di Sophie Troubac, Piemme, 2005, pag. 141
Il documento e la finzione si mescolano in questo piccolo libro che, con una scrittura diaristica e asciutta, mostra antiche fratture generazionali e nuove ribellioni sociali. Aicha è una giornalista di origine algerina che ha lottato per l’emancipazione delle donne in Francia, non solo di religione musulmana. Nawel è sua figlia, una ragazza di diciassette anni che riconosce nell’integralismo, nella diversità, nella fede, la propria intima rivolta e un giorno dice alla madre: «Voglio portare il velo». La madre, redattrice della «lettera», ricorda allora quando lei ha «strappato» il velo ed è entrata in una nuova visione dell’esistenza. Si sentiva aggredita da quel simulacro imposto dai padri. L’ironia della Djitli, spesso è pungente. La madre si sofferma sull’ignoranza della propria famiglia, dell’ex-marito, su coloro che hanno fatto della religione il solo scopo della vita. Racconta poi storie di donne venute in Francia sperando di trovare un nuovo «Paradiso» e che invece hanno conosciuto soltanto dolore, emarginazione, ghettizzazione. Abbandonate insieme ai figli dai propri mariti, si sono battute per conquistare una vita meno feroce. E queste donne che hanno abbandonato il velo, sostiene l’autrice, sono state trasportate dal coraggio e dalla speranza di rompere la cultura dell’intolleranza non solo musulmana (è la stessa misoginia che ritroviamo, sotto sfumature diverse, anche nelle altre religioni monoteiste), per la quale le donne dovrebbero essere sottomesse a Dio e schiave degli uomini e delle loro leggi. È vero, dice il libro, che il tratto distintivo dell’adolescenza è la rottura con tutto quanto rappresenta l’ordine costituito. Non sono però gli «integralismi» d’ogni sorta a nobilitare le differenze o i dissensi. «Il velo, afferma l’autrice, non ti protegge da niente», men che mai «dagli uomini che vorrebbero umiliarti». La libertà è un bene comune o non è niente.
Giugno, 2005