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“NE IN TERA, NE IN MARE, NE IN CIELO”. IL CINEMA RANDAGIO DI SERGIO CITTI

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“NE IN TERA, NE IN MARE, NE IN CIELO”. IL CINEMA RANDAGIO DI SERGIO CITTI

di Livio Marchese, con scritti di Virgilio Fantuzzi e Goffredo Fofi,
Edizioni La Fiaccola, 2009, pp. 270, Euro 18.00

“Né in tera, né in mare, né in cielo”. Il cinema randagio di Sergio Citti” di Livio Marchese, è un saggio di singolare amorevolezza e profondità filmica che approfondisce la cinevita di uno degli autori più censurati dal mercato cinematografico italiano… e mancava sugli scaffali delle biblioteche, nei convegni delle università, per chi studia la macchina/cinema e la sua possibilità di circuitare l’apologia del mercimonio hollywoodiano o la meraviglia e lo stupore del cinema in forma di poesia. Il lavoro di Marchese è sostenuto anche dagli scritti amorosi e singolari di Virgilio Fantuzzi e Goffredo Fofi, ed è non solo uno straordinario ritratto di Sergio Citti, è anche una scesa in profondità — etica ed estetica — della sua opera filmica

Sergio Citti è il maggiore autore di un “cinema sottoproletario” (ma è riduttivo chiuderlo nel cinema di genere) e insieme ad altri disertori del cinema-merce (Pier Paolo Pasolini, Marco Ferreri, Marco Bellocchio, Luigi Faccini…) è riuscito a portare la realtà della strada sullo schermo e dare voce e volto a chi non l’aveva mai avuta o ne era stato espropriato in commedie o melodrammi che ne avevano sfigurato bellezza e dignità. L’amicizia e la collaborazione con Pasolini c’entrano molto nel suo fare-cinema, tuttavia il cinema randagio di Citti ha espresso sempre una propria autonomia, una surrealtà dell’esistenza marginalizzata che Marchese coglie appieno nel suo studio.

È vero, la critica italiana non ha mai visto Citti come un grande regista e ha sbagliato, perché a rileggere il suo percorso creativo si colgono l’innato senso dell’inquadratura, la trasposizione della narrazione orale per immagini, la provocazione metaforica… che Valente vede, a ragione, accanto alla poetica di maestri come Luis Buñuel, Marco Ferreri, Glauber Rocha… la pietà laica verso gli ultimi della società, — se vogliamo anarchica — che circola nei film di Citti si accorda con la sua autobiografia e il “pittoretto della Maranella” ha saputo parlare di fame e della vita dei ragazzi delle periferie romane come pochi hanno fatto nel cinema italiano (Luigi Faccini), non solo perché la fame e la galera l’aveva conosciuta, ma per averla saputa raccontare a Pasolini (Accattone, Mamma Roma, Uccellacci e uccellini…) e nel suo cinema eversivo.

“Sono stato in galera — scrive Sergio Citti — sono uscito dal carcere giusto in tempo per raggiungere Pier Paolo [Pasolini] che stava presentando al festival di Venezia un film che avevamo fatto insieme. Così sono passato direttamente da Rebibbia all’Excelsior. Se uno passa, supponiamo, dall’Excelsior al Danieli, che ne sa della vita?”. Qui c’è tutto il cinema randagio fatto e sognato di Sergio Citti. Marchese entra nelle pieghe dell’uomo, del cineasta, dell’anarchico, e racconta di lui, della sua arte, del suo senso di inadattabilità o inadeguatezza o, più semplicemente, di rigetto del gazebo dell’apparenza dov’è sprofondato il cinema italiano.

“Né in tera, né in mare, né in cielo”. Il cinema randagio di Sergio Citti” è uno studio anomalo, non una schedografia dei suoi film e la somma degli errori (o delle bellezze) della sua vita… Marchese entra nelle pieghe della storia del maestro romano, nelle sue sofferenze, nei suoi film massacrati dai tagliagola della distribuzione, nelle incomprensioni dei critici genuflessi alle direttive dei partiti, nell’amore e la stima profondi e condivisi con il fratello Franco… anche la sua morte è epica… Citti è paralizzato nel letto della sua casa a Fiumicino… riceve pochi amici e Marchese che gli sottopone la sua tesi di laurea… non parla, non si muove, non piange… comunica con un quadernetto le stesse idee ed emozioni con le quali riusciva a commuovere e suscitare rotture ereticali (non solo) al cinema.

Ciao a te Sergio, ancora ricordo la sola volta che ci siamo incontrarti, sulla spiaggia, a Fiumicino, mi dicesti (non so se sono le parole giuste): “I nostri comportamenti ci appartengono, come le nostre bestemmie, non permetterò a Dio di uccidermi…”. Sergio, lo so, non sei scomparso… sei andato soltanto laggiù dove ciascuno è re perché nessuno è servo… insieme ai cani e ai gatti senza famiglia né cuccia che amavi più degli uomini… “Loro non tradiscono…”, dicevi. Restano le opere irriverenti che hai disseminato nella storia del cinema maledetto a mostrare la genialità della tua giusta collera contro l’imbecillità della civiltà dello spettacolo.

10 volte ottobre 2009

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