





A Oliviero Toscani, amico e maestro…
a ricordo delle nostre mirabolanti risate sull’abolizione dei partiti politici e parlare di niente e di tutto sulle spiagge di Toscana o nella sua tana di Casale, tra un bicchiere di vino, le ciliegie colte dall’albero e un pezzo di pane fresco…
Un giorno, vicino alla sua mirabolante stalla di cavalli Appaloosa (mi sembrava di vedere quelli degli indiani di Ombre rosse (1939) di John Ford, gli raccontai questa storiella apocrifa sulla scolastica della fotografia che avevo rubato e détournato da non so quale filosofo o una signora della strada col rossetto sfatto senza più clienti o forse da quell’ubriaco di taverna di porto che cantava: “E anche adesso che bestemmio e bevo vino, per ladri e puttane sono Gesù Bambino” (Lucio Dalla e Paola Pallottino, nella versione non censurata di 4 marzo 1943).
— “Sono venuto per farti alcune domande sull’apprendere la fotografia”, disse il discepolo.
“Da parte mia non aspettarti nessun insegnamento”, rispose il maestro… e aggiunse: “Ci siamo abbeverati alla stessa luce e alla stessa ombra e questo è tutto il nostro sapere”.
“Devo dunque fare a meno della tua conoscenza”, disse il discepolo.
“Farò del mio meglio per aiutarti a comprendere che la fotografia non è un esercizio di ammirazione… dunque t’insegnerò poco alla volta a disimparare tutto ciò che hai appreso”, rispose il maestro… e aggiunse: “La fotografia è là dov’è quella stella lucente, sotto c’è la strada, seguila, lì c’è il sale della fotografia e della vita… è anche la chiusa de Gli Spostati (1961) di John Huston, l’ultima volta che Clark Gable, Marilyn Monroe e Montgomery Clift hanno sognato insieme un mondo meno feroce, prima di scomparire lassù dove qualcuno li ama (ancora un film, Lassù qualcuno mi ama (1956) di Robert Wise, con Paul Newman, che vidi tre volte di seguito per cento lire e la notte (andavo a letto vestito perché c’era freddo in quella brandina con le coperte americane e il mio cane bastardo Spartaco mi faceva un po’ più caldo proprio sul cuore sgualcito di sogni), mi sovvenne pensare: “Che cos’è la conoscenza se non la demolizione di qualcosa?”, diceva… Cazzo!… ancora oggi che gioco a carte e bevo vino con Francesco, Anna Maria e Te Paola, stanca di guerra, favo di miele1, non riesco a darmi una risposta, nevvero… confesso che ho un debole per la gente un po’ disturbata… specie per Don Chisciotte e Sancho Panza, il boia di Londra o santa Teresa d’Ávila… perché sono spiriti seducenti… ma soprattutto è stata l’arte sovversiva di Luis Buñuel, Jean Vigo, August Sander, Diane Arbus e quella di uno straccivendolo anarchico nella cantina sotto casa mia (un domatore di pulci, alla maniera di Charlot in Luci della ribalta, 1952), che mi hanno fatto capire la consacrazione di qualcosa o di qualcuno è la peggiore delle punizioni, volevo essere padrone della mia fame e della mia libertà, tutto qui.
Oliviero si mise a ridere di gusto, mi versò un altro bicchiere di nero, di quelli che illuminano gli occhi o le lacrime dei giusti, e mi disse che ero proprio un figlio di puttana nel rovesciare le storie… pioveva… sulla strada del ritorno guardavo le stelle che giocavano a mosca cieca con la luna e da una nuvola impertinente sbucò fuori Don Chisciotte… cazzo, era proprio lui… con un colabrodo in testa, la lancia, in groppa a Rozinante… c’erano anche i mulini a vento con la faccia di giganti cattivi… quando Don Chisciotte si buttò contro i giganti avvenne lo scontro… la mia macchina scivolò a una curva e si fermò sotto un albero… il vino buono fa brutti scherzi, pensai, e mentre le stelle mi stavano a guardare come i gatti in amore sui tetti, ripresi la strada verso il Gran Ducato di Utopia canticchiando Bella ciao (era la canzone che mi cantava la mia mamma quando mi allattava, forse è per questo che mi è sempre piaciuto il latte fresco). C’era una volta e una volta non c’era —…
“La fotografia è più di un’immagine: è un’opinione, è un punto di vista…
Non puoi fotografare bene ciò che non ami… Io non sono un artista. Sono un testimone…
Quando si scatta una fotografia, si prende una posizione. Anche l’obiettivo ha una coscienza… La fotografia può aiutare le persone a capire quello che accade agli altri. E quando capiamo, possiamo agire”…
Sebastião Salgado
Con la fotografia non si fanno le rivoluzioni… le rivoluzioni si fanno con le rivoluzioni, ma con la fotografia si può diventare uomini e donne migliori… chi conosce la forca non sempre sa fotografare e chi fotografa non sempre conosce la forca, anche se qualche volta la meriterebbe… i bagliori di santità non c’interessano… lasciamoli ai critici, agli storici, agli artisti, ai cortigiani dell’arte di strisciare, scriveva il barone Paul Henry Thiry d’Holbach: “Certi mortali sono affetti da una rigidità di spirito, un difetto di elasticità nei lombi, una mancanza di flessibilità nella cervicale; questo […] impedisce loro di perfezionarsi nell’arte dello strisciare e li rende incapaci di fare carriera a corte. Serpenti e rettili guadagnano cime e rocce su cui neanche il cavallo più impetuoso riesce a issarsi. La corte non è per niente adatta a questi personaggi alteri, tutti d’un pezzo, incapaci di cedere a capricci, di assecondare fantasmi e nemmeno, se necessario, approvare o favorire crimini che il potere giudica necessari al benessere dello Stato”2 … si dovrebbe fare la fotografia nella strada e intrecciare la filosofia con la vita… tenersi con risolutezza ai margini della notorietà e della gloria, poiché lì albergano tutte le terribilità dell’assassinio prodotte dall’obbedienza politica, religiosa e finanziaria… l’arte, tutta l’arte, dipende dal punto in cui si mette l’accento sulla parola che dice no!… e sbaragliare l’inconveniente di non essere compresi.
La fotografia della sofferenza dice che vi sono catene che soltanto l’uomo potrebbe spezzare e l’uomo non le spezza… ma al di là delle responsabilità dei sistemi finanziari, dei governi, delle chiese e delle armi… c’è la fraternità, la solidarietà, l’ospitalità che non chiedono da dove vieni né dove vuoi andare… e chi li frequenta dice: questo è il mio cuore, questo è il mio abbraccio, questa è la mia casa… entra senza bussare… spezzo il mio pane con te… ogni straniero è mio fratello e ogni diversità è mia amica… poiché l’amore dell’uomo per l’uomo non lo si dona, lo si sceglie. La lingua della sofferenza non tiene conto di nessuna origine, se non quella dell’erranza, dell’esilio o della resistenza al presente che travalica ogni frontiera e annota: “Diffida di quelli che arringano le masse. Di quelli che per ascoltar se stessi hanno bisogno di rivolgersi alla folla dei loro seguaci. Il tuo volto resterà loro sconosciuto, sempre. Non tarderanno a cancellare dalle loro tavolette il tuo nome. Con un tratto di penna” (Edmond Jabès)3 o con l’indice dei dividendi delle banche o con una pioggia di bombe, e sempre in nome di Dio, dello Stato e del Popolo. La giustizia è priva di eredi e la verità non ha eclissi… tutte le bandiere sono insozzate di sangue innocente, ma quando un bambino muore di fame o sotto le macerie delle guerre, annuncia i vagiti di una civiltà che si spegne.
Il solo partito che conta è quello della poesia e in ogni forma del comunicare apre ferite e fa entrare la luce della riprovazione e del deploro. Una foglia di melograno non potrà mai rinascere dall’albero bruciato dal Napalm… tuttavia “verrà un giorno… che l’uomo si risveglierà dall’oblio e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, una mente fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene schiavo… l’uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo mondo” (Giordano Bruno). Il frate eretico e rivoluzionario viene bruciato in Piazza del Campo il 17 febbraio 1600 dalla Chiesa di Roma, perché così andavano le cose anche nel XVII secolo… da allora Giordano Bruno è morto più e più volte… è morto nei campi di sterminio nazisti, nei gulag dei comunisti, nelle pulizie etniche dei nativi americani, dell’Africa, dell’Istria, della Bosnia, dell’Erzegovina, dell’Armenia, del Tibet, della Palestina… e continua a morire ogni giorno nell’odio razziale e religioso, nelle guerre, negli attentati terroristici, nel crimine organizzato, nella repressione dei governi totalitari, perché così continuano ad andare le cose nei secoli, diceva quel massone illuminato4… all’inizio di ogni inizio e alla fine d’ogni fine c’è una parola che non si lascia recintare né annientare e contro la quale sono franati imperi e dittature: la parola Libertà. Contiene tutte le biblioteche del mondo… perché il dolore che occorre per raggiungerla è il medesimo di tutti i popoli che l’hanno cercata sulle barricate della rivoluzione sociale.
La libertà contiene il bello, il giusto, il buono ed è crocevia di cammini… e gli uomini in cammino o che navigano sul battello ebbro della Libertà rigettano la politica dei partiti, il linguaggio degli affari, le mafie che serpeggiano nei governi perché sanno che lì regna l’inganno, l’impostura, il delitto… e si fanno bracconieri di sogni o protagonisti della sovversione non sospetta nell’arte (come nelle strade) e danno inizio allo smantellamento della tracotanza e della prepotenza… Giulio Giorello, un filosofo di nessuna chiesa, ci racconta: «Non ho nulla contro l’idea che un qualche Dio prenda corpo nella storia e partecipi alle vicende degli uomini: sappia solo che può anche rischiare di prendersi un coscia di toro sul volto, come capitò, stando all’Epopea sumerica e accadica, alla dea Inanna (Ištar), oltraggiata dall’eroe Enkidu, solidale di Gilgameš nella ribellione: “Se tu aiuti me, io aiuto te. Chi può prevalere su di noi?”»5. È la medesima morale del gigante Gulliver legato a terra dai lillipuziani per impedire la sua strafottenza6 o l’asino della fattoria degli animali che impara a leggere ma rifiuta di mettere la propria conoscenza al servizio dei maiali7 o la battaglia di Don Chisciotte contro i mostri della cattività e disvela che sono solo mulini a vento8, e possono essere sconfitti a favore di una società libera e aperta che non vuole sudditi ma cittadini, ribaldi o cavalieri erranti dell’utopia… sulle cattedre dell’infallibilità si ergono politici, preti, governi, militari… e quando arringano le folle all’obbedienza, alla confessione, all’indifferenza, il giorno dello sterminio di un popolo è vicino.
L’estetica della sofferenza di Sebastião Salgado è una poetica dell’essenzialità… il dissotterramento della profondità emotiva che s’infiora in un bianco e nero intenso, anche abrasivo, è una sorta di realismo magico che figura le tematiche universali dell’umanità… non siamo in accordo con quanti asseriscono che la composizione fotografica di Salgado si riversa in scene teatrali o geometrie accattivanti… vero niente… gli uomini, le donne, i bambini fotografati da Salgado, anche quando sono raccolti nella degradazione, nella coartazione, nella brutalità, sono avvolti in un’aura di marcata dignità. L’iconologia di Salgado è un canto tragico sul mondo che soffre. L’elegia architetturale del fotografo è stellare. Sia come uomo che come fotografo, Salgado non ha timore a schierarsi dalla parte degli indifesi contro il dispotismo dei governi. L’occhio-fionda… amorevole, sincero, fraterno di Salgado è passato dalle rivolte dei Senza Terra in Brasile ai genocidi (perpetuati dai Paesi civilizzati) in Africa, dalla “guerra umanitaria” dei Balcani al comunismo da parata in Cina… ha documentato gli orrori e le ingiustizie in India, Medio Oriente, Europa… ha fatto delle periferie martoriate della terra una ferita aperta sui muri del capitalismo parassitario9 e portato un po’ di verità là dove regnano la ragione delle armi, le tenebre della fede e le gogne dell’economia politica dei Paesi ricchi.
Ci sono parole che sono immagini e chiedono giustizia, come queste: “Lungo un sentiero rapido e pietroso/incontrai un giorno una bambina/che recava sulla schiena suo fratellino./ – Cara bambina, le dissi,/come fai a portare un carico così pesante?/Ella mi guardò e disse:/Non è un carico,/signore, è mio fratello!/Restai interdetto. La parola di questa bambina/si è impressa nel mio cuore./E quando il dolore degli Uomini mi opprime,/quando ogni coraggio mi abbandona,/la parola della bambina me lo ricorda:/”Non è un carico quanto stai portando,/è tuo fratello”10. Ci sono e immagini (come quelle di Salgado) che sono grida di rivolta e chiedono il diritto di avere i diritti per tutti gli uomini della Terra.
Sbrighiamo la noterella biografica. Sebastião Salgado nasce in Brasile l’8 febbraio 1944 e muore a Parigi il 23 maggio 2025. Quando aveva cinque anni la sua famiglia si trasferisce in una tenuta agricola a Aimoés. A venti anni, per terminare il liceo, Salgado va a Vitoria, la capitale dello Stato di Espirito Santo. Qui conosce sua moglie, Léila, e si stabiliscono a San Paolo. Nel 1969, il Brasile è sotto la dittatura militare. Salgado e Léila partono per l’Europa. È il loro primo viaggio da immigrati e rifugiati politici. Salgado si laurea alla Sorbona in Economia e Commercio e in seguito acquisisce una specializzazione in materia d’interventi economici per l’agricoltura nei paesi del sottosviluppo. Viene assunto dall’Organizzazione Mondiale del Caffè che ha sede a Londra. Lo inviano in Africa per studiare problemi e tecniche della produzione del tè e del caffè. Il suo lavoro è molto stimato. Ha richieste di consulenze dalla Banca Mondiale di Washington ma lascia ogni cosa per dedicarsi alla fotografia. Ci arriva quasi per caso. Spinto dalla moglie, a 29 anni. Comincia a fotografare e per la prima volta sono bambini. Lavora per le maggiori agenzie fotografiche (Sygma, Gamma, Magnum), poi nel 1994 crea (insieme alla moglie) una propria agenzia: la Amazonas Images.
A proposito di Léila Deluiz Wanick, abbiamo scritto in una recensione del film Il sale della terra (2015) di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, per il giornale anarchico Sicilia Libertaria: “Léila è una di quelle donne che non stanno dietro né all’uomo né al fotografo… non sono nemmeno muse né ispiratrici di non so che… sono donne-semenze che vanno insieme sia all’uomo che al fotografo… condividono ogni immagine, ogni dolore, ogni gioia e sono al fondo del lavoro fotografico in ogni sfaccettatura documentale/architetturale… Léila è mamma di due figli, Juliano (regista) e Rodrigo (con la sindrome Down), moglie, insegnante, artista, attivista dei diritti umani… è stata per Salgado una stella lucente — come si evince nel film di Wenders — e come tutte le donne-semenza ha rappresentato la fata che ha rubato il sole e ricevuto in cambio la luna… la donna-semenza che come la rugiada del mattino consegna il fiore al suo profumo, dissetandolo… è l’eternamente desiderabile di ciò che si è desiderato, diceva… è il naviglio che porta — di vocabolo in vocabolo — alla casa del cuore”.
Salgado è uno dei più grandi fotogiornalisti del proprio tempo. I suoi lavori documentano l’indigenza, l’afflizione, la coercizione sulle popolazioni mortificate della terra e vanno a comporre un progetto di proporzioni colossali, quello come lui stesso ha chiamato: “L’archeologia all’epoca industriale: l’uomo-produzione all’alba del XXI secolo”. Per le sue immagini straordinarie ha ricevuto molti riconoscimenti internazionali, tra i quali l’“Eugene Smith Award for Humanitarian Photography” (1982), l’“Erna and Victor Hasselblad” (1989), il “Grand Prix de la ville de Paris (1991) e l’“Award Publication dell’International Center of Photography (1994) per il suo libro più importante, Worker. La mano dell’uomo, un atlante di geografia umana senza pari che ferma nella storia della fotografia le condizioni disumane del lavoro dell’uomo nel mondo.
Salgado è un artista, un poeta della sofferenza, “un uomo che vede e che vedendo ci aiuta a vedere. In questa monumentale opera d’arte [si tratta di una mostra fotografica intitolata “In cammino”], Salgado scopre e rivela il mondo alla fine del millennio; ecco la grande odissea del nostro tempo – questo viaggio con più naufraghi che naviganti —” (Eduardo Galeano). Nelle fotografie di Salgado l’utopia concreta entra nella storia e la storia diventa il luogo, lo spazio e il tempo dell’impossibile che diventa possibile, quel terreno franco che insorge in terre liberate, tra l’imperfetto di oggi e il perfetto di domani.
Le immagini-dialogo di Salgado sono in contrasto con quanto circola nella fotografia mercatale e sugli schermi televisivi addomesticati dalla New Economy (definizione di “progresso” legato alla diffusione delle tecnologie informatiche e digitali… internet, telefoni cellulari, personal computer, prodotti informatici) che si è sviluppata sulla fine del XX secolo ed è esplosa sul pianeta nel nuovo millennio portando profondi cambiamenti nel tessuto economico-sociale e trasformando alla radice la vita dell’uomo… le immagini-dialogo di Salgado chiedono il diritto alla libertà, che è semplicemente il diritto di essere uomini in mezzo agli uomini, diceva… senza snocciolare nulla sugli esperti, tecnici, economisti, politici e mercanti d’armi della New Economy, ci piace ricordare alcune osservazioni di Noam Chomsky e Josè “Pepe” Mujica sparse nel loro libro, Sopravvivere al XXI secolo… qui i due “grandi vecchi” dicono che il disastro ambientale e le guerre stanno conducendo l’umanità alla distruzione… ci avvertono che le organizzazioni internazionali sono fagocitate dall’alta finanza e la sinistra ovunque è incapace d’inventare nuovi percorsi di critica al sistema che l’ha inglobata fino a dissolverla… in modo ironico, ma non troppo, affermano che le elezioni, nelle quali vota la metà della popolazione, sono una sorta di vassallaggio a sostegno dei privilegiati ai quali non importa nulla dei cittadini che li votano… sarebbe meglio estrarre i parlamentari a sorte, rispettando un campione statistico, stratificato per età, zone, geografie, occupazione… si tratta di costruire un arsenale di pensieri nuovi e ridistribuire il potere senza prenderlo… meglio un autogoverno dei cittadini che una pletora di assassini vestiti eleganti!
La fotografia di Sebastião Salgado è un’interrogazione sul tracollo delle civiltà… un cammino prometeico connesso con il risentimento, lo sdegno, il dissidio contro la storia del male… per il fotografo brasiliano, essere in cammino non significa viaggiare come turisti o cronisti della società affluente… si tratta di dare una testimonianza radicale della vita di coloro che sono costretti a migrare dai loro Paesi devastati da conflitti, povertà e miserie senza rimedio… coloro che cercano un qualche rifugio per non morire di fame, che vanno alla deriva dei colonialismi postmoderni, insieme ai loro popoli e ai loro continenti… di chi è costretto all’esodo, appunto, dall’arroganza economica/politica dei Paesi ricchi. Quelle di Salgado sono fotografie che negano la realtà prostituita alle leggi dei “nuovi” imperi fondati sui mercati globali. L’alba del terzo millennio si è aperta con i vecchi mali del mondo più accentuati e più contraffatti dai dettati imposti dalla supremazia della merce.
Così Sebastião Salgado: “Il 15% della popolazione mondiale ha compiuto una sorta di fuga verso il futuro e vive proiettata nel futuro, dimentica del resto dell’umanità – la gran parte – lasciata indietro: l’85% circa della popolazione mondiale è infatti costretta a vivere in un passato da cui non riesce a staccarsi, in un mondo che non ha un presente.
Il problema che ne consegue è che le popolazioni che vivono protette, come quelle dell’Italia, della Francia, degli Stati Uniti, della Germania, ecc., danno l’impressione che parlino di globalizzazione finanziaria, globalizzazione economica, globalizzazione dell’informazione, dimenticando il resto del mondo, i globalizzati, coloro che subiscono la globalizzazione, che lavorano e trasferiscono la loro ricchezza verso i paesi ricchi del mondo, facendo in modo che questi siano sempre più ricchi mentre loro diventano sempre più poveri… [le mie fotografie] sono in effetti una riproduzione, uno specchio della realtà. Non vogliono essere altro che questo: fotografie di un mondo reale che ho conosciuto viaggiando nove mesi l’anno per sette anni, dal 1993 al 1999, sono fotografie realizzate per mostrare che esiste anche un’altra realtà degna di attenzione e di cui si deve parlare: e sono, da questo punto di vista, una testimonianza fortemente politica. C’è bisogno che la gente la veda per poter ragionare sul da farsi e trovare una soluzione per una possibile convivenza. Credo, infatti, che il 15% della popolazione non possa vivere a prescindere dal resto del mondo… [il mio lavoro] è una sorta di radiografia dei popoli che sono in movimento per il mondo. La maggior parte di queste persone un tempo aveva una certa stabilità, aveva una casa, un lavoro, e improvvisamente ha perduto tutto. Per ragioni politiche, per ragioni economiche, a causa di una delle tante guerre o di persecuzioni etniche – all’origine, certamente per una ragione economica – queste persone sono state costrette a partire, si sono trovate sulla strada alla ricerca di un nuovo equilibrio e di un nuovo modo di vivere. Sono ragioni che sfuggono alla loro comprensione; infatti, le cause che hanno determinato la loro partenza spesso hanno avuto origine a distanza di qualche migliaio di chilometri!
Coloro che partono soli o in gruppo sono accomunati dalla stessa disperazione di doversi met-
tere in cammino verso un futuro indeterminato e di sentirsi perduti… Certamente il linguaggio fotografico è un linguaggio formale, necessariamente legato all’estetica, è un linguaggio scritto con la luce – e questo vale per tutti i fotografi. Certamente, se le mie fotografie arrivano ad essere esposte in un luogo come le Scuderie Papali al Quirinale a Roma, o in qualche altro museo, vuol dire che hanno anche un valore plastico che le contraddistingue, ma non voglio assolutamente che queste siano lette come delle opere d’arte, ma come un insieme di immagini per informare, per provocare discussioni, dibattiti. Il primo veicolo di queste foto è la carta stampata. Sono prima di tutto un giornalista – ho una tessera da giornalista e sono fotoreporter. Vorrei quindi che le persone guardassero le mie foto non come oggetti d’arte, ma come una sorta di veicolo di realtà che ho avuto modo di toccare con mano”11. I capi di Stato, i generali, i tiranni, i preti, i banchieri… hanno usato tutti — i cannoni e la croce per addomesticare i “selvaggi” —… alla mano che accarezza la testa dei bambini scalzi nella pioggia, succede il plotone di esecuzione, sempre.
Non dobbiamo dimenticare, e sono le carte delle Nazioni Unite che parlano: nel 1985, 20 milioni di persone vivevano fuori dai loro Paesi. Nel nuovo millennio sono quasi 120 milioni che sopravvivono ai margini delle metropoli. Molti di loro sono fuggiti per problemi politici, etnici e religiosi. Questa condizione di sofferenza di una grande parte di umanità è la diretta conseguenza della scelta economica liberista/colonialista/etnocida delle nazioni sviluppate e costringe un numero sempre crescente di persone ad abbandonare le loro terre e migrare verso le città. Se questo processo continuerà con questi ritmi migratori, entro 25 anni il 75% della popolazione del pianeta abiterà nelle grandi città. Quando arrivano i piani finanziari delle banche, i monopoli dei governi, le benedizioni delle armi dei preti… le cause principali del diritto alla pubblica felicità, sparisce… l’architettonica della fame si poggia sul cattivo uso della ragione e il linguaggio dell’utilitarismo riproduce in mondovisione nuove forme di etnocidio dei popoli impoveriti. La sottomissione all’ordine del discorso della finanza, della politica, delle fedi è la soggezione planetaria al profitto incondizionato e tutto rifluisce in una genealogia della tirannia che produce crimini contro l’umanità.
L’estetica della dignità che è al fondo di ogni immagine di Salgado, è una costruzione del vedere e del sentire insieme… è l’apertura di un pensiero/sentiero visivo che crea il sentiero/pensiero che lo inaugura… una ritrattistica dell’ascolto dunque, dalla quale sbordano la costrizione, l’angheria, la violazione sugli uomini dei sistemi genocidari… nei loro ordinamenti assertivi, messianici, rappresentativi… la comunicazione mediatica diventa l’intero reale, l’unico reale che eclissa la vera realtà e la trasforma in controllo poliziesco esteso allo squartamento d’ogni dissidenza. Con Workers (1993), Migrations (2000), Genesis (2013), Exodus (2016) Salgado accorpa i temi universali delle disuguaglianze sulla pedagogia della menzogna che alleva all’ignoranza, all’inginocchiatoio e al servaggio… minatori, rifugiati, lavoratori, contadini, raccoglitori, guerriglieri, comunità indigene e la bellezza del pianeta in via di distruzione… sono fotografati fuori dal sensazionalismo, dal pietismo, dal miserabilismo… e conferiscono alla fotografia una insorgenza del vero che implica responsabilità, vessazioni e imposizioni dei poteri dominanti… la fotografia qui assume un ruolo etico e politico che non è solo arte in amore dell’uomo per l’uomo, è anche e soprattutto il punto d’incontro o la brace ancora calda tra esseri umani che contrastano l’euristica della paura costruita sulla privazione della parola, sui cieli incendiati e piogge di bombe sui sorrisi dei bambini che disvelano l’arcipelago Gulag della post-modernità.
Nella fotografia della dignità di Salgado albeggia la regalità degli ultimi, degli indifesi, degli impoveriti… la dignità come madre di tutte le battaglie fatte e da fare in difesa dei diritti dell’uomo… la dignità è il fondamento sul quale gli uomini rigettano sopraffazioni, schiavitù, efferatezze… la dignità nella resistenza antifascista — ci ricorda Moni Ovadia — è stata “l’unica rivoluzione armata che, pur nel quadro di difficoltà estreme, abbia saputo approdare alla dignità della democrazia (…).
La dignità umana è inviolabile ed è un valore che non ha prezzo. Non può esistere dignità sociale o collettiva senza dignità individuale della persona, così come non può esistere dignità della persona senza dignità sociale. La cosiddetta rivoluzione liberale, nel grembo delle sue derive mercantili, ha generato il più efficace e terrificante dei totalitarismi, e cioè il totalitarismo del denaro e del profitto, responsabile dei due più vasti e perduranti crimini della storia: il colonialismo e l’imperialismo. La micidiale deriva ideologica del sedicente liberismo ha fatto carne di porco della dignità della persona, nel suo aspetto individuale come in quello sociale, e i suoi sacerdoti si ingegnano cinicamente a persistere, giorno dopo giorno, in quest’opera nefasta (…). Madre dignità perché la dignità partorisce i diritti. La dignità è una condizione dell’essere umano. La legge viene dopo, la struttura giuridica viene dopo, prima c’è la dignità. La dignità non è legata nemmeno ad una condizione di privazione dei diritti. La dignità non può essere detenuta da nessuna autorità. Anche quella più legittima e democratica non può neanche sfiorare la dignità. Nessuno può mettere in discussione la dignità, i diritti sì. Lo Stato può legittimamente privare della libertà e dei diritti connessi alla libertà un uomo colpevole di un delitto grave, ma non della dignità. La dignità non poteva essere sottratta nemmeno ad Hitler, o a Stalin, o al più efferato dei criminali. Ma attenzione! Non per buonismo, guai a confondere! Noi riconosciamo la dignità perché nel momento in cui tentiamo di appropriarcene, la civiltà crolla!”12. La dignità non ha patria… prescinde dalle nostre origini, dalla condizione sociale, dall’etnia… è una visione etica dell’esistenza… stranieri, ribelli, reietti, fuorilegge, gli ultimi della terra, tutti hanno addosso questo dono universale, che è prima di tutto amore verso se stessi e poi amore verso gli altri… la dignità non è di destra né di sinistra… è un pensiero autonomo da riferimenti ideologici o confessionali… è l’indignazione (anche in armi) che demistifica le rovine compiute della storia contemporanea.
L’iconografia della dignità di Salgado è intrisa di sguardi amorevoli, di amicizie profonde, di condivisioni abbaglianti… le sue fotografie-dialogo evocano la spietatezza che una minoranza di arricchiti infligge agli umiliati e agli offesi… indicano anche chi padroneggia e orienta le speranze di quanti hanno solo la speranza per sopravvivere alle crudeltà della civiltà tecnocratica… gli occhi dei ritrattati o i paesaggi ancora selvaggi o contaminati dalle guerre, denunciano l’acosmia (l’estinzione del genere umano e animale) del potere finanziario e politico che violenta la vita quotidiana… le fotografie di Salgado dicono di guardarsi intorno per vedere che l’umanità si trova nel bel mezzo di un campo di rovine… i pilastri della verità sono anche i pilastri dell’ordine costituito sulla ferocia dei governi che non governano, impongono. Le immagini di Salgado lo dicono, e forte… classi, razze, differenze, comunità, moralità, spiritualità, disobbedienze civili, turbolenze sociali… si mescolano tra loro e attivano passioni, fratellanze, opposizioni… e il dolore, la morte, l’amore, la verità si riversano contro la dittatura del consenso… di là dalla rinomanza che Salgado ha ricevuto in ogni dove… il suo portolano fotografico è uno dei pochi tentativi dei comprensione e di riscatto della catastrofe storico-politica del Novecento.
La fotografia della dignità di Salgado divelte i muri, i fili spinati, le fosse comuni dei negletti, dei braccati, degli esclusi e disvela le ipocrisie delle istituzioni, l’eclissi della politica, la protervia della finanza che in nome della ragione, della verità, dell’umanità, riproducono la barbarie della storia. La cartografia di Salgado è gravida di compassione verso il debole, l’oppresso, l’invisibile… restituisce il suo volto, la sua parola, i suoi sogni alla vita e lo fa con la collera, il riso, la gioia, anche… l’amore sorride, quando la dignità fa la sua apparizione e la compassione suscita il disprezzo verso chi produce l’infelicità, Boccaccio, diceva!… “la compassione è ugualitaria ed è il fenomeno centrale in cui si attesta la vera umanità” (Hannah Arendt)13. Dignità e compassione sono sinonimi… poiché la fotografia è il frutto della sua propria decifrazione, e una fotografia si distingue da un’altra per la verità o la falsità a cui è destinata… nelle fotografie di Salgado c’è una nudità della partecipazione, del riguardo, dell’accettazione che si oppone a un silenzio insolente o a una spettacolarizzazione del dolore… i corpi, i volti, i gesti che Salgado scippa alla realtà e alla verità esprimono una lingua… le immagini sono lessemi che si portano addosso la pena di universi convenuti e li dischiude nel grido dell’assetato di eguaglianza… l’immagine parlata di Salgado dialoga sulla rivendicazione di un tempo lacerato e non è un lamento ma un madrigale d’amore sulla risorgenza dell’uomo…. non m’importa tanto della fotografia, quanto l’uso che se ne fa. Il grande fotografo insegue la fotografia come i bambini inseguono la farfalla col retino bucato.
La fotografia antropologica di Salgado è tra le opere più alte nella storiografia fotografica… nelle sue immagini la sacralità dell’uomo è messa in correlazione con l’ambiente dove vive e sborda in un racconto universale dove bellezza e dolore coesistono e vanno a figurare il riscatto della dignità non come semplice denuncia, ma come strumento di giustizia e di verità che si contrappone ai massacratori della Terra. I lavori di Salgado s’intrecciano ai progetti di fotografia sociale di August Sander (Uomini del XX secolo. Ritratti 1892-1952)14 e Oliviero Toscani (Razza umana)15… tra i pochi a raffigurare la grandezza dell’uomo e come questo uomo sta al mondo… poeti dell’indicibile che sono riusciti ad affabulare etica ed estetica in forme di resistenza, di speranza, di utopia, sulle spoglie di una modernità che di moderno ha solo nuove carneficine. Hanno mostrato l’inosservato nell’eterno… più di ogni cosa non hanno insegnato nulla della fotografia, se non a disimparare l’abbecedario della cultura scolastica… niente odora di falso più della fotografia insegnata… “forse si fotografa soltanto per poter salvare qualche immagine dall’incendio che cova nella nostra infanzia intramontabile”, diceva. Non si bussa alla porta della fotografia impunemente. Vi si entra e si fa baccano o si esce nella fama, nella celebrità o nell’acclamazione. La fotografia è la scrittura di una vita o la notte dell’intelligenza. L’arte non c’entra, poiché l’arte è sempre a libro paga di qualcuno che ne conferma il valore di merce!…
Guy Debord ci aveva visto lungo quando rifletteva sulle nuove forme d’azione nella politica e nell’arte: “Quale omaggio più grande a Van Gogh che non prendere in ostaggio i quadri di una mostra e chiedere la liberazione dei prigionieri politici? Quale uso migliore dell’arte del passato per renderla ancora più viva se non impadronirsi delle opere dei musei e portarle sulle barricate?”. Come si vede, a Debord non faceva difetto né l’ironia né l’applicazione dell’arte in usi più concreti.
Le immagini in bianco e nero di Salgado sono forti, dirette e metaforiche insieme… la carica drammatica che le contraddistingue (sottolineata dai contrasti ben “lavorati”), va a figurare la dicotomia tra soggettività artistica e oggettività dell’arte (teorizzata finemente dai situazionisti…)16 e la decostruzione o il superamento dell’arte nella sua opera avviene per mezzo di una costruzione di situazioni che dichiarano ogni forma d’arte mercificata, in decomposizione17. Al di là del bello e del vero che s’incontrano nelle fotografie del brasiliano, dobbiamo dire che la genialità creativa e umana di Salgado non ha eguali nella cultura del dispendio… Salgado è un testimone scomodo del proprio tempo e le icone-verità non prostituite alla perfettibilità del committente, la poesia dell’amarezza, le urla dei poveri che fuoriescono dalle sue immagini del sertão, Perù, Ecuador… gravitano intorno a ciò che è nella sua fotografia, “quello che in Delacroix è La Libertà che guida il popolo del 1830: la scena, nella miniera d’oro a cielo aperto della Serra Pelada, nel Parà brasiliano, nel 1986. Il lavoratore nero lì ritratto di fronte al miliziano armato dagli sfruttatori di quell’oro dimenticato dai conquistadores, è con tutta evidenza Spartaco, la sua collera, i suoi muscoli, la sua certezza. È il rifiuto dell’umiliazione, la rivendicazione del diritto”18. I corpi, gli sguardi, i gesti fissati nella fotocamera da Salgado, cantano il rifiuto dell’oppressione e fanno riemergere l’immensa fierezza e l’insorgenza della donna e dell’uomo nel mondo.
Salgado si è portato anche dalla parte degli insorti che cercano di opporsi o resistere al processo neocolonialista di “domesticazione collettiva”… come gli zapatisti messicani del subcomandante Marcos o i Senza Terra brasiliani… a proposito di una mostra del popolo dei Senza Terra, il fotografo scrive: “Queste persone hanno scoperto che lottare, resistere, e restare legati alla terra è importante e che le città non offrono nessuna possibilità per la gran parte della popolazione che abbandona i campi… I Senza Terra non godono dell’appoggio di organizzazioni non governative o della protezione delle Nazioni Unite. Le scuole le organizzano da soli. Sono soggetti alla violenza dei grandi proprietari e della polizia. La situazione è molto dura, ma loro non vogliono andare in città. Chi vive oggi negli accampamenti sa che arrivando nelle città la famiglia muore, esplode. La cosa più spaventosa che succede è che i ragazzi diventano marginali e le ragazze si prostituiscono. E i genitori finiscono per abbandonarli, c’è una totale disintegrazione. È per questo che le persone che vivono negli accampamenti non vogliono andare in città. L’unica soluzione è quello che fa il MST: lottare per la terra. È una lotta per la dignità del popolo brasiliano. Invito tutti i giovani, tutte le officine per la costruzione di élites, che sono le università, ad andare sa visitare gli accampamenti e gli insediamenti a vedere con i loro occhi perché spesso l’informazione che passa attraverso i media è totalmente sbagliata. I mezzi di comunicazione sono in mano a un piccolo gruppo di persone. Per loro va più o meno bene così, ci sono alcuni eccessi, ma il sistema funziona. Tuttavia la maggior parte degli abitanti del pianeta vive duramente e affronta situazioni molto difficili.
Io non fotografo i miserabili. Fotografo persone che hanno meno risorse, meno beni materiali. Ho visto spesso la miseria in paesi ricchissimi. Per me miserabile è quello che non fa più parte di una comunità, che è isolato e che ha perso la speranza. Ho incontrato molta gente affamata. Non erano miserabili perché appartenevano a una comunità, credevano in qualcosa. L’unico modo in cui le persone possono resistere, nella situazione difficile in cui si trovano, è credere nella comunità.
Sono stato al funerale delle vittime di Eldorado dos Carajás nel 1996. Al momento del funerale erano già tre o quattro giorni che eravamo lì, mentre la comunità piangeva i suoi morti. Loro erano morti, ma non erano soli. Erano circondati dalla comunità per la quale erano morti. Secondo me non sono morti nella miseria. Sono morti lottando per qualcosa… Ho visto la mancanza di abitazioni, di acqua, di fogne, alla violenza contro i bambini e gli adolescenti, contro i bambini di strada. Posso dire che ho visto qui la peggiore miseria del mondo”19. La fotografia di Salgado è quel capolavoro del pensiero grazie al quale la fotografia risplende e sanguina di verità, di bellezza e di giustizia.
Va detto. Sull’autocrazia delle nuove tecnologie/mediocrazie del terzo millennio occorrerebbe aprire qui un capitolo più ragionato che non riteniamo aggiunga altro da quanto abbiamo espresso nel nostro studio sul linguaggio della fotografia sociale e nel quale la visione umanitaria di Sebastião Salgado è configurata come bellezza e giustizia, speranza e dissenso della condizione umana20. Non siamo contrari alla nascita di nuovi linguaggi né celebriamo i randagi della fotografia d’impegno civile, inutilmente. Così guardiamo con attenzione la nascita della fotografia digitale… fino a riderne di tanta superficialità, entusiasmo e auto-consacrazione. I dibattiti sulle riviste specializzate, la pubblicazione di manuali d’uso, le mostre sulla fotografia numerica (o digitale) si allargano a ritmi incalzanti. Frotte di storici, critici, fotografi… si fanno sotto e cercano di prendere al volo il messaggio semplificato dei costruttori di fotocamere, dei galleristi rampanti, dei falliti senza rimedio, delle masse proletarie che credono di trovare l’arte nel mezzo. Vero niente. La legge del mercato è la legge del più furbo. Ciò che conta è la merce. I mercanti sono senza tempo… l’inverno della conoscenza passa dall’utilitarismo, dal possesso, dal profitto… la sopraffazione del consumo prende il sopravvento, ma “gli dèi su cui si fonda la vita economica sono inevitabilmente geni del male” (John Maynard Keynes, padre della macroeconomia, citato nello straordinario manifesto sull’utilità dell’inutile di Nuccio Ordine)21. L’asinità generale blocca la mente degli uomini e l’importanza della libertà individuale e il pensiero critico sono i soli utensili con i quali scardinare le politiche, le economie e i razzismi sui quali poggia la dittatura dell’immaginario.
L’arte non c’entra nella fotografia digitale come in quella analogica. La fotografia che conta (non importa con quale grimaldello viene fatta) è quella che rigetta l’immaginario mercantile della società omologata. Non si tratta di elaborare la fotografia del rifiuto ma proprio di rifiutare la fotografia come arte o fenomeno da baraccone multimediale. Com’è noto anche ai cani da guardia dei servizi segreti, non c’è superamento dell’arte senza realizzazione di sé e non si può superare l’arte senza realizzarla e renderla innocua o venderla al migliore offerente.
L’avevano compreso bene i nazisti. Quando si accorsero che ammazzare a fucilate migliaia di ebrei al giorno, abbassava il morale dei soldati e qualcuno andava fuori di testa in mezzo a quel mattatoio… pensarono ad altre soluzioni (più pratiche) per eliminare i “quasi adatti” (ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti) dall’Europa uncinata. In principio fu il biossido di carbonio. Lo facevano passare dalle caldaie alle docce e i mucchi di cadaveri ignudi, diventavano tutti rosa. Sembrava dormissero in un prato di primule. Poi allestirono i forni crematori e con l’ausilio dello Ziklon-B, un farmaco per uccidere i parassiti, passarono per i camini dei campi di sterminio più illustri, oltre sei milioni di anime. Dio era con loro22. Per fortuna nostra, anche la fotografia, il cinema e i racconti dei superstiti. Per non dimenticare, i mezzi erano tutti buoni. Se poi l’uomo ha continuato a usare il genocidio per questioni religiose, economiche o politiche, questo si deve ricercare nei dividendi delle multinazionali del crimine e nei deliri colonialisti dei Paesi evoluti. Gli stessi che fabbricano i prodotti di cultura di massa, offendono la bellezza del Pianeta azzurro e lo uccidono nella disastri delle foreste, dei mari e dei cieli. Cancellano dalla faccia della terra interi popoli per un po’ di petrolio, un po’ d’oro e un po’ di diamanti… ma dai diamanti non nasce niente è dalla merda che nascono i fiori, diceva il poeta (Fabrizio De Andrè). Il passaggio dal mondo dell’analogico all’universo del digitale ha raggiunto livelli di perfezione che nemmeno il boia di Londra si augurava. La “rivoluzione espressiva” di questa fotografia digitale è di quelle forti, quanto quella (che nel passato) ha visto la fotografia fatta, stampata e diffusa in milioni di copie e realizzata anche dall’ultimo degli imbecilli o dal primo dei geni. La contaminazione dei colori non c’entra e nemmeno la libertà creativa dell’uomo della strada, c’entra. Un occhio poetico, uno sguardo particolare, una passione amorosa trabocca in ogni forma di comunicazione. L’industria delle immagini non teme confronti. Fotografia, cinema, telefonini, televisione, radio, carta stampata, sedie elettriche, bombe intelligenti, fucili automatici, perfino giocattoli per bambini… sono ormai strumenti che realizzano immagini digitali. Ciò che non possono ri/produrre (né ieri, né oggi, né mai)… è l’intelligenza di chi si trova nelle mani un attrezzo con il quale comunicare la bellezza o il dolore di un’epoca. Alla mano che accarezza e premia, succede il colpo del fucile in bocca, sempre. L’umiliazione sociale alza i dividendi delle aziende e lascia gli stupidi a contare i voti elettorali.
Nell’iconografia antropologica di Salgado, che si tratti di gente immiserita, di lavoratori del petrolio, di cercatori d’oro, di animali che fuggono all’uccisione, di luoghi che stanno perdendo la loro sacralità… c’è la stessa fulgurazione figurativa della bellezza come giustizia che Pasolini ha seminato nel suo cinema di poesia23… un’apparizione sacrale che costituisce un etimo spirituale che amalgama l’antropologico col sentimento d’una realtà creaturale del mondo. A sfogliare le immagini poetiche/spirituali di Salgado, restiamo abbacinati da tanta compostezza emotiva, dal valore d’uso della tecnica, dalla pregevolezza figurativa che sono al fondo dell’architettura fotografica… le sue icone non chiedono chi siete né da quale luogo provenite né dove andate… poiché quando le ferite dell’uomo sanguinano di fratellanza, comunanza, tutte le ferite della Terra fioriscono anche nella perduta gente.
La figuratività poetica di Salgado non è naturalistica né veristica, tantomeno neo-realistica… è la costruzione della verità come legame tra significato e figurazione (e superamento della copia) a compimento di un legame profondo con la dimensione storica e concreta della realtà24. Nel regesto poetico pasoliniano, come nella figuratività poetica di Salgado, sussiste una polifonia o una costellazione o un realismo creaturale con cui la realtà è folgorata nel carattere della parola/immagine e nell’accostamento radicale di due universi c’è l’invito a prendere coscienza della libertà calpestata dalla storia… è la scoperta dell’altro che è in me, in te, in noi, in tutti quelli che non si rifugiano nel silenzio, nell’insensibilità o nella complicità con i genieri del male… gli emarginati, gli esclusi, i perseguitati che alzano il capo e dicono la mia parola è no!… ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo non sarebbe capace di sopravvivere nemmeno per un minuto di fronte a un popolo che chiede — con ogni mezzo utile — la sua liberazione.
L’interpretazione figurale della realtà di Salgado s’innesta nell’impronta, financo allegorica, del fotografato e ne ravvisa i significati profondi, diversi da ciò che sovente ricerca il reportage di guerra o di cronaca o fatto apposta per i citrulli della scatola televisiva… perfino gli imbecilli lo sanno, anche se ne fanno parte integrante: ogni sistema è totalitario ed è sempre la voce, il tuono e la frusta di un capo, un controllore, un aguzzino che ne suggerisce l’immagine… il potere è una gran brutta cosa, meglio non averci a che fare… è terribile che un fotografo (o un qualsiasi artista o un politico o un assassino) riesca a diventare celebre… è come portare un saio, un’uniforme o il grembiule da macellaio… meglio farsi cittadini di nessun luogo… parlare una lingua da ubriachi e dare fuoco ai castelli durante l’ora del tè… gli imbecilli non hanno scampo… o entrano in politica o, quando gli va bene, fanno i fotografi… diventano esperti in prostituzione e vassallaggio, la politica o la fotografia non c’entrano… c’entrano i soldi… a che servono sennò i partiti o l’industria culturale se non a generare folle d’imbecilli che non hanno da esibire che la loro indecenza intellettuale… hanno ucciso Dostoevskij perché credevano che l’ortografia de I demòni 25 fosse quella di un ignorante e non di un sovversivo che non voleva convincere né convertire… siccome non amiamo dimostrare nulla se non l’impossibilità di essere normali, non vale la pena insistere sui cimiteri del progresso… lasciamolo fare ai professori… in fondo il mio desiderio più intimo, più grande, è sempre stato quello di vincere a boccette.
L’interpretazione figurale della realtà di Salgado stabilisce un ponte tra fotografo e fotografato e quello che ne sortisce non significa soltanto l’opera compiuta di se stesso ma il completamento poetico del vero che l’altro depone nella sua fotocamera… nella fotografia magica di Salgado si realizza qualcosa che ha a che fare con il figurale nella letteratura di Erich Auerbach26, il figurale fantastico di Italo Calvino27 o, con quello che ci sembra più appropriato per la nostra lettura agnostica, il figurale dionisiaco di Nietzsche: “Ciò che è dionisiaco viene contrapposto nel pensiero come un ordine superiore del mondo a un ordine volgare e dappoco: il Greco voleva una fuga assoluta da questo mondo della colpa e del destino. Difficilmente si dava pace con un mondo dopo la morte: la sua brama andava più in alto, al di là degli dèi; egli negava l’esistenza assieme al suo variopinto, luccicante rispecchiamento negli dèi. Nella consapevolezza del risveglio dall’ebbrezza, egli vede ovunque l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza umana. Ciò gli dà la nausea. Ora egli comprende la sapienza del dio silvano”28. La figurazione dionisiaca del mondo di Salgado è un’interrogazione della vita offesa29 e si fonda sulla verità e sulla menzogna che imperano nei disegni del profitto, dell’utilitarismo e della violenza governata. Il rizomario fotografico di Salgado agisce sulla memoria, sostituisce il fantasma del delitto con la memoria viva dell’ucciso… mostra la differenza tra apparire ed esistere… presentifica un’immagine del dolore che non informa soltanto ma che comporta anche un giudizio su chi l’ha procurato quel dolore… qui la fotografia cessa di essere ciò che si vuole che sia (obbediente, servile, manichea) e diventa ciò che si accoglie nel cuore (disobbediente, insubordinata, eversiva)… la fotografia non è buona né cattiva, è il modo in cui viene utilizzata che la rende una puttana da quattro soldi o un’incendiaria della Comune di Parigi che chiedeva — con l’alfabeto che conosceva — aurore di una società tra liberi e uguali.
La fotografia è una merce che si configura con i dettati della politica, dell’industria e della cultura… il destinatario è un cliente che consuma immagini/notizie come un credente l’ostia… la fotografia (come ogni arnese del comunicare) standardizza i bisogni, condiziona i desideri, ri/ produce minorati mentali che fanno bella figura nell’alienazione attuale… la tecnologia dispone sovranamente dei loro sogni, l’iconomania (Günther Anders)30 impera nella riproduzione dell’insignificanza e l’uomo nella sua non-identificazione si è autoridotto a cosa… ma non è la filosofia del fanciullo, è quella dello scemo… il fanciullo gioca a rompere anche il giocattolo più bello (per vedere com’è fatto dentro), lo scemo lo adora e lo colleziona sull’altare della merce (ed è impressionante constatare il numero d’imbecilli che credono nelle mutande Armani come elevazione di classe)!… è deplorevole aderire ai fasti di nazioni, governi, popoli che erigono la propria protervia sull’imperio delle guerre, delle banche, delle politiche di etnocidio… a che pro ascoltare Mozart, se basta uno scemo della musica, del cinema, della fotografia, dello sport o del giornalismo televisivo… per salmodiare gli dèi della disumanità senza ritorno a una vita più giusta e più umana.
A proposito delle fotografie di Salgado, nel volume Un incerto stato di grazia, Eduardo Galeano scrive: “Queste fotografie, questi emblemi di tragica grandiosità, sono forse rilievi scolpiti nella roccia o nel legno da un artista in preda alla disperazione? Lo scultore era fotografo? O era Dio? O il Diavolo? O la realtà terrena?
Una cosa comunque è certa: sarebbe difficile guardare queste figure restando indifferenti. Non posso immaginare che qualcuno si limiti ad alzare le spalle, volgendo altrove lo sguardo, e se ne vada via fischiettando… La fame assomiglia all’uomo che questa stessa fame sta uccidendo. L’uomo assomiglia all’albero che sta abbattendo. Gli alberi hanno braccia, le persone hanno rami. Corpi rugosi, nodosi: alberi fatti d’ossa, gente di radici e nodi che si prosciugano al sole. Alberi e persone, senza età. Tutti nati migliaia di anni fa: chi sa dire quanti? Eppure rimangono sempre in piedi, inspiegabilmente, sotto un cielo che li ha dimenticati”31. La fonte d’ineffabile bellezza nelle fotografie di Salgado, si trova e si riconosce nella loro dispiegata dignità e rispetto dei ritrattati. Salgado non esibisce la povertà, l’afferma come ingiusta e rivendica il diritto all’identità di un uomo come di un popolo. Bella la storiella che racconta Galeano sulla povertà e dell’uomo che ne fece una ricchezza: “In Andalusia mi raccontarono una volta di un pescatore poverissimo che vendeva conchiglie offrendole in un cestino, di casa in casa. Quel povero pescatore si rifiutò di vendere le sue conchiglie a un giovanotto che glie le aveva chieste tutte, offrendogli qualsiasi somma avesse preteso: il pescatore non volle sapere di venderle, per la semplice ragione che aveva preso in antipatia il giovanotto. Gli rispose semplicemente: Io sono il padrone della mia fame”. Dove il pensiero mercantile ha seminato la libertà di consumare senza pudore né vergogna, non nasce altro che l’infamia della sua tirannide.
La figuratività poetica di Salgado ha pochi eguali nella storia della fotografia… gli sguardi, i volti, i corpi che il fotografo brasiliano coglie all’incrocio dei venti in tempesta della modernità liquida32, spingono alla collera, anche… sono immagini di tenerezze infinite disseminate d’addii… luoghi di una bellezza infranta o in prossimità di rompersi che ci attraversano la pelle… frammenti di una vivenza che attende il pericolo, quando non lo subisce. Un popolo, da lontano è un popolo, da vicino è sovente un niente attaccato a una rimanenza di dignità. Il futuro è il tempo della finanza, della politica, delle chiese, delle guerre, delle colonizzazioni, degli eccidi di popoli immiseriti… il passato è il tempo calpestato dell’uomo ridotto in catene o che si alza e le spezza!… Ogni fotografia di Salgado non racconta solo la storia, l’evento, il momento in cui il fotografo si trova a scattare quell’immagine… è la scoperta dell’altro che è in me… è l’imago dell’inconosciuto che sale i gradini dei nostri terrori… è l’erede della libertà esiliata, orfana, errante, massacrata… che abbraccia chi l’abbraccia e va oltre la linea permessa… è la frantumazione d’ogni sofferenza e al contempo la sua fioritura che la cancella… la fotografia — alla medesima stregua degli angeli ribelli — muore quando non ha le ali spiegate nel vento della libertà e nel profondo di ogni grande fotografia c’è una visione libertaria che inventa un segno, un vocabolo, un sogno che si trasforma in rivoluzione dell’umano nell’uomo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte giugno, 2025
“La fotografia è molto più del semplice scattare foto: è uno stile di vita. È quello che senti, quello che vuoi esprimere, è la tua ideologia e la tua etica. È un linguaggio che ti permette di cavalcare l’onda della storia (…) La fotografia è profondamente soggettiva. È il mio modo di vedere: le mie immagini nascono dalle mie idee politiche e ispirazioni ideologiche (…) Quando [immortali] una storia, deve essere la tua storia, la tua scelta. Devi identificarti completamente con la tua storia, instaurare pazientemente una relazione con il soggetto che stai riprendendo (…) Lavoro insieme a un partner d’eccezione: mia moglie. La cosa più importante della mia vita è il giorno in cui ho conosciuto mia moglie, nel 1964. Da allora, abbiamo analizzato e discusso insieme ogni storia che ho fotografato. Abbiamo condiviso le stesse motivazioni etiche e politiche che hanno dato vita alle mie storie”.
1 Jorge Amado, Teresa Batista stanca di guerra, Einaudi, 1976. Dorival Caymmi, musicista e cantante brasiliano, canta Tereza così (su testo di Amado): “Mi chiamo siá Teresa/E olezzo di rosmarino/Metti zucchero in bocca/se vuoi parlare di me./Un fiore tra i capelli/Un fiore sul tuo scrigno/Mare e rio”.
2 Paul Henry Thiry d’Holbach, Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei Cortigiani, Il Nuovo Melangolo, 2009
3 Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, Raffaelo Cortina Editore, 1991
4 Luciano Rossi, L’ultima notte, stampato in proprio, 2024
5 Giulio Giorello, Di nessuna chiesa, Raffaello Cortina Editore, 2005
6 Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, Frassinelli, 1999
7 George Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, 2000
8 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 2 volumi, Einaudi, 2006
9 Zygmunt Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, 2011
10 Sebastião Salgado,“100 foto per difendere la libertà di stampa” (dalla prefazione e per la promozione in Italia di Reporters sans frontières), EGA-Edizioni Gruppo Abele, 1996.
11 Sebastião Salgado, Workers. La mano dell’uomo, Contrasto 1993
12 Moni Ovadia, Madre dignità, Einaudi, 2012
13 Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui, Raffaello Cortina Editore, 2006
14 August Sander, Uomini del XX secolo. Ritartti 1892-1952, Motta, 1991
15 Oliviero Toscani, Razza umana (a cura di Achille Bonino Oliva), Marte Editrice, 2012
16 Internationale Situationniste, La critica del linguaggio come linguaggio della critica, Nautilus, 1992
17 Guy Debord, I situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica e nell’arte, Nautilus, 1990.
18 Sebastião Salgado, Workers. La mano dell’uomo, Contrasto 1993
19 Si tratta di una mostra di Sebastião Salgado a Castagneto Carducci, forse nel 2005, non ricordo bene… nello spazio accanto c’era la mia mostra Contro la guerra. Ritratti dall’infanzia negata (che uscirà in volume a cura di Francesco Mazza, per l’Associazione Suoni&Luci nel 2019). Mi sono più volte commosso davanti alle sue possenti immagini… due delle quali sono attaccate nel corridoio della casa dove vivo con Paola, che trema d’amore per la cultura magica latinoamericana, e ogni mattina le guardo e mando un bacio al maestro.
20 Pino Bertelli, Della fotografia situazionista. Storia ereticale della fotografia sociale. Sulle scritture e i simulacri fotografici della civiltà dello spettacolo nell’epoca della simulazione e dell’impostura. Critica radicale del linguaggio iconologico come linguaggio politico religioso e artistico mercantile, La città del sole, 2004
21 Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto, Bompiani, 2013
22 Pino Bertelli, Sulla fotografia della Shoah. L’iconologia dell’orrore nei campi di sterminio nazisti, Duro Edizioni, 2025
23 Pino Bertelli, Pier Paolo Pasolini. Il cinema in corpo. Atti impuri di un eretico, Libreria Croce, 2001
24 Pier Paolo Pasolini, La divina mimesis, Einaudi, 1975
25 Fëdor Dostoevskij, I demòni, Einaudi, 2024
26 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, 2 volumi, Einaudi, 1988
27 Italo Calvino, Il Visconte Dimezzato, Einaudi, 1952; Il Barone Rampante, Einaudi, 1957; Il Cavaliere Inesistente, Einaudi, 1959
28 Friedrich Nietzsche, Tutto sarà allora Dioniso. La visione del mondo dionisiaca. Su verità e menzogna, Bompiani, 2023
29 Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, 2015
32 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, 1999