Se c’è un uomo «mite» nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio? Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe provenuta naturalmente, solo che egli avesse accettato anche in misura minima una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, lette- raria… Invece egli si è rifiutato d’identificarsi con qualsiasi di queste figure – infine buffonesche – di intellettuale”.
Pier Paolo Pasolini
Il caos, in “Il Tempo”, n. 33, 13 agosto 1968
La serialità figurativa del cinema italiano oscura culture e costumi e ne corteggia l’indecifrabilità al posto della ragione… o meglio… il cinema che si veste d’impegno sociale sembra non uscire dai canoni del mercantile come bétili di conoscenza confinata ai confini della cronaca… l’esortazione alla generosità di un cinema incassettato nella ricerca del consenso a tutto è un cinema di profetanti che lasciano sullo schermo la polvere di annunciazioni scontate, quasi una papistica dell’ignoranza che sta dalla parte del bene ma in qualche modo lascia comprendere che il male è un difetto del bene… è il vizio inveterato della cultura italiana, specialmente, che ruota intorno a codici, regole, leggi inflessibili e minacciose soltanto per i più deboli o indifesi… i disperditori di verità lo sanno… un film che parla dell’ingiustizia subita da un uomo perché omosessuale negli anni ’70, non può offrire, né deve, il fianco alla restaurazione, semmai all’indignazione… la filosofia della salvezza riparatoria è un modello ascetico e accresce l’abitudine di accettare le categorie sociali come redenzione dell’inattuale.
Il signore delle formiche di Gianni Amelio è un film pulito, a tratti leggero… non suscita troppi dissidi né lo vuole… è la storia (anche imprecisa) di Aldo Braibanti… intellettuale fuori del coro che si è occupato di cinema, teatro, arte, letteratura… partigiano antifascista, comunista, libertario e appassionato studioso della vita sociale delle formiche. Nelle annotazioni che lo riguardano si legge che nel 1940 prende parte alla Resistenza a Firenze, viene catturato e torturato dalle bande nazifasciste, Koch e Carità… aderisce al movimento “Giustizia e libertà” e nel 1943 al Partito comunista clandestino. Nel 1947 abbandona la politica attiva, si laurea in filosofia teoretica e insieme a Renzo e Sylvano Bussotti e altri fonda una comunità artistica nel Torrione Farnese di Castell’Arquato. Al congresso nazionale del PCI del 1956, Braibanti si pone contro lo stalinismo che permeava il partito e si sposta a Roma, lavora con Carmelo Bene, collabora alla fondazione dei Quaderni Piacentini insieme a Piergiorgio e Marco Bellocchio. Tra il 1967 e il 1968, Alberto Grifi filma Transfert per kamera verso Virulentia… un lavoro teatrale-sperimentale di Braibanti (tra gli interpreti ci sono Lou Castel, Vittorio Gelmetti, Massimo Sarchielli, Grifi, Braibanti). Nel 1985 scrive la sceneggiatura del film Blu cobalto, regia di Gianfranco Fiore Donati, con Anna Bonaiuto ed Enrico Ghezzi. Al Festival di Venezia riceve un premio dalla Fice (Federazione italiana cinema d’essai) e dalla Lega Cooperative… ci basta così. Braibanti continuerà a pubblicare testi poetici, incursioni nella musica alta, teatro, interviste, radio, cinema… il “mostro” muore in estrema povertà a Castell’Arquato il 6 aprile 2014, all’età di 91 anni.
Il signore delle formiche riprende le cronostorie italiane de “Il caso Braibanti”… quando il professore insieme a Ettore Sanfratello, un suo allievo di 23 anni, si rifugiarono a Roma per custodire il loro amore… era il 1962. La famiglia cattolica-fascista dei Sanfratello non perdona lo scandalo e il 12 ottobre 1964 il padre del ragazzo presenta denuncia alla Procura di Roma contro Braibanti, l’accusa è di plagio, una normativa introdotta nel ventennio fascista dal giurista Alfredo Rocco e applicata per la prima volta… dopo venti anni questo reato è stato considerato anticostituzionale ed espunto dal sistema processuale italiano.
Ettore viene fatto rapire dalla famiglia, portato in una clinica per malattie mentali e sottoposto a elettroshock… ci resta quindici mesi… costretto a domicilio obbligatorio in casa dei genitori e col divieto di leggere libri che avessero meno di cento anni (?!), scrivono su una rivista (Lambda, forse) qualche anno dopo. Al processo Ettore dichiara di non essere stato soggiogato dal professore e il loro amore era consenziente. Il processo dura quattro anni e Braibanti viene condannato a nove anni di carcere, in appello ridotti a quattro… ne sconterà solo due perché aveva partecipato alla guerra partigiana.
La condanna suscitò riprovazione nella stampa internazionale… Alberto Moravia, Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Marco Pannella, Maurizio Ferrara, Teresa Mattei, Franca Rame, Franco Grillini, Giovanna Melandri, Tiziana Valpiana, a vario titolo e in vari tempi, si schierarono contro questa sopraffazione… sorsero anche dei comitati in sostegno a Braibanti (dei quali abbiamo fatto parte)… che avversarono tanto l’indifferenza popolare che la protervia dei giudici che a tutti gli effetti condannavano Braibanti non solo perché omosessuale ma anche per le sue idee politiche.
Il film di Amelio s’accosta abbastanza alla realtà dei fatti, senza tuttavia approfondire nulla… però non è vero che l’Unità non prese posizione a favore di Braibanti… l’ex partigiano Maurizio Ferrare, direttore del giornale del PCI, il giorno successivo alla sentenza produsse un intenso editoriale contro l’oscurantismo della corte e anche il cronista che seguiva il processo, Paolo Gambescia, si schierò apertamente dalla parte dell’imputato. Non si comprende come queste poche notizie, facilmente riscontrabili ovunque, non siano state utilizzate dal regista calabrese… anche il rapimento del ragazzo a Roma è stata una maniera mafiosa e non una cosa solo familiare (erano tre o quattro le persone pagate dal padre che l’hanno eseguito)… ma poco importano le inesattezze o le semplificazioni in questo film… è l’impianto generale che non funziona o è ben oliato per il consumo nelle piattaforme televisive.
Il film si chiude con la morte della madre di Braibanti che non l’aveva mai abbandonato… al professore concedono di andare al funerale e sulla via del ritorno vede una festa in un prato… c’è Ettore che dipinge dei cartelloni… la macchina dei carabinieri si ferma, Braibanti scende e saluta Ettore in un commosso addio. Le grandi sofferenze sono la dismisura di passioni sfrenate e portano l’eco dell’indissolubile… amo come tu ami ami, diceva… poiché l’amore canta il mistero dell’inconosciuto, non prevede generi e lo protegge da tutte le tempeste marcite nelle anime morte che ne fanno oggetto di pubblico ludibrio.
Il cameo di Emma Bonino che Amelio ha inserito nel film ci ha fatto sussultare… la signora del radicalismo salottiero è una figura che ha ballato (senza un filo di grazia) su tutti i banchi istituzionali pur di non perdere la poltrona né il potere… una professionista della chiacchera che ha ciabattato su tutto, sempre in anticipo sulla propria dorata bassezza… la più grande responsabile dell’ottimismo moderno in salsa europea e d’ambasce dei diritti civili come sottoprodotti della sua tristezza endemica, appare sullo schermo come una santa ancora da decapitare.
La sceneggiatura di Amelio, Edoardo Petti e Federico Fava è davvero esile… una sorta d’affresco dell’inquisitoria contro Braibanti, confezionato come accidentale coscienza del tempo… non viene sviscerata la dignità dell’oltraggiato né la complicità dei giudici con la bruttezza e la volgarità delle politiche che ne dettano la sentenza… tutto è tenuto sotto traccia, quasi a non disturbare i sonni piccolo-borghesi di nessuno, né di ieri, né di oggi. Un naturalismo sommario che autorizza lo sfoggio di una morale, quella della Famiglia, della Religione e dello Stato, unici depositari della ragione… un po’ poco… il bene e il male, il bello e il giusto, il vero e il falso non dipendono da decisioni contrattuali ma esistenziali… non c’è morale senza le connessioni con la libertà che permettono e autorizzano ogni forma di libertà in amore e nella vita quotidiana.
L’attorialità è di quelle transitorie… Luigi Lo Cascio (Aldo Braibanti) sembra fare il Pasolini delle interviste televisive… e nemmeno bene… serio nel volto, chiuso tra pochi gesti e gli occhiali scuri… cosa che Pasolini non era, a veder bene. Lo Cascio s’aggira nel film come un fantasma del Braibanti-uomo, riservato ma colloquiale, polemico ma anche disposto al confronto culturale-politico… e non incarna il signore delle formiche e la sua delicatezza esistenziale-autoriale. Elio Germano (Ennio Scribani) è un personaggio inventato, non ha niente a che fare col cronista de l’Unità che ha seguito il processo di Braibanti e ha continuato negli anni a scrivere di un sopruso e di un abuso giuridico… Amelio sembra addirittura sottolineare una qualche inclinazione omosessuale del giornalista, forse… tanta è nebulosa la sua parte nella vicenda.
Leonardo Maltese (Ettore Tagliaferri) non “buca lo schermo” come vittima discreta dell’omosessualità dileggiata, dispersa nel cimitero delle definizioni che sbandierano princìpi sul patibolo del fanatismo religioso-politico. Anna Caterina Antonacci (la madre di Ettore) sembra uscita da un teleromanzo a puntate che riguarda solo le beghine del confessionale e il fascismo del padre di famiglia… Dio è un universo di merletto e la legge conferma e al contempo impone le ossessioni che trascolorano i piaceri in imbecillità.
Gli ambienti e le figure comprimarie sono approssimativi all’atmosfera dell’epoca… non ci sono né i contrappunti politici né le indignazioni dei movimenti, per quanto esili, che hanno cercato di combattere il disgusto di una classe che incriminava la diversità come plagio… proprio loro… quelli che sul plagio hanno eretto fascismi, comunismi e persecuzioni ereticali… gli isterici dell’eternità. Gli accoliti della superbia con la vocazione municipale del crimine impunito verso i potenti, non sanno né vogliono sapere che in amore non ci sono catene: è una sana relazione con l’altro, col diverso da sé, nella profonda relazione tra sé e l’altro che si costruisce la propria esistenza.
La fotografia di Luan Amelio Ujkaj è ammorbata nei grigi, poggiata su un’illuminazione senza rispondenza con la ricostruzione della memoria storica, ne ricalca il supplizio. La grammatica filmica elementare di Amelio è maneggiata senza sussulti creativi… quasi a non ricordare il regista frammentario ma autore di alcuni notevoli film come Colpire al cuore (1983), I ragazzi di via Panisperna (1988), Il ladro di bambini (1992) e sopratutto La città del sole (1973) e Il piccolo Archimede (1979). Il cinema quando si paluda nella supponenza, si disfa nella noia.
Il montaggio di Simona Paggi è disteso, sequenziale, una sorta d’itinerario obbligatorio che non inventa nulla né dispiega i mutamenti di campo… un tipico prodotto di Rai Cinema… un rituale che preserva la lettura da ogni salvezza o sazietà che non siano i preliminari della decadenza e consacrazione di mostri da prima pagina. Il linguaggio del cinema è una fotografia dell’uomo: come l’uomo è il contenitore di tutte le parole-immagini che nascono, vivono e muoiono nelle pagine della sua vita.
Il signore delle formiche è il tentativo abortito di una psicologia rovinata nella sua bellezza, poiché in amore non ci sono barriere, frontiere, delimitazioni che nessuno può dirottare nella delinquenza legislativa che corrompe ciò che tocca, che giudica, che incarcera… ordine e autorità non possono nulla contro i bracconieri della gioia e gli scranni della giustizia racchiudono un certo numero di persone, non tutte meritevoli del sistema giudicatorio che rappresentano… e molti invece ci starebbero bene sul banco degli imputati per lesa maestà alla libertà dell’amore. Detto meglio: certi grandi esecutori dell’ordine pubblico gestiscono la loro megalomania, la loro nullità, la loro paranoia in attività che li sprofondano sulla scena culturale, politica, sociale come ratti su cumuli di spazzatura, in attesa di una vana rinascita dell’umano nell’uomo. In ogni giudice sonnecchia un boia, e quando si rende efficiente e cieco alle richieste dello Stato, nasce un po’ più male nel mondo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 18 volte ottobre 2022