomo in rivolta! Buona visione.
Piombino, dal vicolo dei tetti in amore, 8 volte maggio, 2021