“Perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza;
ma a chiunque non ha, gli sarà tolto anche quello che ha”.
Matteo 13
Sulla fotografia dell’indegnità
La fotografia è nata da un Dio ubriaco di mercantilismo… in principio sollazza la noia della bella borghesia di metà ‘800, poco dopo, l’effluvio fotografico o l’industrializzazione della fotografia inizia a serpeggiare tra le folle… re, regine, nobiltà, politici e artisti… furono affiancati dalle immagini di viaggi, architetture urbane, memorie familiari, povertà delle periferie, guerre e carneficine… le “cassette magiche” furono sostituite dalle piccole fotocamere 35 mm e finalmente anche il popolo poteva possedere uno strumento al quale bastava schiacciare un bottone per impressionare la realtà della vita quotidiana… è vero, la fotocamera è uno strumento capace di catturare l’immagine, di crearla, di intrecciare tempo, luce e spazio, diceva Walter Benjamin (da qualche parte), per esprimere una poetica o una narrazione della storia dell’uomo e dei suoi tradimenti, anche. Tutta la fotografia a venire precorre la conoscenza e la coscienza popolare, e la significazione più profonda dell’immaginale fotografico, in massima parte, rispecchia o innalza le apparenze al livello di uno stile, che è quello dell’industria culturale.
Certo, ci sono stati e ci saranno sempre i “fuori gioco” dell’immagine fotografica, più o meno celebrati o recuperati dai cortigiani della civiltà dello spettacolo… irriducibili ad ogni forma di soggezione o ribelli agli inganni del privilegio… tuttavia, c’è più distanza tra un poeta disconosciuto della fotografia e un mito costruito ad arte, che fra una stella e uno sputo, diceva… la fotografia è un’affabulazione dei nostri eccessi, delle nostre dismisure e sregolatezze, o non è niente… solo una malattia culturale, paludata di speranze senza nudità primordiali! Un mattone dell’edificio delle lusinghe costruito sul discredito, il sarcasmo e il supplizio… o l’enorme bacino della vocazione spirituale della fotografia che passa dai lupanari delle folle e cimiteri delle definizioni! Poiché ogni immagine è il riflesso o l’impronta di un’ordine supremo o un pretesto di pietà sul dolore immutabile d’ogni epoca, solo la fotografia in amore che si oppone alla farsa vertiginosa dei domani prescritti, solleva l’anima da ogni idea di verità che non contenga l’insurrezione dell’intelligenza. La fotografia insegnata tormenta soltanto assassini, santi e tutti quelli che dicono la “mia fotografia è arte”, senza fare dell’arte la gioia di vivere fra liberi e uguali.
Merda! puttanaccia la miseria!… corpo di un cristaccio morto (sempre troppo tardi)!… che il diavolo se lo porti!… insieme alla masnada di canaglie che lo adorano!… alla pretaglia senza regalità e alla nobiltà dell’odio affinato!… tutti al macello!… con i saprofiti del sapere!… buoni loro!… fedeli servitori di ogni potere!… in ogni epoca!… poliziotti dell’intelligenza!… adulatori di forche!… arlecchini di molti padroni!… alla garrotta!… senza lacrime!… in pasto ai cani randagi… l’appellativo di ribelle a tutto!… senza dio né patria!… è l’insulto più elogiativo che si possa rivolgere a un uomo in rivolta!
L’indignazione universale passa dalla coscienza insorta e della conoscenza che gli uomini di potere sono validi solo il giorno in cui pendono dalle loro stesse forche!… battuta di spirito (ma non troppo): nell’immaginario di un padrone si cela un’anima di assassino. È sempre quello che detestiamo a qualificarci!… lo sanno perfino i ritardati mentali! “Quando incontriamo un essere vero, la sorpresa è tale che ci chiediamo se siamo vittime di un abbaglio” (E.M. Cioran) o comparse in un banale film da Oscar alla Spielberg o Tarantino o Benigni…. lo scoramento è sapere che l’ottimismo è una mania degli imbecilli e la speranza il postribolo degli agonizzanti. Meglio l’utopia!… che è l’arte del ribaltamento di prospettiva!… almeno sappiamo contro chi sputare!… bisognerebbe essere nel partito dei deficienti per credere che l’arroganza della finanza, la corruzione della politica o le armature della fede possano portare a qualcosa di buono!… allora tabula rasa!… prima sarà!… meglio è!… l’amore dell’uomo per l’uomo insegue il profumo di libertà e di giustizia sul filo dei secoli!… e solo i bambini, i poeti e i folli sanno che la bellezza coincide col cammino che porta dalla rivoluzione dell’umano nell’uomo.
Il fotografo senza patria s’intrattiene più col barbone che ascolta Mozart che con Dio… poiché conosce l’orgoglio di non governare mai, di non disporre di niente e di nessuno… non ha sottoposti né padroni! Non detta leggi né riceve ordini! Sa che c’è un macellaio e un santo in ogni fotografo e in una mescolanza tra grazia e imbecillità, degrada la bellezza e la giustizia che contiene la fotografia, al ballo mascherato della celebrità! Il segreto dei fotografi moralisti è quello di non avere nessuna morale, che non sia quella che aspira alla salvazione della propria operetta benificata… forse è per questo che stimo di più un prete che s’impicca di un fotografo vivo!
È la fotografia dell’indegnità mercantile che tradisce la vita quotidiana e la fotografia stessa, invece di rendere la vergogna del potere ancora più vergognosa… gli ultimi, gli esclusi, gli sconfitti… porco boia!… l’abbiamo gridato cento!… mille volte!… cadono in fotografia come i Comunardi sulle barricate di Parigi!… il mondo comincia e finisce con loro!… per la miseria!… e i fotografi?… i fotografi fissano il loro assassinio in bella posa per la storia dei vincitori!… bella roba!… la fotografia che vale non ha bisogno di martiri!… né di eroi!… tantomeno di gente che fa della fotografia una sommatoria del miserabilismo o dell’edonismo da galleria. I diseredati hanno diritto alla dignità (calpestata dai governi) e non dello spettacolo decadente che deterge millenni di soprusi invendicati!… applicare la fotografia come crocifissione e resuscita del delitto di indiscrezione, è come riprodurre i ferri dei dominatori e infierire su chi ha come primo pensiero del mattino — non morire per fame o in qualche guerra sostenuta dai governanti dello spettacolare integrato —… si può essere fieri di ciò che si è fotografato, ma si dovrebbe esserlo molto di più di ciò che abbiamo contribuito a smascherare. Anche la fotografia sociale è da reinventare.
La fotografia può esistere senza la realtà, ma non senza la possibilità della realtà… al culmine dell’indecenza una sola immagine riuscita vale più di tutto il sapere fotografico… il resto è comunicazione abortita!… roba da dizionario per rincitrulliti dell’impero dei media!… sozzura patinata!… megalomania dell’impotenza!… che schiattino i fotografi senza utopie!… al macero tutti!… insieme alle loro immagini da boudoir!… ci si può immaginare un fotografo che non abbia in corpo la voglia di ammazzare, prima di fotografare?… c’è sempre un premio internazionale che lo abilita all’assassinio!… è sempre quello contro cui ci scagliamo o assolviamo a qualificarci briganti o coglioni!… la fotografia, va detto!… esprime la magia del disinganno o è parte del firmamento dell’ipocrisia!… sbarazzarsi della fotografia, ad ogni livello o stadio di putrefazione estetica, significa non privarsi del piacere di mostrare la sua ridicolezza!… fotografi, critici, storici, addetti alla manutenzione mercantile della fotografia… confondono debitamente il genio col cretinismo, senza sapere mai che la bellezza della fotografia sta in ciò che c’è di più arcaico e vitale nell’intera umanità, la rivolta.
Gli dèi di ogni arte, di ogni fede, di ogni politica sono sempre all’erta… vivono nel terrore di essere declassati a piccoli uomini quali sono!… costruiscono mitologie e rancori ordinari perché non sanno nemmeno accendere il fuoco di una stufa! né acquistare il biglietto di un treno o deporre una rosa rossa sui maglioni inzuppati di sangue delle giovani generazioni che nel passato — come oggi — hanno osato assaltare il cielo spento dei potenti… e fatto dell’utopia incendiaria i migliori anni della loro vita.
Il disgusto per ogni potere è un sintomo di salute!… una condizione necessaria per andare al di là dei propri singhiozzi… fare della propria esistenza ereticale un’opera d’arte. Mai il potere si è stimato così tanto!… mai l’arte è stata così asservita!… mai la stupidità (specie quella elettorale) è stata così diffusa!… è così che si creano i destini!… i fuori gioco non meritano desideri!… solo miseria, centri commerciali e bombe!… il Nobel per la pace la vecchia Europa se lo merita proprio!… il traffico d’armi, della droga, dei diamanti, dell’acqua, i colpi di Stato della finanza internazionale… passano da qui! (benedetti dalla bandiera a stelle strisce di Wall Street)… le democrazie parassitarie si sostengono bene!… come i regimi comunisti!… esistono finché dura il sostegno degli schiavi che hanno allevato!… come per dio!… finché dura la stupidità della grazia e della vita eterna.
Al fascino dell’adulazione politica e al fervore ottimista degli eruditi, preferiamo di gran lunga la compagnia dei quasi adatti”, ubriachi o folli… perché non vogliono avere ad ogni costo dei discepoli… i ricchi, i militari, i governi promuovono le guerre, i popoli le subiscono… i profili dei malvagi sono sempre gli stessi… gloria, onorabilità, decoro sono l’idolatria delle codificazioni che autorizzano le carneficine della civiltà… “a che pro frequentare Platone, quando basta un sassofono a farci intravedere un altro mondo?” (E.M. Cioran)1. Anche la fotografia senza compassione né malinconia si afferra alle nefandezze del passato o alle buffonerie del futuro…la fotografia che si avvicina alla verità è superiore sia alla verità che alla fotografia. La fotografia, quando è grande, esprime il ritratto di un’epoca.
Sulla fotografia della vita quotidiana
Tenera è la fotografa… quando incita gli uomini della terra a ribellarsi contro un sistema che ogni giorno offende la dignità… lo sguardo autentico della fotografia sorge ancora dove la vita quotidiana è trattata con amore, compassione e il coraggio necessario per congedarsi dal feudalesimo culturale e le forze finanziare che lo sostengono… spesso storici, critici, galleristi si avvedono trent’anni dopo della grandezza poetica di un fotografo e cercano di imbalsamarlo nel catramaio mercantile… i poeti di ogni arte, tuttavia, sanno che il pane si spezza, non si taglia!… ed è per questo che la loro creatività s’ispira al vissuto, al sogno e alla disinvoltura… come l’immensa opera di Vivian Maier. Il fatto è che, in fondo, le sue immagini (come per i grandi corsari della fotografia) rimangono sempre da qualche parte nell’infanzia dove hanno giocato con spade di legno e lì ritornano e contengono il sale del vero e d’eternità.
Un’annotazione necessaria per i saccenti e i prosseneti dei dizionari: Vivian Maier nasce nel 1926 a New York, cresce in Francia e dopo il ritorno negli Stati Uniti lavora come bambinaia per quasi quaranta anni a Chicago. Si sa poco di lei… nulla del suo percorso di studi… impara la lingua a teatro… fino al 2007 il suo lavoro fotografico resta sconosciuto… ciò che sappiamo è che nel 2007, all’età di 81 anni, non potendo sopravvivere fu costretta a cedere la maggior parte delle sue proprietà a un fondo d’asta. Questa “dilettante” della fotografia di strada, lascia a un “rigattiere” circa centomila fotografie (mai pubblicate né viste)… nel 2009 un ragazzo ventiseienne, agente immobiliare, John Maloof, incuriosito da quelle scatole piene di migliaia e migliaia di fotografie ne compra circa trentamila e si accorge presto di essere di fronte a un talento innato, così contatta altri compratori delle immagini e mette insieme l’intera l’opera della fotografa (negativi, stampe, filmati, cassette d’interviste audio, macchine fotografiche, documenti appartenuti alla Maier)…. sborsa meno di 400 dollari per il patrimonio fotografico della Maier… cerca informazioni su questa misteriosa fotografa… tutto ciò che riesce a trovare è un trafiletto su un giornale che annunciava la sua scomparsa… avvenuta a Chicago (per una caduta sul ghiaccio) nel 2009, all’età di 83 anni2. Il ragazzo è sveglio… fiuta l’imbalsamazione mitologica e fa la sua fortuna. Seguiranno pubblicazioni, mostre, documentari… tutti all’insegna della “scoperta sensazionale” o in odore di santità… vero niente… la fotografia della Maier, quella in bianco e nero, specialmente… contiene l’abisso e la salvezza del “luogo comune”, e mai avrebbe ricevuto tante incoronazioni se non fosse stata abilmente spremuta fino all’estremo da abili mercanti di sogni.
Ciò che resta di questa persona singolare, malinconica, solitaria sono le fotografie di una vita (per la maggior parte scattate con una Rolleiflex) e in gran parte non ancora sviluppate… di lì a poco anche i ciechi e sordomuti della critica sentenziano che ci troviamo di fronte a un genio della street photography (che non ha nulla da invidiare ai certi blasonati maestri della fotografia del letame profumato d’incenso, come Alfred Stieglitz). Va detto. Abbiamo talmente ascoltato, visto, letto che siamo nauseati del genio in fotografia e dappertutto dove si fa professione di pensare… troppi esteti o esegeti della street photography hanno dissertato su ciò che non conoscevano… è tempo di ristabilire la grandezza della fotografia diretta e lo straordinario nell’ordinario della vita quotidiana.
Vivian Maier… la tata, la colf, la serva delle famiglie della media borghesia americana, nei ritagli di tempo, tra un culetto di bambini da pulire, rassettare la stanza, comprare i giornali del mattino ai suoi datori di lavoro… si aggirava con una Rolleiflex nelle strade delle città (soprattutto a New York e Chicago) e con l’amorevolezza e quel tanto di cinica ironia (che avrebbe fatto bene perfino all’ultimo finanziere che si è impiccato per il crollo delle azioni in Borsa) riusciva a cogliere valori e disvalori della dolente umanità che fermava nella sua fotocamera… le sue immagini del quotidiano non aderiscono che alla pelle di coloro ai quali la lebbra del successo non s’attacca. I veri poeti di ogni espressione artistica sono sempre misconosciuti3. Quando vengono idolatrati, sono morti.
A leggere con attenzione la fotovita della Maier restiamo abbagliati di tanta completezza formale, della sapienza tecnica, della forza estetica/etica che le sue immagini contengono (anche quelle sgrammaticate)… bambini che giocano sui marciapiedi, giovani innamorati, neri di “buona famiglia”, bianchi ricchi, poveri ubriachi, star del cinema, gente delle periferie urbane… vanno a costruire un rizomario del vissuto quotidiano al di là del bene e del male…figurano un’atlante di persone amate (i bambini, gli indifesi) o respinte (gli arricchiti, i potenti), inconsapevoli della propria bellezza o derisione, e del loro debutto sul palcoscenico della strada.
In ogni fotografia si coglie l’attenzione della Maier per i particolari, i corpi, gli atteggiamenti… una sorta di semplicità volontaria che contrasta o deterge l’emersione della produzione di massa e del mercato che già ai suoi tempi griffava l’esistenza (non solo) degli americani… le sue fotografie sembrano dire che i rapporti tra gli uomini, le donne o le forme di vita che li favoriscono, sono influenzati da un’aridità dei sentimenti affogati in una quotidianità affrettata e sempre più affollata nell’anomia… per estensione, non proprio arbitraria — dato che la Maier dicono (John Maloof) avesse inclinazioni socialiste, femministe o fuori dal conformismo del suo tempo —. La gioia, la tenerezza, la bellezza, la giustizia, la condivisione, l’accoglienza… che sono al fondo del suo fotografare… mostrano che la creatività non dipende dal possesso, tuttavia la semplicità volontaria non è abbastanza e allora nel corpus delle sue immagini vediamo emergere il risentimento e il desiderio delle cose negate… di più… un percorso di accesso ai non privilegiati o una forza di resistenza che ha la capacità di fronteggiare le incomprensioni e sostenere l’immaginazione verso nuovi desideri di vita sociale.
La messa a fuoco dell’iconografia della Maier taglia via le costellazioni della sociologia insegnata… le implicazioni culturali/politiche di Dorothea Lange, Lisette Model o Diane Arbus sono disseminate ovunque e la forza dello sguardo è il medesimo di queste maestre della fotografia insequestrabile… nelle scaturigini del fare-fotografia della Maier l’autentico parla per l’uomo, la donna, attraverso la ragione, l’intima fratellanza, l’amore e la fotografia costituisce un modo di pensare che, in quanto concezione dell’esistente, diviene l’essenza stessa di chi la pratica senza velature o censure mercantili. Compito del fotografo, infatti, è infrangere gli ostacoli del perbenismo e della benevolenza e ricondurre l’uomo, la donna a se stessi. È lo stupore del vero che sconfigge l’indifferenza e sono fotografie come quelle della Maier che danno schegge di verità e prospettive sterminate, e nell’intreccio di situazioni rovesciate si dischiudono ad epoche sconosciute.
Gli autoritratti (anche quelli a colori) della Maier ci appaiono ironici, anche troppo ricercati… simbolici… non proprio riusciti (come altre immagini che si perdono nel formalismo di oggetti, specchi, tende, linee, ombre, luci)… è altro che fa di questa fotografa di strada e della sua grandezza autoriale, un’eretica della fotografia d’impegno civile… pensiamo alla ritrattistica più diretta… una cartografia di volti, corpi, pezzi di vita quotidiana nei quali vediamo destini spezzati o difficoltà esistenziali dove la verità esige che si riconosca quel che è stato e ciò che sarà… la fotografia, quando procede libera e sovrana — sosteneva Walter Benjamin — ha un effetto distruttore e purificatore4 e si rende indipendente dalle convenzioni e dagli stili imposti… la fotografia così fatta contiene l’epifania del tempo e della storia e si configura in una fenomenologia dell’esistente come coscienza delle molteplicità, raccoglie la vivenza collettiva e libera dalla prigionia di questo mondo.
L’apparenza della totalità che la Maier rivela nelle sue fotografie è un profluvio di asserzioni immaginali ricche di similitudini, allusioni, autoinganni, sviamenti… che vanno al di là dell’imperio delle leggi, codici, classificazioni… e una tale nobiltà d’animo porta fuori da noi stessi e si affranca al rispetto di ogni singola persona fotografata… la fotografia acquista consapevolezza di sé quando incontra il coraggio della speranza e ingenera la fine del dolore nella ricerca della felicità possibile. Quando si considera apolitica, la fotografia ha sempre un significato politico… la fotografia del vero è una costruzione della comunità nella libertà e respinge l’insolenza ripugnante della politica che si fonda sulla violenza. La politica domina su anime di schiavi e la fotografia può essere un utensile che denuncia o incrina i pretesi valori dei corruttori e degli affossatori della libertà.
Ad entrare nella serie dei contatti fotografici della Maier bene si apprende le intenzionalità creative della fotografa col cappello, di semplice eleganza vestita… le serie fotografiche sono la testimonianza di un acume espressivo da studiare con attenzione… la fotografa è parca, quasi ossessionata dalla ripetizione formale… la distanza tra ritrattati e autore è sempre la stessa… la Maier sembra scomparire di fronte ai soggetti trattati, tuttavia si sente la presenza di un intuito che accompagna i suoi scatti… non sono però fotosequenze… ma la ricostruzione di un evento quotidiano per “strappi”… dove la veridicità del momento si trascolora in comprensione e il bello, il brutto, il volgare o il regale sono imperativi di verità, di realtà significanti. Si fotografa per vivere o per meglio morire, il resto è prostituzione.
La fotografia della malinconia della Maier è una sorta di gioia raffinata… non appartiene a niente se non alla propria sensibilità esiliata ai bordi della realtà… non ha patria né identità che non sia l’atto del fotografare, testimoniare il vero che avanza… se non si possiede il senso dell’irrealtà del ludico si è cattivi fotografi e si perde il sentore di ciò che vive, di ciò che sente la soggettività del fotografo… ci si aggrappa disperatamente a una tecnica come a una fede e la seduzione di ciò che accade davanti alla fotocamera si colloca a fianco di un dio (senza eresia) che fa ridere perfino un visionario che vede nei falsi bisogni dei piaceri mercantili l’agorà della felicità. Il fatto è che la felicità si crea, non si paga, diceva. Dove la fotografia ha seminato la propria felicità mercantile non spunta più che la sua tirannia.
Va detto. La fotografia a colori della Maier non è che ci attanaglia molto… anzi per nulla… figure, ombre, riflessi, posture, dettagli… sono indicizzati sui gialli, marroni, rossi, verdi… e gli accostamenti sono piuttosto elementari… anche la distanza tra fotografo e ritrattati cambia… l’immagine diventa più descrittiva… la significazione estetica prevale sul contenuto e di un nero che vende palloncini sui marciapiedi della metropoli, si vedono più i palloncini che la sua povertà. Anche il ritratto della donna col cappotto, il cappellino rosso e le labbra verniciate di rosso, sovrapposta a una striscia gialla, sembra quasi un manichino… non c’è l’atmosfera dell’accadere o dell’incontro, nemmeno l’incedere della stupefazione. La signora borghese con gli occhiali, il visone, i guanti bianchi e il cappello viola… lascia trasparire una sorta d’involontaria o ingenua trascrizione della scelta fotografica… l’immagine è sovraccarica di segni… la donna sulla destra, due donne dietro (di ceto diverso) e il cielo bianco che piomba sull’intera inquadratura, la relega a poco più di un’allusione di classe… e gonne, calze, scarpe, cappelli, fiori, borse, forme vagamente impressioniste… tutto un inventario di colori più o meno tinteggiati… sovrastano o si annettono l’esteriorità del momento e non ne tracciano o non acquisiscono l’imperfezione o il contenuto della vita come percorso di tentazioni e di vertigini. L’uso del grand’angolo, del taglio trasversale, di geometrie condizionate a corpi in movimento… risentono di un certa disarticolazione del visivo che resta in margine al discorso fotografico.
La fotografia di strada non è una ricetta buona per tutte le pulsioni o velleità occasionali… è l’evidenza di un mistero o di una prossimità… la fotografia colta nel suo farsi testimonianza di un’esistenza o cancellazione di una presenza… è il passaggio all’interdetto o un abuso di neutralità… la fotografia si libera del suo linguaggio indicale, soltanto per l’uso che se ne fa! Quando opera uno spiazzamento radicale, la fotografia di strada assume il carattere d’uso sociale dell’immagine e rifonda quell’idea di fotografia che rinvia non tanto alla verità fotografica, quanto all’autorità che la sopprime.
Il potere autocertificante della fotografia non ha mai cessato di spostare la critica della memoria e della similitudine fuori dalla rappresentazione immediata, nella sua singolarità… e la post-fotografia dell’era digitale è l’apogeo dove il fotografico è svenduto a processi e culture generalizzate nella quantificazione di nozioni, tecniche, programm, post-produzioni… la fotografia di strada (fatta con qualsiasi strumento, anche con uno smartphone), si sostituisce all’affermato del linguaggio dominante, non per fissarlo o per meglio formularlo, ma, al contrario, per gioire della sua distruzione.
La fotografia della vita quotidiana fruga nelle ferite dell’esistenza, anzi deve allargarle o non è niente… a cosa serve la fotografia? ad imparare una tecnica o un delirio di consenso? no!… di certo!… per imparare le tre o quattro regole della fotografia basta andare a scuola dal primo imbecille che ha letto qualche libro e ha fatto un po’ di fotografie la domenica… la fotografia, io credo, deve essere davvero una ferita sanguinante nel corpo della società!… che può cambiare in qualche modo la vita dell’autore e del lettore… si tratta di lavorare a una filosofia del risveglio e alla fustigazione dei luoghi comuni… una fotografia che promuove l’esaltazione o la sacralità dell’immagine consumerista è una fotografia fallita! Si tratta di sabotare lo stile della fotografia accademica, attentare l’idea di fotografia come sistema che si erge sulla disuguaglianza sociale. È terribile che un fotografo riesca a diventare celebre!… a che serve un fotografo che per tutta la vita non ha mai turbato nessuno, men che meno se stesso? Non si discute la fotografia, la si esprime o la si brucia… lo sguardo offeso di un pazzo è più vero di tutte le glorie lebbrose dei fotografi con l’ossessione del monumento pubblico… almeno è protagonista dei propri eccessi e si tiene il genio nel cuore. Tutti i fotografi aureolati e quelli che ne soffrono il consenso — come i criminali realizzati — temono di essere scoperti e sostituiti con altri di superiori idiozie appassionate… senza sapere mai che più si è inseriti nel letamaio della fotografia, più si è spregevoli.
L’abolizione delle verità preordinate è la scomposizione dei meccanismi di riproduzione sociale della tirannia politica… il potere bruttura ogni cosa!… la fotografia senza la grazia eversiva/ libertaria che insinua il risentimento e non concede al potere il consenso che lo costituisce, è un ossessione del nulla o del vuoto!… la fotografia è la negazione della morale dominante!… la fotografia è l’elusione della menzogna e della mediocrità (statuale, religiosa, finanziaria, ideologica, culturale) che si sbarazza di tutti i tormenti della notorietà in nome della conoscenza dell’uomo, della donna e li sdogana nel mondo.
La fotografia che agisce sotto il fascino dell’impossibile è la sola capace di generare un’utopia di bellezza e di giustizia e minaccia da vicino la sclerosi, la rovina, la catastrofe annunciata della civiltà dello spettacolo. È l’utopia a riscattare la storia delle violenze subite!… è l’utopia che mette fine al modello messianico, religioso, mercatale… è l’utopia che attraverso la resistenza al presente, lavora alla conquista della massima felicità per il maggior numero di persone. La liberazione arriva quando gli uomini e le donne cessano di dare al potere ciò per cui sussiste… del credito che essi stessi gli danno… quando smetteranno di sostenerlo, crollerà da solo nella sua propria miseria. Né servi né padroni, sempre.
Burkina Faso 30 volte gennaio 2013 / Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte gennaio, 2014
1 E.M. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi 2004
2 Questa annotazione si avvale di diverse fonti… non è poi importante precisare troppo sulla vita di un autore che ha evitato accuratamente la fogna del successo sociale, le sue immagini dicono tutto ciò che si doveva dire nella propria epoca… per i curiosi senza curiosità rimandiamo invece al sito ufficiale di Viviam Maier: www.vivianma- ier.com/
3 Nell’effluvio del riconoscimento artistico di Vivian Maier, si succedono mostre, articoli, rivisitazioni (non sempre pertinenti) della scrittura fotografica della bambinaia… sono usciti i libri — Vivian Maier. Street Photographer (2011) a cura di John Maloof); Vivian Maier: Out of the Shadows (2012) di Richard Cahan e Michael Williams; Vivien Maier. SelfPortraits (2013) a cura di John Maloof; e i documentari Vivian Maier: Who Took Nanny’s Pictu- res (2013) di Jill Nicholls, Finding Vivian Maier (2013) di John Maloof e Charlie Siske, The Vivian Maier Mystery (2013) di Jill Nicholls — … è l’inizio di qualcosa che ha a che vedere con la poetica straordinaria di questa fotografa di strada e con gli affari… i miti hanno bisogno di incensatori come i martiri di supplizi… tuttavia la fotografia randagia della Maier travalica ogni macchinazione farisaica e disselcia i viatici degli annali ufficiali della fotografia per dare più verità alla vita quotidiana.
4 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e altri saggi sui media, a cura di Giu- lio Schiavoni, Bur, 2013