Non voglio difendermi e non voglio essere difesa, appartengo completamente alla rivoluzione sociale
e mi dichiaro responsabile delle mie azioni […] Bisogna escludermi dalla società, siete stati incaricati di farlo, bene!
>L’accusa ha ragione. Sembra che ogni cuore che batte per la libertà ha solo il diritto ad un pezzo di piombo, ebbene pretendo la mia parte!.
Louise Michel (insegnante, rivoluzionaria, scrittrice, comunarda e anarchica).
Minima moralia sul cinema italiano: nel panorama mercatale del cinema italiano il numero dei cortigiani è copioso… un’ignoranza generalizzata pervade ormai da tempo gli schermi-video dell’italietta catto-fascista sempre prona ai dettati dell’industria culturale che avvezza legioni
d’imbecilli sul sagrato della supponenza, della mediocrità, dell’insignificanza e pubblico, critica e autori si sollazzano nel linguaggio uniformato del cinematografo come merce soltanto. I guasti della civiltà dello spettacolo non interessano a nessuno e tutti, o quasi, si aggrappano al falso genio della lusinga o della predica festivaliera… una desolazione dell’intelligenza allevata specialmente nei palafrenieri della sinistra finiti nella genuflessione, complicità o mafierie al servizio del capitalismo finanziario, guerrafondaio e parassita.
La filosofia degli affari, del resto, è sempre stata al fondo di ogni forma d’arte e il commercio delle idee ha sempre determinato il commercio degli uomini. Le credenze, i convincimenti, le assuefazioni all’impostura delle Fedi, degli Stati, delle Economie di guerra e la mediacrazia (la dittatura di tutte le forme del comunicare) a libro paga dei potenti, hanno annientato la coscienza degli uomini e le sirene dell’intolleranza cantano gli inni di una moderna geopolitica che sfrutta, opprime, viola i più elementari diritti umani.
Nessun uomo può sperare che un alberello, una volta trasformato in un bastone della polizia, possa continuare a germogliare foglie (da e con Martin Buber). Tutte le ideologie, le burocrazie, le economie saprofite sono destinate a mantenere l’ordine sociale esistente… solo l’uomo che rifiuta la dominazione dell’uomo sull’uomo e insorge contro lo sfruttamento del forte sul debole, può abrogare questo o quel governo e operare per la dissoluzione degli stessi fondamenti della società, può aspirare alla sorgenza di una società in anarchia.
A riscattare la bassezza imperante del cinema italiano sono alcuni autori-poeti dell’immaginario cinematografico, come Pietro Marcello, Alice Rohrwacher o Giorgio Diritti… al di là delle differenti impalcature filmiche… i loro lavori s’interrogano sull’utopia dell’umano e interrogano la perdita come chiave dalla regalità del bello, del giusto e del bene comune… nelle loro opere ogni parola, ogni sguardo, ogni sorriso, ogni lacrima, ogni amore… è parola di conoscenza che c’insegna a vivere come a morire nel sogno di una cosa chiamata amore, fuori da tutte le diversità, avversità, sopraffazioni incatramate nei precetti della Fede o dello Stato o della Guerra… e solo nell’innocenza del grido che spariglia le forme affiorate nell’eterno ritorno all’uguale mercantile, possono nascere opere di resistenza al presente.
Il film di Pietro Marcello, Le vele scarlatte, tratto liberamente dall’omonimo romanzo di Aleksandr Grin (Grinevskij), sorprende per la sua bellezza visiva e per la forza onirica delle inquadrature, degli intarsi filmici, dei chiasmi attoriali che lo elevano tanto alla malinconia compositiva di Andrej A. Tarkovskij, quanto all’austerità etica di Robert Bresson. Marcello, il visionario-libertario di La bocca del lupo (2009), Bella e perduta (2015), Martin Eden (2019), continua il suo percorso di autore aconformista con Le vele scarlatte ed entra nell’universo poetico dell’anarchico Aleksandr Grin. Il suo film è un inno all’amore della donna e per la donna che rivendica la propria unicità e un’accusa contro la complicità, l’asservimento, la crudeltà dell’uomo sotto ogni smisurata condizione maschilista.
Grin, ricordiamolo, è un polacco nato nel 1880 a Slobodskoj, nella Russia europea nordorientale… viene più volte imprigionato per attività sovversive… pubblica il primo libro nel 1906 ed è inviato al confino… fugge a San Pietroburgo dove sopravvive in clandestinità. Nel 2010 è di nuovo arrestato e spedito nella regione di Arcangelo nel nord della Russia. Partecipa alla Rivoluzione d’Ottobre del ’17 ma rifiuta la burocrazia e la violenza della dittatura del/sul proletariato. Continua a scrivere romanzi e racconti, tuttavia resta ai margini dei movimenti letterari bolscevichi. Affetto da tubercolosi si trasferisce in Crimea nel 1924 con la moglie Nina e vivono in condizioni di estrema povertà.
Come sappiamo, l’editore L. V. Volfson, che aveva iniziato a pubblicare l’intera opera di Grin in quindici volumi, viene arrestato dalla GPU (la polizia segreta del regime sovietico fino al 1934) e l’opera fu interrotta all’ottavo volume. Dal 1930 le ristampe di libri di Grin sono vietate dalla censura bolscevica e lo scrittore si procura da mangiare con la caccia. Muore nel 1932 per un tumore allo stomaco. Per molto tempo i suoi libri saranno tolti dalle biblioteche comuniste ma a partire dal ’59 alcuni intellettuali amici di Grin, iniziano a pubblicare i suoi scritti che ricevono un certo riscontro di lettori. Nel 1960 la moglie di Grin apre un museo dedicato al marito nella casa di Staryj Krym, dove avevano vissuto. Il filo libertario che attraversa l’intera opera di Grin si dipana in una libertà creatrice ostile a ogni forma di autoritarismo.
Le vele scarlatte di Marcello è un film-femmina ma non femminista… un film-favola ma non favolesco… è invece un film-rêverie che racconta, sotto più strati di lettura, il sogno, il desiderio, il piacere dell’abbandono fantastico che si trascolora in reale. Sappiamo bene che Marcello conosce la letteratura e il cinema russo, specie scrittori e cineasti della dissidenza o del dissidio sovietici, tuttavia in Le vele scarlatte ci sembra un moderno Marcel Carnè che riprende le atmosfere brumose di Il porto delle nebbie (1938), anche abile traghettatore della compassione libertaria di La bella brigata (1936) di Julien Duvivier o bracconiere del disincanto amoroso di Una gita in campagna (1936), uno dei capolavori di Jean Renoir… e riesce ad affabulare forse uno dei migliori film del cinema italiano dopo le pagine sgualcite del Neorealismo. In modo particolare è a Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De sica (scritto da Cesare Zavattini) che il regista rivolge lo sguardo e l’intero film è avvolto nello stupore e nella meraviglia che portano nell’infinitezza dell’amore.
Prendiamo la sinossi di Levelescarlatte: “Nel nord rurale della Francia del primo dopoguerra Juliette, giovane orfana di madre, vive col padre Raphaël, un burbero reduce di guerra. A causa della sua indole di sognatrice che la porta a isolarsi è malvista dagli altri abitanti del villaggio, in particolare dagli uomini. Un giorno, lungo la riva del fiume, una maga le predice che “delle vele scarlatte” arriveranno per portarla via da lì: Juliette continua a sperarci finché un giorno la profezia non pare avverarsi, quando un affascinante aviatore le piove letteralmente dal cielo”.
Il film di Marcello è tutto questo ma c’è molto altro ancora da rovistare tra le pieghe della sua narrazione. Louis Garrel ha poco a che fare col principe azzurro delle favole e Juliette meno che mai con la figlia di un reduce di guerra vedovo e zoppo che fa il falegname e costruisce giocattoli in attesa di volare via da una comunità multietnica che l’ha accolta e amata… semmai aspetta l’avventuriero che verrà dal cielo e resterà nella fattoria con la signora Adeline (eccezionale ritratto di Noémie Lvovsky) e gli altri, fuori dall’avidità e dall’ignoranza dell’utilitarismo, in ricordo dell’insegnamento libertario del padre scomparso.
La robustezza espressiva di Le vele scarlatte esonda nelle grandi inquadrature di Marcello… il regista sta addosso ai personaggi e raccorda ambiente, volti e corpi in una costruzione estetica non proprio pittorica e neanche magica, come è stato detto, ma piuttosto in una surrealtà visiva che infonde al film la bellezza esiliata della vita quotidiana. Il padre di Juliette infonde alla figlia la riservatezza, la discrezione, l’orgoglio, la dignità della propria vivenza e la figlia incarna il senso di libertà che non vuole padroni, solo amori senza steccati, poiché la libertà, come l’amore, non si concede, ci si prende.
La sceneggiatura di Marcello, Maurizio Braucci e Maud Ameline è asciugata d’ogni inessenza spettacolare… i dialoghi sono stringati fino all’osso e s’incastrano con l’iconologia filmica in maniera superba, come si è potuto vedere solo in L’Atalante (1934) di Jean Vigo, I figli della violenza(1951) di Luis Buñuel o Questaèlamiavita(1962) di Jean-Luc Godard… il film di Marcello è anche un ritorno all’amour fou e sembra dire: chi ama senza amore, viene cancellato dall’amore. In quattro dialoghi c’è la sostanza del film:
« Rapahel (Raphaël Thiery): “Ascoltami bene, Juliette. Io non prenderei mai una decisione senza parlarne prima con te. Decideremo quello che vogliamo fare sempre insieme”.
La maga (Yolande Moreau): “Quando diventerai una bella ragazza, potrai vedere lassù nel cielo delle vele scarlatte. I sogni si possono avverare”.
Jean (Louis Garrel): “E cosa guardavate?”
Juliette (Juliette Jouan): “Il vostro aereo. Siete un avventuriero?” Jean: “Mi guadagno da vivere”.
Juliette: “Forse la gente in paese ha ragione, sono completamente pazza”. Adeline (Noémie Lvovsky): “Non sei pazza, è l’amore che è folle, e pericoloso” ».
La canzone di Juliette in chiusa del film è presa da una poesia della rivoluzionaria, comunarda e anarchica Louise Michel: “Rondine dagli occhi neri, rondine, ti amo! /Non so quale eco mi hai portato /Da lidi lontani; per vivere, legge suprema, /ho bisogno, come te, di aria e libertà”. E qui c’è il pozzo di tutte le infanzie frantumate e insorte… l’inchiostro della voce liberata che si spande nella vita autentica.
La fotografia di Marco Graziapiena è intessuta di colori impressionisti, fuori da ogni manierismo… bene s’accorpa ai destini di una realtà decifrata e al contempo indecifrabile, e coniuga un poema di bellezza e di giustizia con la parola mai ammainata. I marroni, i rossi, gli azzurri sbriciolano secoli di brutture e accompagnano o scoprono il reale nell’irrealtà nobiliare del disinganno.
Il montaggio di Carole Le Page e Andrea Maguolo ricama con grazia la scrittura filmica di Marcello, scolpisce l’immaginario sull’acqua di verità ancestrali e fa di tutte le ombre sparse nella scorza dei giorni, la trama minuziosa che disvela il divenire dietro l’ultimo silenzio dei proscritti che fecero l’impresa.
Come in altri film di Marcello, l’uso dei materiali d’archivio è dosato con particolare capacità architetturale… invece di ricorrere a scenografie costose e forse meno efficienti, il regista inserisce frammenti storici colorati e tutto rifluisce nel tessuto filmico che restituisce il respiro di un’epoca postbellica che sarà stata tutto, tranne che intelligente.
Le musiche del libanese Gabriel Yared, Premio Oscar per un brutto film, Il paziente inglese (1996) di Anthony Minghella, infondono a Le vele scarlatte una tenerezza sorprendente, anche quando sottolineano i momenti più crudi. Sovente il tema musicale s’incrosta all’immagine e raggiunge una disarmata bellezza, s’impossessa dello sguardo e feconda il soffio impudente degli angeli ribelli, laddove si mostrano alle anime sensibili.
Il regista si rivela inoltre un abile orchestratore dell’attorialità. Raphaël Thierry (Raphaël), Noémie Lvovsky (Signora Adeline), Yolande Moreau (La Maga), Juliette Jouan (Juliette), Louis Garrel (Jean) e financo i comprimari… sono a dir poco eccezionali e restituiscono appieno le intenzionalità sceniche di Marcello… quelle facce, quei corpi, quei gesti fuoriescono dallo schermo nella potenza della loro singolarità e danno al racconto una sorta di eternità che libera la carne da tutte le angustie dell’esistenza struccata.
La retro-parola e la nudità dell’immaginale del film di Marcello rivelano che nessuna ferita della storia è uguale e anche l’amore ha un suo modo di sanguinare o di insorgere contro le certezze istituite divorate dai loro tormenti… e l’amore è il viatico delle origini che interroga il sopruso e porta la speranza dell’umano nell’uomo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 17 volte marzo, 2023