“Il cinema di Nanni Moretti è più inservibile delle lacrime di un santo!”.
Anonimo Toscano
La macchina/cinema è l’espressione più compiuta della civiltà spettacolare… ha raggiunto un tale grado di serialità, accumulazione, domesticazione sociale da divenire immagine del mondo… specchio-memoria dell’alienazione della vita che sotto forma di merce realizza l’impostura e la trascolora in realtà!… è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa e la merce-spettacolo risuscita negli spettatori la medesima devozione che orde di fedeli deputano a profeti, santi, martiri ed eroi… tutta gente “miracolata” dalle glossolalie della tolleranza o della falsificazione… per questo i miti dello schermo (dello sport, della musica, della politi-
ca o del ricamo artistico), vanno bene a tutti… poiché tutti, o quasi, si riducono all’imitazione di vestigia o di fisime che fanno del conformismo lo pseudonimo della libertà e anche del dissenso, specie quando ci si abbevera alla scuola dei saprofiti dell’economia-politica! L’ambizione al successo è un buco in testa e chi vi si dedica è un demente in potenza. C’è perfino chi crede che una ragazzetta svedese vestita di giallo, con la faccetta da vispa Teresa, possa essere l’emblema di salvamento del mondo dalla catastrofe ambientale… e non nella disobbedienza civile o critica radicale dei governi collusi con mercanti d’armi, mafie o multinazionali criminali che affossano il pianeta nelle disuguaglianze e sfruttano le ricchezze dei popoli impoveriti, annichiliti, violentati!
La cultura in piena gloria segue il decorso degli imperi… si adatta allo scempio di competenze assassine e ne riproduce le impronte… basta vedere come le mosche cocchiere dell’informazione danno fregio a un artista della compravendita blasonata, come Maurizio Cattelan… d’irriverente, geniale o ironico (come scrivono) ha solo i prezzi delle sue furbate… non vogliamo parlare di banane attaccate al muro con lo scotch, lampadine con la sua faccia o cessi d’oro trafugati per finta… per esemplificare l’intera mercificazione della sua produzione artistica ci basta ricordare l’ultima trovata, perfino vecchia, “Blind”, 2021. L’attentato al Word Trade Center dell’11 settembre 2011… un monolite nero trafitto da un aereo… un piacente totem che ha fatto gridare al “capolavoro cosmico”… vero niente… i citrulli ragionano sempre al contrario, diceva… per questo sono ben compresi! Gallerie, musei e banchieri sono i suoi clienti, gli stessi che fanno affari con la corruzione politica… tutta gente che andrebbe passata per le armi, non tanto per una questione di giustizia, quanto perché sono responsabili di crimini in formato grande, restati impuniti sempre!
Che c’entra il cinema con un artista piuttosto scarso di idee sull’arte come frattura o critica della separazione dal potere gerarchizzato? Niente o tutto!… il clamore del mercato è il medesimo di quello del cinema e di ogni altro strumento di comunicazione… gli affari sono affari… la colonizzazione dell’immaginario passa attraverso la manipolazione del desiderio e ciascuno è parte del feticcio-merce che sublima la propria apparenza… solo il valore d’uso ne scardina lo scopo e ne ricava il valore sovversivo che canta l’inservibilità. La macchina-desiderante dell’offerta capitalista contiene sempre l’avvelenamento e l’asservimento alla spietatezza che la detta! Infrangere la gestione totalitaria dell’immaginario, significa chiamarsi fuori dai giochi narcisistici-spettacolari che l’ordine presente tiene su se stesso, spaccare il suo monologo elogiativo!
Tre piani è un film che rende tristi anche gli angeli nella domenica delle palme… il soggetto è preso dal romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo e narra la quotidianità di un condominio (trasposto da Tel Aviv a Roma):
Primo piano. Lucio e Sara hanno una bambina, Francesca, affidata spesso agli anziani vicini, Giovanna e Renato (che mostra i sintomi dell’alzheimer). Una sera Renato va al parco con la bambina… mancano per diverse ore… quando vengono ritrovati, Lucio teme che a sua figlia sia accaduto qualcosa di terribile (che non è avvenuto) e la paura si trasforma in ossessione. Lucio poi fa l’amore con Charlotte, nipote minorenne della coppia… e subirà un processo.
Secondo piano. Monica e Giorgio hanno due bambini. Giorgio lavora all’estero, Monica è afflitta dalla solitudine e teme di finire come sua madre, in una clinica per disturbi mentali. La donna inizia ad avere strane visioni e vive cose che in realtà provengono dalla sua mente. Tra l’imbarazzo e il disinteresse, scompare dalla sua famiglia.
Terzo piano. Dora e Vittorio, entrambi giudici, abitano col figlio di vent’anni, Andrea. Una notte il ragazzo (ubriaco) investe e uccide una donna. Vittorio dice che il figlio deve essere condannato per ciò che ha fatto. Lo scontro tra padre e figlio è forte e Vittorio non lo vuole più vedere. Quando Andrea esce di galera, sparisce. Dopo la morte di Vittorio, Dora incontra Andrea in una casa di campagna dove vive… ha un bambino in braccio ma per lui la madre è ormai un’estranea e Dora capisce che è ancora più sola.
Cazzo! C’è di tutto in questa melensa narrazione filmica… l’alzheimer, incidenti stradali, amori proibiti, follie ereditarie, imprenditori truffatori, giudici integerrimi, volontariato per i poveri, giovani usciti dal grigio della metropoli e allevano i figli insieme alle caprette… ci mancava che tutto d’un tratto apparisse Dio in un pacco di Amazon a riconciliare l’inflazione dell’anima con le carte di credito. Diffida di ciò che è sacralizzato, perché il sacro altro non è che l’ombra della ghigliottina finanziaria!
Nelle redazioni dei giornali si dice che molti intellettuali di sinistra, dopo aver visto questo film, hanno cercato d’impiccarsi alle tende del salotto, ma inutilmente… poiché sanno che il culmine del fallimento rappresenta l’aureola del loro successo! Nelle sommatorie di pietà solo gli idioti sono attrezzati per barattare le lusinghe con le convenienze! Per un artista è indecoroso fare il ruffiano o il sacrestano, figurati il regista in una fabbrica del cinema (come quello italiano) che sforna capolavori d’imbecillità a tutto campo! Chiunque, per distrazione, superficialità o incompetenza, affermi, sia pure di passaggio, che la filmografia italiana non è la più brutta del mondo, o è un benefattore d’indomiti tormenti o un miracolato con l’istinto malavitoso o, alla peggio, un rimbecillito del linguaggio cinematografico. E si capisce perché dopo la proiezione di Tre piani al Festival di Cannes 2021, il film e Moretti hanno ricevuto un’ovazione del pubblico di undici minuti… il “talento” è sempre facoltativo, il genio mai!
Ci sono voluti Moretti, Federica Pontremoli e Valia Santella per scrivere una sceneggiatura intessuta in un’agonia senza epilogo dell’esistere… dialoghi infarciti di basse semplificazioni… costruzione di scene in bilico tra il cinema da camera (mal fatto) e lo sceneggiato televisivo… e tutto condito in un certo snobismo in cerca di rimorsi. L’attorialità — Moretti, Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini, financo Alba Rohrwacher (che di solito ha una notevole presenza scenica) —, esegue una partitura rarefatta… non estraniante, ci mancherebbe… quasi una apologetica della decadenza senza speranza dell’umano nell’uomo… una sorta d’insincerità e d’astuzia al contempo, che avvolgono il film in considerazioni poggiate su morali e codici penali, mai una smascheratura della realtà… il torto del cinema mercatale è quello di essere troppo sopportabile!
La fotografia di Michele D’Attanasio è tutta giocata sui grigi e in chiusura si sviluppa nei gialli/marroni rarefatti… in ogni sequenza si avverte l’accordatura con la ricevitoria televisiva, il cinema non c’entra… una deambulazione verso il consueto o la fatalità di un’estetica generalizzata… una digestione artistica praticata sulla meccanica del meno peggio. Il montaggio di Clelio Benevento, insieme alle musiche di Franco Piersanti, introducono alla remissione della segnaletica pubblicitaria… aderiscono alla cultura dell’ostaggio che li abita… insomma… Tre Piani si consuma nel pressappochismo d’annata, una messinscena che manca di lucidità. Le inquadrature, la composizione, la costruzione filmica di Moretti persegue il dizionario intimo delle sue psicosi e qui riduce persino i filamenti d’ironia che in qualche modo sostenevano le sue amabili storielle. La decifrazione del film è appesantita dalla mancanza di sorprese che intrigano lo spettatore… un deliquio di oblìo-dialogo tra film e ricezione. Non importa tanto la verità, l’intenzionalità, la bellezza in qualsiasi opera d’arte, quanto l’uso che se ne fa.
Tre piani non è tuttavia un film mancato né un commentario sulla fatica a vivere, come può sembrare… è una trattazione filmica ben ragionata che patteggia col consenso pensato a tavolino… una verbalizzazione dei sentimenti che generano conflitti sociali senza rinunciare a giustificarli. L’insieme non sfugge all’apposita tassa intellettuale della benevolenza… l’intelligenza separa ciò che lo sguardo cementa o celebra! La presenza del vero è sempre un grido, un pianto o un sorriso disincarnati dai riferimenti culturali dominanti… il cinema è ciò che interroga senza fine, la risposta disarcionata è ciò che provoca (tira fuori) dalla finestra dell’anima e ruba le stelle dal firmamento della menzogna istituita.
Una volta un critico finito nel vino per incapacità di chinare il capo di fronte ai paraventi dei festival cinematografici, mi disse, quasi così: “Il cinema di Rossellini o di un certo De Sica, del primo Fellini o di Germi, di Pasolini o Ferreri, di De Seta o Olmi, di Marcello o Diritti… è un aforismario, un dissidio o un florilegio d’amore della vita vissuta o dello stupore che l’abbranca alla realtà… un abisso di passioni intrecciate al dolore degli altri in cui specchiarsi o rifugiarsi o liberarsi… un laboratorio di idee che semplicemente rivendicavano il diritto d’essere uomini in mezzo agli uomini in eguaglianza… poiché ogni libertà è una nascita o un debutto, la dignità che ne consegue risiede nell’atto che ci fa liberi”, scriveva anche. “No, non sei libero dove ti nascondi, ma soltanto là dove ti esponi” (Edmond Jabès). La rivendicazione di un’umanità lacerata è una semenza dell’inosservato o dell’escluso, la linea di demarcazione che amplifica il falso e lo riduce a evento mondano e basta.
Occorre disimparare il linguaggio del cinema assoggettato alle nomenclature dell’industria che lo foraggia, per fare e comprendere che niente profuma di vero là dove l’accettazione dei mercati sigilla la sostanza nel pensiero della dimenticanza… prendere coscienza del proprio universo martoriato, significa praticare una ferita nel corpo sociale e allargarla, denunciarla, contrastarla fino a raggiungere l’originaria purezza dei bambini che inseguono gli aquiloni nel vento… dove tutto tace, la fantasia muore. Non si bussa alla porta del cinema, vi si entra o si esce, senza chiedere permesso!
Il cinema di poesia, annotava… è il silenzio che cerca di muoversi verso la lingua détournata del cinematografo e seminare eresie su altre rive, altre prossimità, altri risvegli della condizione comunitaria… una lingua senza patria né approdi che affabula l’incompiuto, l’imperfezione, il disinganno in cammini ininterrotti, crocevia di esilii, emarginazioni, sovversioni rivendicate in opere-vite fiammeggianti, disposte a denudare la secolarizzazione delle lacrime! Afferrare l’immaginazione come creatività di bellezza e di giustizia, farsi testimoni di una politica di fraternità contro la politica del sopruso… rompere le frontiere del linguaggio insegnato, vuol dire alimentare o riprendere ciò che appartiene all’uomo in libertà e alimentare l’inconoscibile utopico nel cantico di una società più giusta e più umana.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 10 volte dicembre, 2021