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Cecilia Mangini. Sulla fotografia della dignità

Inserito da serrilux

Cecilia Mangini. Sulla fotografia della dignità

“Essere caduti dal seno della madre nel fango e sulla polvere di un deserto che li vuole liberi e soli.
Essere cresciuti in una foresta dove i figli lottano con i figli per educarsi alla vita dei grandi.
Essere ragazzi in una città fatta per la pietà e la ricchezza senza sapere altro che la propria fame.”
Pier Paolo Pasolini

I. La canzone popolare del cinema documentario

Nel baraccone delle illusioni del cinema italiano – il più brutto del mondo –, ci sono i dispersi, i sopravvissuti, gli scomparsi, i randagi di sempre… del resto è impossibile vivere nel cinema farci bella figura!… è la merce a portata di mano… dove tutto, o quasi, è impostura! e i filmetti che escono a grappoli tradiscono spesso disturbi mentali… coadiuvati da un’attorialtà spocchiosa che prelude all’imbecillità! Tutta gente che aspira alla celebrità senza averne né la stoffa né la follia… tutte comparse di un’industria che ripete se stessa fino alla nausea per un pugno di biglietti strappati nei cinema e la vendita dozzinale alle televisioni… una cosa però quelli che stanno nel cinema l’hanno capita… per avere un qualche posto nella società spettacolare, basta scendere il più in basso possibile come essere umani… demiurgi dell’incompetenza… produttori, registi, attori, direttori della fotografia, montatori… sono traghettatori dell’idiozia, figli di puttana col vizio dell’impostura!


Cecilia Mangini nasce nel 1927 a Mola di Bari, muore a Roma il 21 gennaio 2021… in mezzo ci sta la sua cinevita di notevole spessore culturale-politico… i suoi lavori figuravano il linguaggio spezzato del cinema mercantile e contenevano la ricerca della verità, dell’insofferenza, della giustizia dalla parte degli umili, degli sfruttati, degli offesi… Ignoti alla città (1958); Maria e i giorni (1959); La canta delle marane (1961); Essere donne (1965); Brindisi ’65 (1966); Domani vincerò (1969), La briglia sul collo (1972)… che hanno rappresentato la canzone popolare del cinema documentario al tempo della commedia in fiore (cioè al botteghino, quando gli italiani ridevano di loro stessi e nemmeno si accorgevano che ingrassavano la politica burocratica, corrotta e mafiosa che albergava nei partiti, nelle chiese, nelle banche e anticipava i gangli repressivi della società dello spettacolo a venire).


La macchina da presa della Mangini scrive la realtà… interroga il presente e traccia elementi di dissidio contro il già deciso, il già giocato, il già violato dalla partitocrazia… il senso della composizione, l’inquadratura forte, il montaggio serrato, piccole storie che diventano universo dei poveri, degli afflitti, degli offesi… fuoriescono da un fare-cinema che si mostra per quello che è… una richiesta di giustizia e di condanna contro i distruttori di bellezza!


Molti suoi film sono stati censurati, vilipesi, emarginati… come Allarmi, siam fascisti (1961, co-regia con il marito Lino Del Fra e Lino Micciché) o La statua di Stalin (1962, co-regia con Lino Del Fra)… regista, sceneggiatrice, attrice e fotografa… sempre in margine ai sistemi di speranze del proprio tempo, si chiama fuori dal postribolo della politica istituzionale… punta la macchina da presa nell’insubordinazione e nell’eresia da subito… esordisce nel documentario Ignoti alla città (1958), su testi originali di Pier Paolo Pasolini, al quale ritorna con La canta delle marane (1961)… per i suoi lavori riceve premi e riconoscimenti importanti ma resta ferma sulla sua visione di lottare per un mondo più giusto e più umano! Una comunità di eguali nei diritti! Imparare a vivere, come a morire, per il debutto del bene comune sulla scena della storia!In un’intervista del 2008, forse, la prima documentarista italiana dice: « …Quando volevo fare cinema, sapevo di una scuola a Roma molto prestigiosa, una bella mattina, all’epoca vivevo a Firenze, ho preso il tram e sono arrivata fin là. Sono poi andata all’ufficio informazione e ho detto: “ditemi tutto quello che serve, qui da voi, per diventare regista”. Mi hanno guardata sbalorditi e hanno risposto: “no, impossibile. Le donne non possono fare regia”. A quel punto gli chiesi che cosa potessero allora fare le donne e mi risposero: “Ah, tante cose. Le sarte, le costumiste, le truccatrici, l’aiuto truccatrici, il taglio del negativo, ecco cosa possono fare le donne”. Sono rimasta allucinata, perché solamente gli uomini potevano fare regia! Così decisi che avrei fatto comunque regia e avrei cercato di fare di tutto pur di farla, però era una specie di sogno. Fino a quando un bel giorno mi hanno chiamata e mi hanno proposto di fare un documentario ed io sono quasi svenuta dalla gioia. E quindi beati voi ragazze e ragazzi che potete fare cinema. Tutto è libero, tutto è permesso, spero che non facciate film né maschilisti né soprattutto femministi con le quote rosa che trovo addirittura indecente perché siamo tutti uguali, siamo tutti persone… ». I suoi film vanno oltre l’eccesso e le grida, perché sapeva che lì si nascondono l’insignificanza e la mediocrità!

II. Sulla fotografia della dignità

E’ della fotografia d’impegno civile della Mangini che vogliamo parlare… quando nei primi anni ’50 impugna una Zeiss Super Ikonta 6×6 cm., e documenta le isole Eolie, Lipari, Panarea… dice che i suoi reportage le servono per raccattare un po’ di soldi per fare i documentari… tuttavia a vedere le sue immagini si resta abbacinati da tanta semplicità e concretezza… si vede che ha conosciuto a fondo il cinema neorealista (che è solo una formula inventata da giornalisti e produttori, poiché è stata la stagione più grande del cinema italiano)… il suo sguardo sulla povera gente è intriso di complicità, bellezza e dignità… c’è malinconia, rimpianto, financo indignazione nelle sue fotografie… ha perfino la scortesia di essere profonda… di superare il fatto di cronaca richiesto dai giornali… lavora sull’antropologia dell’immagine scevra da ogni estetismo della povertà, ma non copre antichi dolori e non dimentica nessuna umiliazione… lascia il sensazionalismo ai fotografi avvezzi al mercantilismo d’accatto… specie quelli che si dipingono di “sinistra”… la storia della fotografia italiana la ripone per questo in margine alle dossologie scolastiche… poiché la fotografia, quando è autentica, è più reale del reale… spezza l’illusione della realtà e chiede conto a millenni di verità calpestate… la fotografia muore quando cessa di generare eresie!

Le immagini dei bambini, delle donne, degli uomini di questo Sud italiano si fanno specchio di tutti i Sud della Terra… il lavoro quotidiano, gli ambienti, gli spazi, i cieli entrano a far parte di un immaginale che non ha bisogno di pietà né di gloria, ma di giustizia! La civiltà dell’apparenza che avanza è lo snodo di tanta miseria e i neri, i bianchi, le ombre bruciano di verità le chiacchere pastorali della politica… i giochi dei bambini, i pianti delle donne, le stradette di paese, le fabbriche che avanzano… figurano un’adesione a una cultura che scompare, dove ciascuno non è padrone del suo destino e ognuno è straniero a se stesso! A che serve la fotografia se il suo insegnamento non aiuta a superare pene e lacrime secolari… è deplorevole che intere generazioni si siano abbeverate all’altare delle mitologie consumeriste senza riuscire mai a superarle… l’uomo vale se non aderisce al mondo ma solo a se stesso! Madre dignità è un cammino che conduce alla costruzione di valori che si richiamano alla rivoluzione della comunità egualitaria: «La dignità umana è inviolabile ed è un valore che non ha prezzo. Non può esistere dignità sociale o collettiva senza dignità individuale della persona, così come non può esistere dignità della persona senza dignità sociale” (Moni Ovadia).

La dignità non s’impara nei precetti della politica, della fede o agli sportelli di banca, ma alla scuola del cuore (Fëdor Dostoevskij). Le grandi rivoluzioni della storia dell’umanità sono nate da movimenti politico-sociali che volevano restituire dignità individuale e sociale agli umili e agli oppressi. Come nel ’68! Si trattava di dare l’assalto al potere, non per possederlo, ma per meglio distruggerlo!

La fotografia della dignità della Mangini è un rizomario di volti, corpi, posture… è la ritrattistica di “epoche sincere”, quando il profumo del pane fatto in casa sapeva d’amore… sono fotografie che non chiedono riconciliazione ma il diritto di avere diritti… mostrano che la verità bisogna trovarla in se stessi e non altrove… e non è con la tecnica e nemmeno con lezioni del consenso che la fotografia (come ogni forma d’arte) può uscire dalla merda nella quale viene tenuta e sostenuta… appena è comparsa la fotografia sono scomparsi i trovatori di gesta… tuttavia è la fotografia che ha disvelato l’inganno universale, per quanto ha suggellato l’accidia e il dispotismo dell’uomo sull’uomo! La Mangini ha portato la realtà del dolore fuori dalla simulazione… ha attizzato le ferite sociali in tumulti dell’anima e ha fatto della mascherata generale, la trasfigurazione montante della civiltà dello spettacolo.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 28 volte luglio, 2021

Manifesto per una fotografia dei diritti umani resistenza sociale, disobbedienza civile e poetica dell’immagine

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