Hollywood non è poi tanto male, sono i film che fanno schifo”.
Orson Welles
Il genio della “scatola magica”, il ribelle di Hollywood, Orson Welles, uno dei grandi maestri della storia del cinema, è riemerso come brigante di confine nell’ultimo lavoro incompiuto, L’altra faccia del vento, girato tra il 1970 e il 1976 (Arizona, Los Angeles, Parigi…), rimontato a più mani (sei o sette) nel 2018… va detto subito… il film di Welles è bello, provocatorio, anarchico fino all’estrema utopia di necessaria distruzione della macchina/cinema come forma normale di delirio… la storia del cinema, lo sappiamo, e lo sanno perfino i buffalmacchi della critica, è una dossologia d’inesistenze disancorate della realtà… la sommatoria dei film non è che una sfilata di falsi assoluti… una successione d’imbecillità innalzate a pretesto dell’industria culturale (tra le più puttane mai viste) che ha avvilito anche gli spiriti più nobili… la fotografia prima, il cinema dopo, la televisione poi (la quasi totalità della carta stampata, da sempre), fino al bordello senza muri di Internet… sono i dispositivi di persuasione di massa, capaci d’assoggettare l’immaginario collettivo e orientare milioni di persone verso miti della politica, della musica, dello sport… è così che si creano i simulacri, le tirannie e le fosse comuni… hanno fatto più stragi d’intelligenza i Beatles, i Rolling Stones o gli U2, che le crociate della santa romana chiesa… l’adorazione di un simulacro è responsabile dei crimini d’imbecillità che si porta dietro… tutte le mitologie trionfano sull’evidenza del ridicolo e il bisogno di finzione è ciò che più è amato nei partiti e nei mercati… agli uomini basta ricevere una gloria da servi per essere autorizzati allo sterminio del diverso da sé: “Non c’è forma d’intolleranza, di intransigenza ideologica o di proselitismo che non riveli il fondo bestiale dell’entusiasmo” (E.M. Cioran)… la genealogia d’ogni fanatismo è tutta qui… solo dalla distruzione pura e semplice delle ideologie, delle dottrine o della finanza parassitaria, potrà nascere una società di liberi e di uguali.
L’altra faccia del vento è la storia di un vecchio regista di Hollywood, J.J. Hannaford (John Huston), respinto dalla grande “fabbrica delle illusioni” e alla maniera dei nuovi autori americani, francesi, inglesi o tedeschi degli anni ’70 (che presero a fare cinema nelle strade, lezione magistrale del Neorealismo italiano, Roberto Rossellini su tutti…) cerca di affabulare un film fuori dalle leggi feroci del botteghino… un regista vale quanto ha incassato il suo ultimo film, Charlie Chaplin, diceva, come del resto Walt Disney… due giganti del cinematografo che tuttavia vedevano prima i dollari e poi l’arte o, tuttalpiù i dollari e l’arte beneficiati dalla glorificazione dell’ingenuità, tributata da lacrime planetarie.
Dialogo tra Charlie Chaplin e Buster Keaton, mentre facevano colazione a casa di Charlot: Chaplin — “Sai Buster, io vorrei, e questa è anche la mia più intima soddisfazione… vorrei che tutti i bambini poveri avessero, una casa, da mangiare e un letto per dormire” —…
Buster — “E chi non lo vorrebbe Charlie?” —. Anche gli immensi come Charlot, preferiscono il rumore delle lacrime che praticare una breccia sullo schermo, come hanno fatto Keaton e Welles… la funzione degli occhi è quella di vedere non di piangere. Sotto tutte le formule di salvazione dell’anima, sono sempre state approntate le ghigliottine.
Il cast di L’altra faccia del vento è nutrito di amici del regista e non lascia dubbi sulla filosofia radicale di Welles: Non è facile distruggere un idolo! richiede una certa inclinazione all’insolenza… la verità che si arma contro la falsa civiltà e si fa storia… nei lupanari del cinema la servitù volontaria è quasi una vocazione e lo spettacolo che promette è sovente una disputa tra criminali.
La scheda. Regia: Orson Welles. Attori: Peter Bogdanovich Higgan, Susan Strasberg Julie Rich, Lilli Palmer Zarah Valeska, John Huston J.J. “Jake” Hannaford, Edmond O’Brien Pat Mullins, Oja Kodar L’attrice, Mercedes McCambridge Maggie Noonan, Cathy Luvas Mavis, Norman Foster Billy, Rich Little Otterlake, Cameron Mitchell Matt, Joseph Mc-Bride Il critico cinematografico, Tonio Savard Il barone, Claude Chabrol Se stesso, Cameron Crowe Ospite alla festa. Soggetto: Oja Kodar, Orson Welles. Sceneggiatura: Oja Kodar, Orson Welles. Fotografia: Gary Graver, Eric Sherman. Musiche: Michel Legrand. Montaggio: Bob Murawski, Jonathon Braun, Yves Deschamps, Paul Hunt, Orson Welles, Sasa Devcic (Alexander Welles). Tutto il film è girato nell’improvvisazione (Welles fa credere…) ed è di una modernità sconcertante. Il cinema si crea in utopia o si disfa nella noia. Basta vedere un qualsiasi blockbuster di Spielberg, Lucas o Tarantino, per capire l’universo convenuto dell’imbecillità… c’è sempre un boia all’origine di un tempio e non ammette eresie.
In L’altra faccia del vento Welles mette in discussione non solo il cinema (magnifico, poetico, magico) che aveva fatto sino ad allora, ma incrina anche le certezze e le ossessioni mitologiche degli spettatori… nessuno recita e tutti sono veri… oppure tutti sono falsi e il cinema diventa vero… è evidente che Welles costruisce un caleidoscopio figurale dove registi, attori, comparse, montatori, fotografi… si trovano a vedere un film incompiuto e al tempo stesso fanno parte dell’architettura del medesimo film… Welles fa dell’ironia (in parte motivata) sui registi della “Nouvelle Vague”, Bernardo Bertolucci, Michelangelo Antonioni, Russ Meyer… ma il suo film è più godardiano dello stesso Godard… non è nemmeno cosa del tutto nuova… le opere in frantumi, “F For Fake”, “Filming Othello” o “Don Quixote” del resto, già contenevano elementi scismatici dal cinema mercatale (a vedere in profondità, questo sacrilegio della macchina/cinema è sempre stato presente in qualsiasi opera del genio che si travestiva da pagliaccio, da mago, da qualche infernale ispettore di polizia o da collaboratore nazista)… il cinema tutto di Welles sottende una forza prometeica che spacca i vizi e le virtù della storiografia cinematografica, è un miscuglio d’impertinenza e d’apocalisse che figura la banalità e la fragilità dei dogmi sui quali poggia la civiltà dello spettacolo, è l’altra faccia del cinema.
L’altra faccia del vento è girato in 35, 16 e Super8mm… i vari formati restituiscono una visione anomala del film… ma questa discrepanza visiva non è per nulla il “caos”, una “sorta di “happening” o “una specie di ipnotico porno d’avanguardia” di cui parlano i velinari del consueto… anzi, a partire proprio dal senso di provvisorietà o mancata finitezza del film, Welles differisce e rivela le convulsioni della storia, non solo quella di un film “fracassato”, ma quella di un’umanità ferita a morte.
La vissutezza e l’allegrezza che traspare dal film è il finto che sdogana il vero… non c’è conclusione… non c’è trama… non c’è recitazione… il sarcasmo straripa dappertutto e i compromessi della produzione sono letteralmente ridicolizzati… la salvezza del cinema tormenta solo i santi e gli assassini, quelli che hanno ucciso Rapacità (1924) di Erich von Stroheim, La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer, Boudu salvato dalle acque (1932) di Jean Renoir, Paisà (1946) di Roberto Rossellini, Trattato di bava e d’eternità (1951) di Isidore Isou o Adieu Au Langage Addio al linguaggio (2014) di Jean-Luc Godard, per impedire allo schermo di sanguinare l’immaginario dal vero.
Per comprendere appieno L’altra faccia del vento, sarebbe importante visionare il documentario di Morgan Neville, Mi ameranno quando sarò morto (2018)… qui si veleggia negli ultimi quindici anni di cinevita di Welles e Neville incentra il lavoro proprio sull’ultimo film del maestro ripudiato da Hollywood… naturalmente, non ha niente a che fare con l’8½ di Fellini, come è stato scritto… qui e dappertutto Welles reinventa il concetto di cinema, Fellini (dopo La dolce vita) semmai lo seppellisce nell’alto artigianato della nostalgia… sotto le formule giacciono i cadaveri eccellenti del cinema, solo i dinamitardi di tutte le morali restano fuori dagli ossari delle definizioni e ridono di ubriache utopie, sempre mal comprese e volutamente ignorate. Innamorato del cinema, Welles lo rendeva un disingannato della perfezione e questa leggiadria etica/estetica faceva di lui l’assassino gentile del cinema mercantile.
Il film di Welles è un gioco di specchi… un flusso di immagini che s’intrecciano sul viale del tramonto (la citazione di Billy Wilder è voluta) di un regista respinto ai margini della ribalta… John Huston è un gigante ad interpretare J.J. Hannaford e aleggia per tutto il film tra sorrisi ironici e un bicchiere di whiskey nelle mani… Peter Bogdanovich fa il giovane cinefilo e Huston lo tratta con amicizia e anche con qualche riserva suo suo fare-cinema… i frammenti di film che vedono gli invitati alla festa del compleanno di J.J. Hannaford… annodano una storia d’amore con la decotruzione interpretativa… l’inseguimento della coppia su un set cinematografico abbandonato, è di una straordinaria compiutezza architetturale… Oja Kodar (ultima compagna di Welles e co-sceneggiatrice del film) scivola sullo schermo quasi sempre nuda… estraniante, ammiccante, l’erotismo algido che promette non è mai tradito né volgare… i camei di Susan Strasberg, Edmond O’Brien, Mercedes McCambridge, Lilli Palmer, Cameron Mitchell, Claude Chabrol, Dennis Hopper… i nani che circolano un po’ ovunque (alla maniera di Stan Laurel e Oliver Hardy)… la proiezione del film incompiuto in un Drive In… esprimono il disincanto del linguaggio cinematografico… tutto ciò che si vede si nutre dell’inverificabile e forse nemmeno la morte di J.J. Hannaford in un incidente d’auto è vera… L’altra faccia del vento è dunque una storia appassionata dove la vita di Welles e il cinema sono folgorati nell’ossessione di fare un film che, al di là delle turbolenze produttive, Welles (forse) non avrebbe mai voluto porre il The end.
La versione ultima di L’altra faccia del vento non è certo quella di Welles (aveva montato nemmeno 45 minuti delle oltre mille bobine di girato)… chi se ne frega… il film esiste nella sua materica bellezza autoriale… l’assemblaggio delle svariate specifiche tecniche, la musica accattivante (perfino troppo) di Michel Legrand e il fantasma gigantesco di Welles presente in ogni sequenza, conferiscono al film una sorta di rapsodia visiva, quasi un compendio di teologia filmica ad uso degli angeli, quelli che dicevano: “Non ti lascerai punto distrarre dai canti d’amore. Guiderai i ciechi di cui hai cura e sterminerai senza pietà i maledetti” (JeanMichel Maulpoix)… chi vorrà potrà godere di tutto ciò che non comprende, si prenderà cura delle tue ali e si ubriacheranno del sangue del genio, e come la crociata (mai avvenuta) dei fanciulli di Marcel Schwob, non potranno mai dimenticare che i poeti maledetti (e non altri) hanno dietro e davanti a sé solo l’eternità.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte novembre, 2018