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Qui rido io (2021), di Mario Martone

Inserito da serrilux

Qui rido io (2021), di Mario Martone

“… Noi siamo la prima epoca studiata in puncto degli «abiti in costume», voglio dire delle morali, degli articoli di fede, dei gusti artistici e delle religioni, preparati, come nessun’altra epoca è mai stata, al carnevale in grande stile, all’altezza trascendentale della suprema idiozia e dell’aristofanesca derisione del mondo… noi possiamo essere ancora originali, per esempio come parodisti della storia mondiale o pagliacci d’Iddio”.
Friedrich W. Nietzsche

La commedia dell’umano tempestata dalla comicità plebea del re al botteghino del teatro napoletano di fine Ottocento/primo Novecento, Eduardo Scarpetta (1853-1925)… è raccontata nel film-specchio accattivante (fin troppo) da Mario Martone in Qui rido io… è la scritta che il capocomico arricchito aveva fatto apporre sulla facciata della villa La santarella sulla collina del Vomero a Napoli… acquistata con i proventi della commedia ‘Na Santarella (1889), dicono… qui l’eclettico commediografo viveva con moglie, amanti, sei figli (Domenico, Vincenzo e Maria Scarpetta – Eduardo, Peppino e Titina De Filippo – mai riconosciuti), sarte, attori della sua compagnia teatrale, cuochi e servitù… vita e teatro si trascolorano in vivenza quotidiana che non fa scandalo, anzi ne promuove l’irriverenza… il desiderio d’amore, in fondo, è sciogliere la seduzione nell’erotismo che esprime se stesso e spacca confini, leggi e morali… il dispendio d’amore non prevede peccati, solo piaceri e non appartiene a nulla se non ai corpi in amore! L’amore non chiede approvazioni, solo la conoscenza di sé e la fine della sofferenza. Tutto qui.

Le commedie, parodie, farse, pochade francesi… del commediante di umili origini che riesce ad ottenere il riconoscimento della “cultura nobile” dell’epoca… un mariuolo ambizioso, senza timori reverenziali né limiti per raggiungere il successo, carrozze, cavalli, ville ecc., sono tante e dalla risata facile… la fama era il suo pane e quando scompare resta la reale portanza di un fuoco o di un incendio di vocaboli che hanno realizzato un sogno o lo hanno solo saccheggiato. I poveri, i diseredati, gli esclusi fanno ridere quanto i nobili, gli arricchiti, i padroni e in nome della sacertà di sopravvivenza si abbandonano al giudizio sommario se non alla vendetta degli dèi… le smorfie attoriali fanno proprie le verità della sottomissione e la parola vince sulla verità!… finita la commedia, il reale sprofonda in sé stesso.

Dal 1875 fino al 1924, Scarpetta mette in scena un numero considerevole di lavori, tra i quali il più acclamato è Miseria e nobiltà (1888), replicato anche nel cinema da Enrico Guazzoni, 1914; Corrado D’Errico, 1940; Mario Mattoli, 1954, che lascia Totò imperversare nei panni dello scrivano degli analfabeti, Felice Sciosciammocca, sovrapponendo i suoi sghiribizzi facciali, ripetuti fino alla nausea in oltre cento film (fatti salvi quelli con Rossellini, De Sica, Pasolini, Bolognini, Lattuada, Monicelli)… alla disinvolta eleganza stracciona di Felice Sciosciammocca, il personaggio inventato da Scarpetta e temprato sui gusti ridanciani del popolo impoverito.

Felice (o Feliciello) Sciosciammocca — nella lingua napoletana significa colui che sta a bocca aperta —… è il personaggio inventato da Scarpetta… per un certo tempo, riesce financo a sostituire nell’immaginario napoletano la furbesca maschera di Pulcinella — che figurava la plebaglia servile al potere e al contempo la villania ironica dei quartieri poveri —. Sciosciammocca — alla maniera del primo Charlot —, si caratterizzava nella figura di un guitto piccolo-borghese che faceva della “sceneggiata”, la tomba della spontaneità e dell’improvvisazione… imitare i vizi e le virtù della borghesia, non sempre significa disvelare le sue cattività… a volte la cenciosa plebe napoletana ha dissotterrato dolori secolari e come insegna il più celebre tra i Pulcinella, Antonio Petito (1822-1876), scopritore e maestro di Scarpetta, iniziatore del teatro dialettale moderno… o l’arte teatrale della povertà rivendicata di Raffaele Viviani (1888-1950)… la derisione dei potenti è la detestazione dell’ingiusto o un delitto di coscienza! La profonda sofferenza rende nobili anche gli asini… fare della cosa più volgare la più nobile è un atto d’amore per l’intera umanità.

Qui rido io è una sorta di cinema da camera… girato quasi tutto in interni ben raffigurati in scene familiari che s’intrecciano a quelle teatrali… è la rivisitazione anche di una cultura millenaria, quella napoletana… sempre ferita nella sua veridicità… le voci, il canto, la parola attraversano l’intero film e si avvolgono all’autenticità di una lingua che incanta per l’iconografica diretta/commovente che l’accompagna… i corpi degli attori sono strumenti espressivi, non recitano, vivono la recita della vita o viceversa… la dismisura del reale è inchiodata nello spazio-teatro e nello spazio-famiglia, frammenti di uno specchio-spettacolo d’incestuosa bellezza… il teatro include la vita che lo traccia… diviene appartenenza, condivisione, alterità, eterno mattino di un mondo a parte… maschera e memoria di una fraternità sociale tutta napoletana che ha pochi eguali… un’infanzia del gesto senza ammissioni di colpa, un’abbagliante profondità del vissuto quotidiano che ne è anche l’ostaggio, mai esente da umiliazioni invendicate o del loro contrario portate all’estrema infedeltà o sovversione.

I ritratti di Vincenzo Scarpetta, Eduardo, Titina e Peppino De Filippo ne sono la prova… la vanità di Edoardo Scarpetta è l’inconfessata ambizione di un’universo incatenato al successo, e quando il povero raggiunge i gangli del potere, quale che sia, e dimentica la fame dalla quale è provenuto, diventa il peggiore dei profittatori: “Non è grazie al genio ma grazie alla sofferenza, e solo grazie ad essa, che smettiamo di essere una marionetta” (E.M. Cioran, diceva). Quando si cessa di soffrire, si rivendica di meno… l’entusiasmo del consenso è un’illusione che riscatta tutte le altre… occorre un’immensa umiltà per uccidersi in un sorriso canzonatorio, disse il mio amico ubriaco di porto, il problema è che non aveva mai trovato la corda giusta per attuare la sua liberazione.

Il film di Martone non è un capolavoro (come viene scritto dalla critica del sofà)… è un buon film… certo… c’è il sentimento popolare, la cultura dello sberleffo, il narcisismo della morale artificiata, la coloratura di un tempo in cui il popolo ride sulle proprie disgrazie invece di portarle fuori dalla ribalta e iniziare a spaccare gli altari dell’ingiustizia… tuttavia Martone riesce a ri/costruire con grazia, leggerezza e complicità, l’affresco non solo di un comico-patriarca, ma a far rivivere (attraverso canzoni immortali, anche) una Napoli perduta nella malinconia delle opere di Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Ernesto Murolo (un altro figlio illegale di Scarpetta)… che sfilano in Qui rido io nel plauso al “teatro popolare” di Gabriele D’Annunzio (?!!), che è stato tutto all’infuori di un poeta del popolo, per il popolo e con il popolo!… è sempre quello che adoriamo a qualificarci servi o
bracconieri del proprio sentire! Sbarazzarsi di ogni mito è un invito al piacere di riderne.

La sceneggiatura di Martone e Ippolita Di Majo è ben congegnata… nella prima parte si odora il teatro dialettale napoletano e l’apertura con Miseria e nobiltà è di una sfolgorante bellezza… il regista evita di filmare i vicoli di Napoli, s’appoggia invece alla scarna scenografia di Giancarlo Muselli e Carlo Rescigno, e alla fascinazione dei costumi di Ursula Patzak… non scende mai a patti col cartolinesco né con la prolissità folcloristica. La fotografia di Renato Berta e il montaggio di Jacopo Quadri, significano il film in un elegia dell’ingenuità quanto dell’approssimazione e restituiscono il fervore della strada che diventa teatro e il teatro un fasto che copre la desolazione… non c’è l’autopsia della società dell’epoca… come non c’era nel teatro di Scarpetta… il vezzo della tolleranza, del resto, ha fatto più morti di tutte le rivoluzioni!… è sempre stato a servizio della tirannide!
Nella seconda parte i registri del tragico si fanno più asciutti… Scarpetta mostra tanto l’ossequio a D’Annunzio, quanto la dignità di un artista popolare che lo contrasta nell’ingiustizia… va a trovare D’Annunzio a Marina di Pisa per avere il consenso a fare una parodia del suo dramma La figlia di Iorio… come aveva già fatto con La Bohème di Giacomo Puccini… che il maestro coprì di lodi… ma D’Annunzio gli nega il permesso scritto… anzi, ne vieta la rappresentazione con un telegramma… dicono gli storici… la sera della prima al Teatro Mercadante (1904)… la pièce viene interrotta dai giovani contestatori (Di Giacomo, Russo, Bovio)… non vogliono più ridere sulla povertà ma denunciare la crudeltà del potere che la determina… in qualche modo dicono che ovunque si ride sul dolore degli altri, prima o poi, compaiono i fucili!… Scarpetta fa calare il sipario… riprende poi un atto unico di Sciosciammocca ed è sommerso dagli applausi… è l’inizio della fine di Scarpetta.

Scarpetta è accusato di plagio dal Vate degli italiani… ha osato sbeffeggiare la sua opera in tre atti (La figlia di Iorio) e vestito gli interpreti maschili con abiti femminili… il processo alla satira si prolungherà fino al 1908… quando la sentenza del tribunale dichiara il non luogo a procedere nei confronti di Scarpetta perché il fatto non costituiva reato… davanti ai giudici il discorso difensivo di Scarpetta è un pezzo di teatro sospeso tra il dileggio e la recriminazione dell’arte come esortazione del giusto contro l’imperio del mondano, e copre di risate l’intero tribunale. Le parole di Benedetto Croce a suo sostegno, restano a memoria di tutte le libertà d’espressione: “La parodia è nell’arte perché è nella vita: accanto all’infinitamente grande vi è l’infinitamente piccolo. Non a caso qualcuno ha definito il ridicolo come il sublime al rovescio. Ed è ovvio quindi che delle opere più in voga, dei capolavori, in ogni tempo, si sia sempre fatta la parodia. Sotto questo aspetto la parodia è un tributo all’autore e non un’ingiuria”. L’impostura regna da un’altra parte, semmai tra la Genesi e l’Apocalisse! Scarpetta si ritira dalle scene nel 1909… muore nel 1925… viene imbalsamato e deposto in una bara di cristallo… i funerali sono imponenti quanto spettacolari, un’antologia del suo teatro che ha fatto degli stracci napoletani la sua fortuna!

La presenza scenica di Toni Servillo, spuria da ogni recitazione ammantata d’inutili orpelli… spesso abusata dall’attore napoletano… è qui una lezione d’impressionante finitezza attoriale e ogni parola, gesto, sguardo o risata di Servillo/Scarpetta è segno di vita, conoscenza di sé che si eleva al di sopra dello stupore spettatoriale… anche i silenzi di Servillo s’insinuano tra l’incanaglito e sdegnosa indifferenza d’autentico animale da palcoscenico, implicano un’idea d’avventura portata al di là del vero e del falso… Servillo è un facitore del trucco, del ricercato, dell’espediente e fa dell’astuzia teatrale un linguaggio che riporta alla commedia dell’arte. Tutti i figuranti sono buona cosa, perfetti in ogni ruolo… bravi quanto il loro capocomico… contribuiscono a riempire una platea di risate sottoproletarie… riescono a riflettere la disillusione e la caparbietà dei cortigiani arricchiti (come i politici, preti, avvocati, psicologi, notai, assicuratori, poliziotti, sindacalisti, artisti del nostro tempo)… l’eterna povertà di un popolo che applaude la propria miseria!

Il teatro popolare di Scarpetta racchiude in sé una fatalità sovrascenica che restituisce la temporalità di una napoletanità miseranda racchiusa in se stessa o lasciata allo splendore dell’inferno collettivo… non ci sono fucilate contro una classe che offende né insurrezioni volgari… l’incurabile è sguarnito d’ogni possibilità di rovesciamento di prospettiva… mano a mano che si ride della propria incoscienza, si perde il diritto a un’altra esistenza… ci vuole del genio comunque per rifuggire alle formule consacrate… la modestia come l’esagerazione della verità cerca sempre un pretesto che la giustifichi… il successo di un artista si dissolve nel più alto degli Idoli o in tutto ciò che gli assomiglia… avere stile significa ruminare le influenze fino a farne spazzatura e non fare della spazzatura un regno… non si tratta di abolire disgusti, amarezze, miserie di quella o quell’altra parte… si tratta di annientarle!… è un esercizio di pudore!… è l’interrogazione della bellezza e creazione di valori che denuda (dentro e fuori ogni arte) la società libertaria che viene.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 14 volte settembre, 2021

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