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È stata la mano di Dio (2021), di Paolo Sorrentino

Inserito da serrilux

È stata la mano di Dio (2021), di Paolo Sorrentino

“Napule è mille culure
Napule è mille paure
Napule è a voce de’ criature
Che saglie chianu chianu
E tu sai ca’ non si sulo
Napule è nu sole amaro
Napule è ardore e’ mare
Napule è na’ carta sporca
E nisciuno se ne importa
E ognuno aspetta a’ sciorta”…
Pino Daniele

In mancanza di un impero, la dittatura dell’insignificanza del cinema italiano continua a mietere allori, spesso di pregio, in cui si ha l’impressione che i film, anche i più accreditati, siano un’occasione o un pretesto per raccordare il mercato con la creatività, un incrocio insomma fra il santo e l’imbecille! Le storie, i caratteri, le tecniche architetturali del cinema contemporaneo sono adattate sulla mediocrazia della macchina/cinema hollywoodiana (trasportata nelle piattaforme digitali come Netflix), senza tuttavia averne la sprezzanza, il vaniloquio e l’indecenza… nella provincia italiana si cerca l’ispirazione nella copia, nella frivolezza e nella meschinità… e mai miserie furono meritate quanto quelle corroborate dai demiurgi di questo cinema senza interrogazioni o giustizia in forma di bellezza.


Lo dobbiamo dire… Paolo Sorrentino ci è simpatico, perché ha quella faccia aperta e grintosa del Sud e quella sorta di malinconia al contempo che lo rende affettivo, almeno per noi… tuttavia il suo cinema ci resta del tutto indifferente… lo troviamo pretenzioso, verboso, finto, una sorta di esercitazione filmica che cerca di affascinare più che dire… dove manca il pudore di vivere o di morire per una creazione di valori che fecondano la speranza dell’umano nell’uomo!
Fedele alle proprie apparenze, Sorrentino fa un cinema accattivante… movimenti di macchina liquidi, inquadrature descrittive su attori e ambienti, raccordi di montaggio azzardati, interpretazioni sovra le righe… sono la grammatica dei suoi film (anche i più premiati) che un merito almeno lo hanno, quello di non fare la commedia dell’infelicità senza rimedi… e ci sembra sincero fino alla gioia incenerita nell’esultanza di sé… che è il vezzo dei velleitari, degli insoddisfatti o degli arroganti della buona coscienza.
Di È stata la mano di Dio.
Qui Sorrentino ci racconta la sua città, l’adolescenza, le magie calcistiche di Maradona e l’amore per il cinema… folgorato dalla concezione filosofica/politica di Antonio Capuano, che già al suo debutto con Vito e gli altri (1991) aveva dato prova di un talento mai completamente apprezzato dalla critica italiana… Sorrentino, dicevamo… rivisita gli anni ’80 di Fabietto, i fratelli Marchino e Daniela, i genitori Saverio e Maria circondati da un portolano di parenti e amici che si nutrono di affetti a tratti fumettistici… c’è la zia un po’ matta e un po’ puttana… lo zio violento… il tradimento del padre con una collega di lavoro… l’arrivo di Maradona a Napoli e l’intera città che rende omaggio al mito… c’è la perdita della verginità di Fabietto con la baronessa attempata del piano di sopra… il ricovero della zia in un ospedale psichiatrico… la scoperta di un fratello illegittimo che il padre ha avuto con l’amante… il contrabbandiere di sigarette dalla faccia incolta… e c’è anche il Munaciello che apre e chiude il film. Secondo le leggende napoletane il Munaciello era uno spiritello dispettoso e benefico, di solito figurato come una ragazzino deforme, incartato in un saio e fibbie d’argento sulle scarpe… riporta alla storia d’amore tra la figlia di un ricco mercante di stoffe e un garzone… il garzone fu scaraventato giù dai tetti davanti alla ragazza e lei venne rinchiusa in un convento dove partorì un bambino piccolo e imperfetto, il Munaciello. A Napoli c’è chi ancora lo vede uscire dai camini e aggirarsi nelle notti per le case dove l’amore soffre d’amore. E io ci credo.


Saverio e Maria acquistano una casetta a Roccaraso dove passare le vacanze insieme alla famiglia… una domenica però c’è la partita Napoli-Empoli e Fabietto resta in città… quel giorno i genitori muoiono nel sonno a causa del monossido di carbonio… la disgrazia investe tutti e Fabietto resta particolarmente segnato dal fatto che i medici non gli fanno vedere i corpi. Lo zio gli dice che se fosse andato a Roccaraso e non a vedere Maradona, forse sarebbe morto anche lui e aggiunge: “È stata la mano di Dio”. Fabietto cade nel dolore… incontra il regista Antonio Capuano e gli confida che vuole andare a Roma a fare cinema… Capuano lo invita a “non disunirsi”, fuggire dalle sue radici e da se stesso, e gli propone di lavorare con lui per divulgare storie di quella straordinaria città… Fabietto afferra lo zaino e prende il treno per Roma… davanti a una stazioncina deserta vede il Munaciello che lo saluta e si leva il cappuccio: è un bambino.
Che la storia di Sorrentino sia la propria o inventata o aggiustata secondo i dettati della richiesta cinematografica, poco importa… ogni autobiografia è finzionale… non c’è da stupirsi se anche l’ultimo dei vagabondi possa valere più di quanti ne dettano le gesta… quello che conta è possedere la percezione di verità che un’affabulazione artistica getta nell’inconosciuto che la legge… è la ferita d’amore come dismisura di sentimenti convenuti che deterge il compiacimento dell’autore e dar gioco alle incrinature della parola che si consolida nella passionalità del desiderio, dove tremare d’amore è la fonte ereticale di tutte le scongiure da abbattere, superare o accettare… interrogare la propria infanzia è comprendere la presenza di ciò che si è o che si vorrebbe essere… l’attenzione all’amore di sé per l’altro è la rivolta del sogno infranto, l’enfasi scritturale del medesimo sogno è il vizio di tradirlo!
È stata la mano di Dio ha mietuto recensioni, riconoscimenti, approvazioni di vasta portata… non ci stupisce né ci allarma… il coro risponde al coro e la différance alla différance, Jacques Derrida, diceva… l’alterità sta nella decostruzione della macchina testuale-comunicazionale tradizionale, un’espropriazione deliberata dei significati di opere/testi che hanno la pretesa di giungere a conclusioni definitive. La différance, insistiamo, è lo scacchiere creativo delle differenze e dei rimandi… un differimento continuo in cui ogni segno-immagine riporta ad altro… la différance dà luogo a una rimozione del discorso dominante e si pone come critica radicale delle ideologie, delle fedi e delle morali… qui modello e copia, visibile e invisibile, verità e menzogna, bene e male… si sovrappongono e ciò che conta è smontare la codificazione autoritaria, dogmatica e gerarchica della civiltà dello spettacolo che ne protegge il senso.
Il film di Sorrentino, appunto… esegue una narratologia confinata nell’alveo della spettacolarità e condannata a rispettare le suggestioni e le articolazioni romantiche dei mercati, sempre intonati sulla ricezione collettiva… la finzione poietica si avvale della triade umanità/sapere/ cultura e colloca i personaggi nei processi storici, sociali, politici del loro tempo… in categorie che poco hanno a che vedere con l’introspezione di sé in rapporto col mondo e molto con la versione del cinema confinato nei suoi margini mercatali… se la cultura “alta” non tiene in considerazione — cinema, fotografia, televisione, fumetti, musica pop, videogiochi, internet o il tiro al poliziotto con la fionda —… è perché non li capisce… e la svalutazione passa dall’incapacità di uscire dalla neutralità o dall’immobilità che conserva il proprio rango, ruolo o divinità… la cultura è bava di una lacerazione antica o solo il minuetto della propria chiacchera: “… ho spesso tentato di mettere la filosofia in scena: in una scena che essa non domina” (Jacques Derrida). Il cinema di Sorrentino, al contrario, domina lo scenario che appronta e come un allibratore beffardo, confeziona il prodotto sui palati della vacuità folcloristica.

Alla rinfusa… l’attorialità di Filippo Scotti (Fabietto), Toni Servillo (il padre), Teresa Saponangelo (la madre), Luisa Ranieri (la zia), Renato Carpentieri (lo zio), Betti Pedrazzi (la baronessa)… e via via tutti i comprimari del melodramma di dipana, come è solito nel cinema di Sorrentino, tra l’eccessività dei corpi, dei gesti, degli atteggiamenti… Fabietto ha il viso pulito-pulito, quasi da efebo di provincia… sembra sovente fuori situazione. Servillo fa Servillo, sempre sul filo del teatrale-dialettale, avvezzo a schiribizzi facciali, posturali da far invidia alle marionette del teatro di piazza dei bambini. La Saponangelo ricama la sceneggiata napoletana con leggerezza, senza un filo di attinenza col tragico che attraversa. La bellezza nuda della Ranieri è esposta in piena luce davanti ai parenti e non si capisce che c’entra tanta ingombrante prodigalità… non le riesce bene fare né la pazza né la puttana… dev’essere un’affezione alla recitazione televisiva.

La baronessa Pedrazzi se la cava con grazia… apre le gambe con disinvoltura e impara il ragazzo alla vita. Il resto della compagnia è un formulario di macchiette bassamente felliniane, come la chiusa del film o la fagocità dei pranzi, e familiari e amici appaiono bruttificati, idioti, degradati alla scimmiottatura di se stessi… un’operazione a dir poco forzata… manca del tutto la generosità della gente napoletana… non c’è nemmeno la camorra, né l’atmosfera politica e clientelare che ammorba Napoli da sempre… l’immensa cultura millenaria di una città vessata, offesa, oltraggiata da secoli o la forza insurrezionale di quel popolo unico, non c’è… forse è rimasta nei piani alti del Vomero dove abitava il regista. Finito il capitale di smorfie di È stata la mano di Dio… non resta che una farsa nemmeno di vasto raggio e le stigmate di una storia che non fa differenza tra i proponimenti di un macellaio e quelli di un prosatore.

La sceneggiatura e i dialoghi di Sorrentino ricalcano le serie televisive… c’è di tutto e forse niente… anche il filosofeggiare di Fabietto con Capuano resta sui crinali dell’introversione goduta, bilanciata sulla eco di ritorno delle platee… i due sembrano parlare profondo, poi gira-gira non dicono nulla e nella testa degli spettatori resta il “non ti disunire” del regista al ragazzo. Lo strano che in questo film su Napoli manca Napoli… si vede quasi sempre deserta e di notte… i bambini si buttano in mare con facile allegrezza e i ragazzi si baciano agli angoli delle strade come manichini di cartapesta… i contrabbandieri fanno le corse con la finanza con lo sfondo del Vesuvio, Fabietto vagola in un’anonimia fragile, tra il divertito e l’inappropriato… i vicoli dei poveri, i disoccupati, gli sfruttati sono banditi… forse sciupavano la colorazione vitrea della fotografia di Daria D’Amico, giostrata sui grigi e marroni… più scialba delle musiche di Lele Marchitelli e del montaggio di Cristiano Travaglioli. E basta sentire sui titoli di coda Napul’è di Pino Daniele, per far sorgere altre emozioni, altre intenzionalità, altre sofferenze che non hanno rinunciato a innalzare grida di sdegno contro la disumanità predominante, ma il film è finito.

L’uso spinto del grand’angolo negli ambienti e sui protagonisti è davvero insistito e gratuito… dà al film una simbologia estetica di una certa soperchieria e nulla aggiunge all’impianto narrativo, semmai toglie le asperità della vivenza e le riveste d’inutile sarcasmo… è una sorta di trasfigurazione del vissuto quotidiano, quasi un’abrasione figurale del ricordo di un’infanzia magnificata, appoggiata a merletti di fatalità che ne consegue. Una cultura di liberazione (in un uomo o in un popolo) esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione, di eresia o di disobbedienza… quando comincia a rinsavire nella consapevolezza del consenso e del successo, da segni di sgretolamento… a che scopo allora intrattenere un pubblico sulla propria dissenteria, quando basta un qualunque feticcio (foss’anche Maradona) a fagocitarne la stupidità? Forse abbiamo sbagliato film. Qui ci si ostina a confermare che è “solo a prezzo di grandi abdicazioni che un popolo diventa normale” (E.M. Cioran). La finitezza libertaria d’una visione non sospetta della realtà è da un’altra parte, poiché non si può essere insieme normali e veri.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte gennaio, 2022

 

 

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