“Povero idiota di un rivoluzionario, milionario in immagini di rivoluzione”. Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville, nel film Ici et ailleurs (1976).
I. PROLOGO DISSENNATO SULLA STUPIDITÀ DELLA MACCHINA/CINEMA
Dissolvenza al nero 1. Il cinema esiste, tuttavia ovunque muore di ovvietà… la macchina/cinema, va detto, è una summa di stupidità, una prerogativa indiscriminata di ogni autore e di qualsiasi produzione, uniformata e distribuita secondo una proposizione costante della stupidità. Potere e stupidità sono sinonimi. Come la storia c’insegna, “alcuni individui ereditano notevoli dosi del gene della stupidità e grazie a tale eredità appartengono sin dalla nascita, all’élite del loro gruppo… Tra burocrati, generali, politici e capi di stato, si ritrova l’aurea percentuale Ó [Prima Legge sulla stupidità, alla quale fonte rimandiamo in nota] di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo fu (o è) pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occuparono (od occupano). Al proposito anche i prelati [bancari, poliziotti, intellettuali, sindacalisti, artisti, operai, terroristi…] non vanno trascurati” (Carlo M. Cipolla)1. Sempre e inevitabilmente si sottovaluta il numero di stupidi in circolazione nel cinema e siccome le persone stupide causano danni ad altre persone o intere comunità, con tutti i mezzi necessari andrebbero privati della loro inclemenza. Il cinema della stupidità ha maldestri “maestri” accreditati e, tanto per fare qualche nome osannato da critica e pubblico, Steven Spielberg di Il ponte delle spie (Bridge of Spies, 1915), Quentin Tarantino di The Hateful Eight (1915), Alejandro González Iñárritu di Revenant – Redivivo (1915) sono il massimo di commistione tra cinema e scontatezza commerciata come “arte”… d’imbecilli come Checco Zalone non è il caso nemmeno di sprecare un qualche va’ fa’ in culo… questi abili confezionatori di cinema del nulla, dicevo… non perdono occasione di filmare l’idioma d’accatto della benevolenza, abilmente celata nelle pieghe di storielle, più o meno seriose… più o meno credibili, più o meno violente… nei loro film si respira il delirio della macchina/cinema e insieme alle serie dispensate nelle televisioni di tutto il mondo, ciò che si cerca di affermare è che i potenti hanno ragione, gli esclusi torto. Ideali senza contenuti o, per usare un’espressione altrettanto austera, miti senza sostanza. Frotte di spettatori non comprendono né lo vogliono, anche… che la condizione di passività che questi film determinano, è la stessa che li annulla e li rende complici d’ingiustizie sociali e, più ancora, d’intolleranze e impotenze che contribuiscono all’istupidimento generalizzato della società consumerista. Nel cimitero delle merci riposano i princìpi, le formule e le bombe “intelligenti” dei totalitarismi finanziari in fiore… ciò che importa è diffondere attraverso il deperimento della politica, della cultura, della lotta di classe… che tutto invecchia, perfino l’infelicità, diceva. L’ossario delle speranze tradite è disseminato di quanti hanno scelto l’indifferenza contro il dissidio. Minima moralia: un popolo rappresenta una somma non tanto di pensieri, idee, passioni quanto di conformismi, soggezioni, genuflessioni… attraverso il cinema (e di tutti i mezzi di comunicazione, internet inclusa, se usata da imbecilli, Umberto Eco, diceva) il pubblico aspira sempre alla libertà senza mai raggiungerla. Le ideologie, le religioni, le economie finanziarie… sono state inventate per giustificare la barbarie che hanno mantenuto nei secoli… si uccide per mantenere le leggi del mercato e qui anche gli eroi sono diventati desueti… i pagliacci della politica invece cinguettano nel teatrino della televisione e ci basta vederli nel loro falso splendore per richiamarsi al diavolo in corpo di Bakunin e e cercare in ogni modo di restituirli alle fogne (anche quelle profumate Armani), da dove sono usciti.
Il capitalismo finanziario gestisce governi, guerre, genocidi, polizie, sindacati… favorisce terrorismi, traffico d’armi, spaccio di droga, il crimine organizzato… allarga le fauci dei mercati e fa della tolleranza lo pseudonimo della libertà… i trattati internazionali sui diritti più elementari dell’uomo sono una sfilata di tradimenti, di menzogne, di vigliaccherie e nelle democrazie dello spettacolo o nei regimi comunisti tutti si abbeverano alla scuola dei tiranni. Il potere è un delirio affermato che fa di coloro che vi si dedicano (in bella evidenza) dei dementi in potenza. A giudicarla dai film che ha prodotto nella sua storia, la macchina/cinema sarà stata tutto, tranne che intelligente. Il cinema è insieme il paradiso e la tomba di un popolo (da e con E.M. Cioran, che parlava di democrazia). Mussolini, Hilter, Stalin (per non dire della casta dei politici, ladri, mafiosi in atrività, non solo in questo straordinario Paese di stupidi)… amavano il cinema (e lo sostenevano) proprio perché attraverso questo mezzo di persuasione di massa potevano fagocitare illusioni, speranze o terrori… facevano dimenticare ai beoti che subiscono il fascino dello schermo incantato che non si può governare senza delitti né senza ingiustizie. Sapevano ben dosare delitti e ingiustizie e, come nel nostro tempo di caimani al potere, usufruivano del consenso accordato loro dai cittadini. C’è da dire che qualche volta le cose non sono andate proprio secondo i loro voleri e uomini e donne hanno preso nelle mani il loro destino di sfruttati, di oppressi, di esclusi e hanno impiccato (senza nessuna pietà) ai cancelli delle chiese despoti, profeti e capi di Stato (e per una volta almeno conosce-ranno la stessa paura del boia che hanno imposto all’intera umanità per secoli). La pietà non è mai stata rivoluzionaria. La libertà non si concede, ci si prende. La macchina/cinema produce la felicità, me è un falso… in un mondo atonale, il mito ideologico della famiglia, al cinema e dappertutto, è un dispositivo di domesticazione del prossimo… il trucco del capitalismo è lavorare “sulla percezione di un Reale storico in termini di narrazione di famiglia come operazione fondamentalmente ideologica: una storia riguardante il conflitto tra forze sociali più ampie (classi, e così via) viene collocata all’interno delle coordinate di un dramma familiare. Questa ideologia, ovviamente, trova la sua espressione più cristallina in Hollywood, in quanto macchina ideologica per eccellenza: in un prodotto tipicamente hollywoodiano, tutto, dal destino dei cavalieri della Tavola Rotonda agli steroidi che colpiscono la terra, passando per la Rivoluzione d’ottobre, è trasposto all’interno di una narrazione edipica” (Slavoj Žižek)2, dove i profitti dei produttori crescono in base ai desideri soddisfatti del pubblico. Ogni spettatore si vive, si pensa e si atteggia come prolungamento del film celebrato con l’Oscar, specialmente, senza accorgersi mai che è soltanto una parte ben studiata di un prodotto che ha ben poco a che fare col Cinema. Famiglia, patria, lavoro, dio o un primo ministro, sono distribuiti nei film mercantili come prontuario della storia, e anche la violenza, c’entra… quella terrorista come quella della Cia, quella dei migranti come quella degli uccisi… santi, banditi, buffoni… tutti insieme appassionatamente nella grande baldoria della macchina/cinema, ciò che resta del cinema in forma di poesia o del cinema libertario è lasciato ai soliti corsari dell’eresia (Luis Buñuel, Jean Vigo, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Michael Haneke, Aleksandr N. Sokurov, tanto per fare qualche nome) o gente fuori gioco come Derek Jarman, Jean-Marie Straud-Danièle Huillet, Guy Debord, Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, Tariq Teguia, anche. Guardate intorno: dappertutto larve che predicano… i film che incassano di più non sono che un miscuglio indecente di mediocrità e apocalisse… tutto è falso, perché niente è vero nela baracconata della macchina/cinema. Anche il cinema è da distruggere, la baracconata della macchina/cinema. Anche il cinema è da distruggere, annotava. La passione per la verità, come la pietà per i giusti… non ha bisogno di una nessuna educazione per esistere: essa è un sentimento spontaneo, immediato della natura che esiste universalmente in ogni luogo e in ogni tempo, da sempre e trova nella rivolta i suoi istinti più vitali. La fame non conosce giustificazioni né frontiere… un popolo muore quando non ha più la forza di abbattere nuovi miti, nuovi dèi, nuove ingiunzioni al servaggio… gli idoli del potere franano di fronte ad un atto di profonda libertà popolare e i simulacri del mercimonio partecipano alla loro fine. La posizione del povero resta tale sin quando il povero considera il ricco una necessità… i padroni si sono accorti degli schiavi, quando uno chiavo a tagliato la gola a un padrone. La macchina/cinema è uno schermo del mondo come volontà e rappresentazione (Schopenhauer c’entra sempre) che evita di comprendere (tantomeno di produrre) che la Volontà (del vero e del falso, del giusto e del-l’ingiusto, del brutto e del bello) “abita allo stesso modo un cristallo di roccia e un poeta, un asino e un professore di filosofia, un’ape e un cretino, un papavero e un genio, una montagna e una madre di famiglia” (Michel Onfray) 3,ma i palafrenieri del cinema sembra non saperlo. Però sanno bene (e i loro film lo dicono chiaro) che lo spettatore, come il servo, obbedisce a tutti i suoi desideri e si dà a tutti i consumi, a patto che essi riguardino solo la materialità più bassa del suo essere. Nella società consumerista, qualcuno dice liquida-moderna, ciascuno vale (proprio come nel cinema) quanto il suo ultimo “successo”… l’acquisto di un’auto di grande cilindrata, un telefonino come quelli degli attori, un televisore che riempie il salotto, i masterchef, gli stilisti di moda, x-factor, una pistola Smith & Wesson con pallottole rigate, uno scranno elettorale (non importa con quale partito o lista civica), persino un omicidio ben orchestrato dai media procura una certa dose di piacere… ogni avvenimento è una merce e lo sradicamento dei legami umani il passaggio successivo. “Il capitalismo parassitario, per dirla crudamente, è in sostanza un sistema parassitario. Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l’ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza” (Zygmunt Bauman)4. La brutalità del neoliberismo non conosce frontiere… e dietro terrorismi, genocidi, crimini dei poteri forti (che restano impuniti), il ballo è sempre mascherato. Va detto. Potere e stupidità sono sinonimi. Nei giochi mimetici dei governi vi si segnalano soltanto arlecchini, saltimbanchi e criminali in formato grande… il popolo è destinato a servire… i media (cinema, televisione, carta stampata, telefonia, internet…) sono gli strumenti di persuasione che annacquano il dispotismo e garantiscono la consolazione degli smacchi abituali. La verità dei partiti si adatta a tutti e a nessuno: morali, gerarchie, burocrazie allevano gli uomini nella paura, nella miseria e gli uomini diventano sudditi, piuttosto che affrontare a muso duro l’inumanità del male che li governa e rovesciare un mondo rovesciato. Pensiamo che “l’idea degli anarchici di annientare qualsiasi autorità resti una tra le più belle che mai siano state concepite” (E.M. Cioran)5, e non si deplorerà mai abbastanza la mancanza di un nuovo Sessantotto, quando le giovani generazioni dettero l’assalto al potere, non per possederlo, ma per meglio distruggerlo. La forza dei partiti è tutta nella delega o nel bastone… e quando esercitano il potere per loro stessi e non a favore del bene pubblico, possono essere privati del comando non per diritto civile, ma per diritto d’insurrezione… ai sudditi è lecito rispondere alla violenza che esprimono con leggi, tassazioni e polizia, con la violenza necessaria per distruggerla. Nulla è scritto nelle stelle, tutto è nelle nostra mani, tutto è possibile perché niente è sacro. La vita quotidiana è intollerabile senza la filosofia della disobbedienza civile che vi si mette. È perduto colui che non ha più lacrime da versare per respingere dappertutto l’infelicità. L’umanità, ricordiamolo, ha adorato soltanto coloro che l’hanno sfigurata. “Nella nostra epoca il semplice esempio di anticonformismo, il mero rifiuto di piegarsi alla consuetudine, è di per se stesso un servigio all’umanità. Proprio perché la tirannia dell’opinione è tale da rendere riprovevole l’eccentricità, per infrangere l’oppressione è auspicabile gli uomini siano eccentrici” (John Stuart Mill, 1859) 6, cioè libertari. I libertari rifiutano la schiavitù volontaria, l’organizzazione statale che strozza ogni forma di libertà. “L’arma del tiranno non è la spada del suo esercito o della sua politica, ma la volontà di chi si fa suddito” (Giulio Giorello) 7. Non si tratta di cambiare il tiranno, il capo di Stato o il despota per sostituirlo con un’altro della medesima ferocia… si tratta di eliminarlo per davvero. Totalitarismi, fondamentalismi, integralismi, fanatismi… figurano il linguaggio famigerato della politica, dei governi, dei partiti, della finanza occulta… un falso dissenso procurato per costruire il consenso più ampio… le banche, i partiti, i militari, i prelati d’alto rango scelgono uomini affamati di potere e attraverso la burocrazia costruiscono un sistema criminale che li coinvolge tutti… la contaminazione è pressoché totale… la degradazione sociale è globalizzata e le ineguaglianze si trascolorano in repressione, sfruttamento, soggezione… tuttavia, ai quattro venti della terra frotte di dissidenti si fanno avanti e non c’è niente da fare, perché saranno loro (con i loro morti nelle guerre, morti affogati, morti nelle strade, morti sulle barricate delle rivolte sociali) a mutare il corso della storia e mettere fine all’inganno istituito. Gli insorti dell’utopia smascherano la concordia sociale dei generali, dei papi o dei primi ministri (i veri affamatori di molta parte del genere umano e responsabili delle ferite ecologiche inferte al pianeta blu)… ma le tribolazioni degli uomini cesseranno solo quando gli uomini, con abbastanza candore, getteranno ai porci i beneficiari del dolore planetario. I ribelli d’ogni tempo, uomini e donne senza dio, senza padroni né patrie, sono gli irriducibili nemici di ogni dispotismo religioso e di stato… nemici di leggi, codici, trattati (sempre a favore degli sfruttatori) e dittature (comprese quelle del proletariato), conoscono solo la passione per la cultura dell’uomo libero, che non teme di passare al fucile, prima di strisciare. Encomio dell’anarchia. La nostra simpatia va alle forme libertarie di rivolgimento sociale… la decostruzione dei totalitarismi (comunisti o delle democrazie consumeriste) passa attraverso la messa in pratica dell’utopia anarchica… il raggiungimento di finalità rivoluzionarie come libertà, giustizia, uguaglianza, fraternità, pace, dignità e umanità… la fine dello sfruttamento dell’uomo su l’uomo non è solo un sogno ma una necessità, perché quando il sogno di uno diventa il sogno di tanti, diventa storia. La libertà rimane una parola vuota se la maggior parte degli uomini vive nella miseria da secoli e se una classe di uomini continua ad affamare pezzi di umanità in tutta impunità. Il nuovo feudalesimo passa dalle guerre, dai mercati, dalle “nazioni unite” al tavolo della spartizione della terra… la regalità delle decisioni unilaterali dei governi ricchi rappresenta, ad onor del giusto, il crimine eterno. La rivolta in permanenza dell’anarchia è un ponte verso tutte le passioni messe in campo contro l’origine del male: “Non può esserci rivoluzione – Bakunin, diceva – senza una distruzione vasta e appassionata, una distruzione salutare e feconda dato che appunto da questa e solo per mezzo di questa si creano mondi nuovi” 8 . L’anarchia non è solo rivolta passionale… il mutualismo, la pedagogia, la solidarietà, l’educazione, l’istruzione, l’economia, il bene comune… sono l’armamentario con il quale gli anarchici cercano di ottenere la propria liberazione. “La grandezza di un popolo sta nel suo genio collerico, nella sua capacità di indignarsi, nella forza delle sue novità, nella sua virtù rivoluzionaria” (Michel Onfray). La società libertaria non prevede né capi né profeti… ma uomini e donne liberi che fanno della rivoluzione libertaria la cancellazione dei privilegi e la realizzazione del bello, del giusto, del buono e del bene comune. Il governo migliore è quello che governa di meno, anzi che non governa affatto, diceva. La libertà degli uguali rende la vergogna del potere ancora più vergognosa e dà inizio alla liquidazione di ogni forma di potere dell’uomo su l’uomo. Sempre né dio né stato.
(Riprendere dall’inizio…)
RIVOLUZIONE ZANJ (TWARA ZANJ, 2013), di Tariq Teguia
«Quando il governo viola i diritti del popolo, per il popolo e per ogni parte del popolo,
l’insurrezione è il più sacro di tutti i diritti e il più indispensabile di tutti i doveri».
(Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino).
Dissolvenza al nero II. La macchina/cinema è un inno alla scienza delle lacrime, ai flagelli delle guerre, alle orge formali, ai bastoni animati, all’immoralità dell’istante che è merce soltanto… si ride al cinema, invero poco, ma si fa ridere per scollegare la gaiezza dalle inconvenienze della realtà… le risate sono surrogati dei dolori, almeno che non si riconosca l’irriverenza verso il potere di Buster Keaton, più di quella di Charlie Chaplin, di Jacques Tati, più di quella di Totò (fatti salvi i film con Rossellini, Pasolini e, forse, Monicelli). Mettete la commedia al suo posto e avrete il cimitero quotidiano della banalità. La vera grandezza del comico consiste nel demistificare l’altare di tutte le umiliazioni, altrimenti resta a voleggiare nel ridicolo. Il vero comico si distingue a malapena dal folle, ma la sua follia è nobiliare, se le sue “nefandezze” contro i potenti non fossero scevre da qualsiasi fede ideologica o dottrinale, egli finirebbe al manicomio o suicidato dalla società (come i grandi poeti maledetti che hanno turbato la pubblica opinione con l’indecenza del meraviglioso). Di contro c’è un cinema che smaschera epoche dissolute… che rivela la farsa delle “buone intenzioni” dei dominatori a difesa del genere umano… un cinema che non abbellisce nessuna tragedia, nessun evento, nessuna epifania dell’ordine costituito… un cinema esecrabile per produttori, distributori, critici, pubblici avvezzi a paradisi artificiali e megalomanie da fine del mondo… naturalmente, un cinema che fa dell’avvento della coscienza il debutto di tutte le intemperanze sociali… un cinema politico che porta lontano e permette lo stupore e la meraviglia di qualsiasi utopia…un cinema della conoscenza che ridesta ciò che uccide l’amore tra le genti e trionfa su primavere di carogne. Film come Rivoluzione Zanj di Tariq Teguia, appunto, spaccano l’acquasantiera della macchina/cinema e lasciano dietro di sé gli entusiasmi imbalsamati negli itinerari dell’odio dei governi sotto il segno ineluttabile del “progresso”… film che credono nella propria verità e non temono di raccontare le iniquità e gli assassinii dei potenti al tempo del neoliberismo o della civiltà dello spettacolo. La cattiva reputazione del cinema politico è salutare, perché infrange le coordinate codificate dello spettacolo… e “lo spettacolo – scrive Guy Debord – non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni. È in questa lotta cieca che ogni merce, seguendo la sua passione, nell’incoscienza realizza in effetti qualcosa di più elevato: il divenir-mondo della merce, che è altrettanto il divenir-merce del mondo. Così, per un’astuzia della ragione mercantile, il particolare della merce si logora combattendo, mentre la forma-merce va verso la sua realizzazione assoluta” 9. La fenomenologia delle merci è pura illusione e il linguaggio decifrato dei ladri di sogni. Giocare all’interno del cinema-merce nel canto di un’impresa rivoluzionaria e disfarne i presupposti, significa risuscitare i bagliori della sovversione non sospetta, alzarsi, crescere e divenire uomini e donne migliori. Rivoluzione Zanj è un film di notevole insolenza poetica, libertaria… qualcosa che scuote gli schermi addomesticati della società mercantile. La storia si avvolge intorno a un giornalista algerino che segue i conflitti interni nel sud del Paese… in modo casuale ritrova le tracce delle antiche rivolte degli schiavi neri (Zanj appunto, comprati nell’Africa orientale) contro il califfato degli Abbasidi, avvenute tra l’869 e l’883 nel sud dell’Iraq, nella regione di Bassora… passate alla storia come rivoluzioni Zanj (e conseguirono anche un qualche successo, tanto da coniare delle loro monete). Il giornalista vede nelle rivolte in Egitto, Tunisi, Yemen e in tutte le coste del Mediterraneo… l’utopia della rivoluzione pan-araba e intraprende un viaggio verso la scoperta delle loro gesta… a Beirut (città-simbolo delle lotte e delle speranze di tutto il mondo arabo) incontra una profuga palestinese, poi rifugiata in Grecia, e qui la rabbia delle giovani generazioni incendia la storia tradita della società parassitaria. Tariq Teguia non è sconosciuto ai disingannati della critica politica del cinema… nasce ad Algeri il 12 dicembre 1966, studia filosofia e arti plastiche, lavora per la stampa come fotografo freelance… realizza quattro documentari: Kech’mouvement (1996), The Dog (1996) Scarto Waiting (1998) e La fine (2002). Rivoluzione Zanj è il suo terzo lungometraggio. I precedenti Rome wa la n’touma –Roma piuttosto che voi (2006) e Gabbla – Inland (2008), sono stati presentati in Italia alla Mostra del cinema di Venezia e trasmessi da un critico fuori onda (Enrico Ghezzi), in Fuori Orario cose (mai) viste (Rai3). I suoi film hanno ricevuto premi internazionali (che non c’importa qui menzionare) ma per molti sono ancora sconosciuti… tuttavia lo strangolamento della distruzione non è riuscito a cancellarli a quanti volevano vedere per capire e capire per passare al dissidio… la democrazia diretta o partecipata e il bene comune non è un sogno, è un’utopia possibile… basta sapere che qualsiasi edificio sociale fondato su secoli di storia, non può che essere distrutto dai popoli in rivoluzione! Rivoluzione Zanj corrisponde alla voglia di libertà che infiamma ancora i paesi attraversati dalle “primavere arabe” (soffocate nel sangue e restaurate nella dittatura)… il giornalista (Fethi Ghares), dicevamo, a Beirut incontra una ragazza palestinese (Diana Sabri), un’apolide, figlia di un anarchico libanese… il loro cammino s’incrocia con artisti, guerriglieri, persone di varia umanità… infine giungono in Grecia dove le manifestazioni di protesta assumono il corpo di una rivoluzione e anche se sappiamo come è andata finire, ciò non significa che l’assalto al cielo della società mercantile non sia possibile, è solo rimandato alle prossime primavere di bellezza che rispondono alla violenza istituita con tutti gli strumenti necessari a liquidare la violenza, e fanno dell’impudenza il cambiamento dello stato del mondo. La critica della violenza che fuoriesce da Rivoluzione Zanj è collegata alle analisi contro il potere di Hannah Arendt, Frantz Fanon, Walter Benjamin, René Girard, Michel Foucault, Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Guy Debord… in questo senso la filosofia della violenza che il film contiene rende “riprovevole la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrata, che serve l’amministrante. La violenza divina, che è insegna e sigillo, non è mai strumento di sacra esecuzione. Si potrebbe dire che è la violenza che governa” (Walter Benjamin) l’universo. La critica della violenza è la filosofia della sua storia, uno strappo, un rivolgimento, una prospettiva decisiva a dirimere le forme di violenza con le quali si erigono miti e si conservano i diritti nel sangue. Jean Meslier (curato di campagna, 1664-1729), a ragione, lascia nel suo Testamento (messo all’indice dalla chiesa) queste parole: « Io vorrei, e questo sia l’ultimo ed il più ardente dei miei desideri, io vorrei che l’ultimo dei re fosse strangolato con le budella dell’ultimo dei preti”. I tiranni sono sempre gli stessi… e l’appello alla giustizia sociale passa dalla disobbedienza dell’uomo in rivolta. L’architettura filmica di Rivoluzione Zanj è austera, quanto metaforica, surreale, anche… Rossellini, Godard, Pasolini sono i nodi di riferimento… straordinaria è la sequenza di Ici et ailleurs (1976), scippata a Godard e Anne-Marie Miéville, e proiettata sui corpi degli spettatori che stanno assistendo alla proiezione. Ici et ailleurs è un film controverso, opera d’inclinazione sovversiva… mai distribuito adeguatamente… mette insieme la volontà del popolo e la lotta armata palestinese… il lavoro politico e una guerra prolungata che porterà fino alla vittoria. Anche se non sarà così, resta un piccolo capolavoro incompreso, nel quale Godard e Miéville “restituiscono le immagini ai corpi dai quali sono state tratte” (Serge Daney). Di più. Ici et ailleurs, come Rivoluzione Zanj, incatenano le immagini dei loro film alla realtà rovesciata del momento e non fanno sconti a nessuno. La tesi di fondo di Godard è espressa con chiarezza: “Gli ebrei fanno agli arabi ciò che i nazisti hanno fatto agli ebrei”. Teguia sostiene a viso scoperto che là dove c’è oppressione è giusto che nasca la resistenza e sfoci nella rivoluzione. In Rivoluzione Zanj, Teguia evita i soliti moralismi sfoderati sui tappeti rossi dei festival, quando si parla di ultimi della terra o sollevazioni in armi di popoli affogati nella miseria e nella paura… impugna i diritti dell’uomo e rifiuta i mandati di comparizione delle democrazie spettacolari. La sovranità popolare non può essere delegata né rappresentata. La resistenza è il primo vagito di tutte le rivoluzioni e solo le rivoluzioni metteranno fine ad uno stato di cose dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Non ci può essere nessuna felicità senza l’eliminazione pura e semplice dell’ordine costituito. Né servi né padroni! non è un canto di prossimità! è il brulotto delle idee in anarchia che prendono forma mentre si realizzano.
Nel film di Teguia non sono poche le sequenze, magnifiche, di esterni (campi lunghi) che attanagliano la fantasia dello spettatore… c’è una malinconia politica che attraversa l’intero film… uno splendore di sentimenti struccati verso chi soffre e chi cerca di sollevarsi con tutti gli strumenti utili… le monete degli schiavi Zanj sono ammucchiate nel fondo del Tigri, non valgono nulla, ma per certi uomini in rivolta sono l’inizio di qualcosa che riporta alla scoperta di quell’utopia libertaria che cancella i privilegi e sporca i mattatoi con la bava dei forsennati dell’affarismo politico, finanziario e religioso. Cè da dire che la sola stonatura di Rivoluzione Zanj è una trovata di sceneggiatura. Quando il giornalista ruba i soldi degli “affari sporchi” nell’albergo dell’aeroporto… è un “colpo” piuttosto alla francese… troppo facile per essere anche vero… e poi all’interno di questo film… tuttavia recupera sorrisi e leggerezza o forse è vero il contrario: il potere non esiste se non nella misura in cui lo si accetta, e non accettarlo più è già un qualcosa che anticipa il suo crollo… la disobbedienza civile è una forza indicibile, quanto il diritto d’inventario dopo la rivoluzione. La decostruzione del vero è anch’essa una verità, se è parte di un discorso più ampio e formidabile vivaio di riflessione politica. E poi rubare ai ricchi non è mai stato un furto, come assassinare un tiranno non è reato! Tutte cose che non s’imparano a scuola ma nella strada. Le inquadrature forti, personali, giustamente insolenti di Teguia, non sono un esercizio stilistico ma un vero e proprio rizomario di affettazioni del luogo comune sui salvati e i sommersi delle “primavere arabe”… il regista respinge l’umiliazione dell’indifferenza ed evita i luoghi delle infatuazioni… le menzogne dell’Occidente sono disvelate o tenute a distanza dal nucleo narrativo e, come in uno specchio, le belle carogne disseminate lungo i secoli dei colonialisti sono sepolte nei cimiteri di formule e ideologie o accatastate nel marcitoio dei moribondi di Wall Street. Non c’è bisogno di credere a una verità per sostenerla, né di giustificare un’epoca del dispotismo ingiustificabile, dato che ogni vero principio di libertà è sul fronte della storia e ogni angheria istituzionale non solo è illegittima ma è essenzialmente volgare. La fotografia di Rivoluzione Zanj alterna epifanie poetiche a frammenti che sembrano scippati da un cinegiornale… il bello, il vero, il buono sono ammantati di schegge di reale che sottolineano (senza sofismi) la speranza, i timori, il coraggio della comunità che viene… certe sequenze in esterni (mari, fiumi, deserti, albe, tramonti, quartieri dissestati) esprimono l’essenza di ciò che non si riesce a vedere nella macchina/cinema… e il cinema non è tollerabile se non per il grado di sovversione che vi si mette. Il resto è solo Hollywood (Spielberg, Tarantino, Scorsese, Inarritu …), con il vomito che ne consegue. Le brevi sequenze nella pe-riferia di New York sono filmate quasi in clandestinità… mostrano che la mafia è ovunque (nei governi, nelle banche, nei servizi segreti) e detiene i centri commerciali, la droga, i diamanti, l’acqua, i mercati delle armi… Teguia disvela gli schifosi che vendono il loro paese a pezzi… e senza mezzi termini dice che la “civiltà” è minata quando sono queste serpi di stato a darle un “volto”. Tra la verità dei ricchi e la ragione degli ultimi, l’incompatibilità è totale… è dalla distruzione di queste cimici della finanza, della politica e del clero che nascono mondi nuovi. Il montaggio di Rivoluzione Zanj elabora una specie di sinfonia visuale che debutta in maniera grafica, tinteggiata di rosso, nelle sequenze finali… la lunghezza del film (116’) non s’avverte… la cucitura tra attorialità e squarci semi documentari s’accorda con l’epica delle immagini e vanno a configurare l’avvento di una coscienza sociale che porta oltre il film e permette qualsiasi cosa: l’odio assopisce la conoscenza, la conoscenza ridestata (innervata sull’effigie del fallimento dei “grandi tavoli” internazionali di pace) lavora alla cancellazione dell’odio. È difficile cambiare la vita senza versare sangue. “Povero idiota di un rivoluzionario, milionario in immagini di rivoluzione” (Jean-Luc Godard, voce off di commento nel film Ici et ailleurs): l’emancipazione di qualsiasi popolo non può che essere opera del popolo stesso.
L’attorialità è funzionale all’intero film… Fethi Ghares e Diana Sabri sono veri e propri testimoni di una stagione all’inferno o della fraternità e del-l’amore come innocenza del divenire, e incarnano (lei soprattutto) gli insorti del desiderio di vivere tra liberi e uguali. Teguia lavora su l’interpretazione straniante (brechtiana) dei personaggi… sono icone più che attori… elementi figurativi di una cartografia dell’esistenza che cerca l’uguaglianza mai realizzata dei cacciatori di sogni… certo è che le rivoluzioni si possono fare e il corso della storia può essere deviato. Per non dimenticare. “Dalla parte dell’ordine borghese: lo sfruttamento, il capitalismo, la miseria, la guerra, la prostituzione, il lavoro minorile, la fumisteria parlamentare, la schiavitù, l’asservimento delle coscienze e delle intelligenze; dalla parte del disordine anarchico: la liberazione dei popoli, la fine dello schiavismo, la scienza al servizio dell’umanità, la rivolta contro il capitale, l’eliminazione del clero, l’abolizione dei privilegi, la parola delle capanne contro i castelli” (Michel Onfray). È naturale stare con l’ordine senza potere dell’anarchia. Rivoluzione Zanj contiene questo messaggio: l’esplosione sociale per il conseguimento di una società composta di essere liberi. Ogni rivoluzione trova la sua origine nella Comune di Parigi (1871) e sulla sua sconfitta (ma non fu mai vinta!) continuano a nascere le speranze e le ragioni per cui lottare contro ogni forma di potere di tutti i libertari della terra.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 28 volte febbraio, 2016.
1 Carlo M. Cipolla, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elementi determinanti dello sviluppo economico nell’età di mezzo / Le leggi fondamentali della stupidità umana, Il Mulino, 1988
2 Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse, Ponte alle grazie, 2009
3 Michel Onfray, Schpenhauer, Thoreau, Stirner. Le radicalità esistenziali. Controstoria della filosofia VI, Ponte alle grazie, 2009
4 Zygmunt Bauman, Capitalismo parassitario, Editori Laterza, 2009
5 E.M. Cioran, Storia e utopia, Adelphi, 1982
6 John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, 1981
7 Giulio Giorello, Libertà, Bollati Boringhieri, 2015