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Tina Modotti. Sulla fotografia della sovversione non sospetta

Inserito da serrilux

Tina Modotti. Sulla fotografia della sovversione non sospetta

Commiato da ieri

“La lotta antimperialista qui non è e non può essere la lotta per la liberazione nazionale;
la sua prospettiva storica non è il socialismo in un solo paese. All’organizzazione internazionale del capitale, ai patti militari mondiali dell’imperialismo americano,
alla cooperazione della polizia e dei servizi segreti, all’organizzazione internazionale delle élite dominanti nell’ambito del potere dell’imperialismo americano contrapponiamo da parte nostra, da parte del proletariato, la lotta di classe rivoluzionaria, le lotte dei movimenti di liberazione dei popoli del Terzo Mondo,
la guerriglia urbana nelle metropoli dell’imperialismo: l’internazionalismo proletario”.
Ulrike Meinhof, cofondatrice della R.A.F. , al processo di Berlino, 13 settembre 1974

I. Bagatelle per un massacro della fotografia

La fotografia è un atto di coscienza personale, e basta! I fuorilegge muoiono sempre, e solo i fessi credono a quello che scrivono sui giornali o dicono in televisione! Figuriamoci nelle storie della fotografia! I Billy The Kid dell’immaginario sovversivo hanno fatto del margine il passaggio da uno stato d’essere a un lasciarsi trasportare oltre i confini del discorso fotografico indicizzato… fuori da una costruzione estetica conclusa… in una tensione epica che trasgredisce ogni formalismo richiesto… senza portare rispetto a niente e nessuno se non a se stessi e agli ultimi, gli indifesi, i vessati d’ogni dove! Ogni fotografia è destinata a interrogare e non a rispondere, a interrompere e non a tradire, a incominciare e non a mascherare… è una critica della separatezza, dunque… che scombina il filo narrativo… un’ebbrezza del dire prima che s’inchiodi nel detto!, così annotava. Poiché la Civiltà del dialogo è nel profondo della vita di un popolo libero, Tsunesaburo Makiguchi, sosteneva!1, la creazione di valore nell’amore dell’uomo per l’uomo significa fornire intuizioni filosofiche, pedagogiche, linguistiche e nelle finalità educative elevare il livello d’esistenza di ogni persona verso la fondazione di una società umana, più umana.


La lingua-linguaggio della fotografia prende coscienza di sé là dove l’amore cancella la rappresentazione della bassa materialità e l’unica evocazione che è consentita è il silenzio o la perdita d’identità… la dignità non si concede, ci si prende, come l’amore o la libertà! L’immaginario amoroso non la contempla né la riveste d’altre differenze la dignità, ma la presagisce… la dignità è la fionda del desiderio che si concede all’istante e interpreta una pienezza o una mancanza… è un’asserzione dell’amore come valore, uno smarrimento d’essere che aderisce al traboccamento d’una passione libertaria… forse l’ultima solitudine della quale parlava Roland Barthes, un’affermazione tragica, talvolta sovversiva, che mette in scena la mancanza di desiderio o la voglia matta di viverlo fuori dalla sofferenza… è la risposta amorosa che produce una vera e propria rivoluzione nella sua vita e nel mondo2. Quando si ama un’idea del mondo è quasi un disonore sopravviverle, senza vederla a compimento.

Le dissennatezze poetiche mancano di probità e rendono intelligibile le formule degli eruditi e degli stolti, le medesime, quando si è protesi verso l’onorabilità artistica/menzognera contemporanea. “La verità non può che essere violenta. Non c’è verità pacifica” (Edmond Jabès), soltanto il bello, il giusto e il bene comune è vero! La leggiadria sovversiva della fotografia si sostituisce al prescritto, al consumato o al celebrato per gioire della sua frantumazione ed esporla al pubblico ludibrio! “E qui lungo la strada che nessuno percorre, dove non si creano preoccupazioni, dove lo spettacolo deve continuare, è dove morirò” (dal film di Todd Haynes, Io non sono qui, 2007). La libertà fertile impone il suo senso al non-senso che la nega! L’amore vive in una parola, in un gesto, in un canto. La morte dell’amore è morte di tutti gli universi convenuti.

Non esistono generi in fotografia, come nel cinema (Jean-Luc Godard) e anche mia nonna partigiana, quando parlava di nuove primavere di bellezza, raccontava che la Resistenza o è di popolo o è solo la ribalta di rivoluzionari di professione che mirano a riverniciare in peggio le impalcature istituzionali che dicevano di voler abbattere. La Fotografia è una e una soltanto… sociale, concettuale, paesaggio, erotica, privata o di guerra sono categorie utili a sedurre quanto ad annichilire… la Fotografia affronta il dolore, talvolta lo sollecita, contravviene a tutto e va verso nuove, altre più atroci verità calpestate dai produttori d’indegnità… dato che l’insurrezione dei popoli è il suo unico lusso, vi partecipa, non tanto per trarne vantaggi o benefici o migliorare la propria ventura, quanto per asseverare il diritto all’insolenza contro la consolazione del servaggio e a favore dell’abolizione dei privilegi di pochi sulle privazioni di molti. La Fotografia è una sciabolata di luce! La schiuma o la bava di un’afflizione insopportabile, quella che incatena i polsi della bellezza nelle caverne della storia.

La fotografia mercantile è l’orazione dei rassegnati, dei falsi idoli, dei tiranni da avanspettacolo, nella quale gli imbecilli affogano la voglia di verità, di ribellione e della pubblica felicità. La fotografia insegnata corrisponde a meschinità soggiogate e codardie prezzolate… l’unico ordine di grandezza alla quale aspira è quello del fallimento… tuttavia un mondo senza fotografia sarebbe altrettanto marcio (e impunito) di un governo senza iene. “Chi non ha principi morali si avvolge di solito in una bandiera” (Umberto Eco) o s’impicca a un crocifisso. Gli imbalsamati nelle ideologie, nelle religioni o nel neoliberismo non hanno capito (o forse lo hanno capito bene) che il successo, come il potere, è una droga che fa di colui che vi si dedica un demente in potenza.

Nei sommari di decomposizione di tutte le forge artistiche piegate alla lebbra dei potenti, gli occhi ardenti di autori che preannunciano l’assassinio delle belle arti non sono mai stati del tutto sconfitti: “Non esistono esseri più pericolosi di quelli che hanno sofferto per convinzione, non è un caso che i grandi persecutori si reclutano tra i martiri ai quali non è stata tagliata la testa” (E.M. Cioran)3, ed è per questo che non vi è nobiltà inventiva se non nella negazione della civiltà dello spettacolo. Quando non è una frivolezza scritturale, il fare-fotografia è una profanazione, una sconcezza anche del peccato originale dell’industria fotografica… l’impudenza dell’atemporalità che vibra in ogni scassinatore di banche, sottende che là dove niente è giusto tutto è permesso!

La fotografia ci invita alla libertà d’interpretazione… ci propone molti piani di lettura e ci pone davanti alle ambiguità del linguaggio e della vita. La fotografia (sovente) ha fatto dello scemo del villaggio un fotografo celebre che si è eretto a portatore di verità dove la glossolalia d’autore è molto richiesta nel cafàrnao dei fotografi in compiacenza dei santi (alla maniera di Steve McCurry o Annie Leibovitz o Araki Nobuyoshi, per intenderci). Il dolore è constatare che il dramma di qualsiasi fotografo che ha afferrato l’aureola dell’assenso non sta nell’essere incompreso, ma nell’essere capito.

Bagatelle per un massacro della fotografia. La fotografia consumerista è una sorta postribolo a cielo aperto dove ciascuno fa la sua marchetta e ognuno è parte di un gioco giocato nel consenso e nel successo tenuti a libro paga dai baronetti senza titolo dell’orazione fotografica. La fotografia è sempre stata un “oggetto di formazione”, anche artistica, genuflessa ai dettati della disumanità predominante. Il divenire davvero umano della fotografia supera il reale dal quale parte e nutre il proprio succedersi sui rottami della menzogna e dell’insignificanza. L’abitudine a servire diffonde lo spettro della delazione e la tolleranza diventa una gabbia dell’inedia coltivata… del resto per la “tolleranza ci sono le apposite case” (Paul Claudel) mai chiuse, semmai trasformate in salotti della “buona creanza borghese”. I relitti di tristezza abitano gli stessi ghetti, gli stessi partiti, le stesse chiese… la sicurezza del peggio ha sempre un fascino, quello della propria archetipica indecenza.
La fotografia è qualcosa di più che una copia, è la eco di un accadere. I randagi della fotografia differenzialista/situazionista sono architetti senza regole, poeti senza metrica o tiratori scelti della bellezza ineducata. La fotocamera è il prolungamento del vedere non del guardare. La sola fotografia che conta è quella che possiede ricchezza di forme e contenuti rilucenti o abrasivi. Il fotografato è “un’operazione progressiva della testa, dell’occhio e del cuore per esprimere un problema, fissare un avvenimento o delle impressioni” (Henri CartierBresson). Per arrivare alla coscienza di quello che si fa, occorre sapere la parte contro la quale stare. Situarsi in rapporto con il soggetto della nostra attenzione. Per andare oltre il “raccoglitore” di immagini o il “fabbricatore” di sensazioni riprovevoli… occorre lavorare non solo a passi di lupo ma danzare alla maniera dei gatti in amore, farsi candidi come colombe e astuti come serpenti, e quando occorre, avvelenare i pozzi dell’ordine pubblico. Il fotografo che non agguanta per la coda la luna o non si fa bandito dell’immaginario strappato dal vero, non sarà mai capace di colpire l’origine del dolore né mai conoscerà l’epifania amorosa e inascoltata della fotografia da marciapiedi.

La fotografia muore di fotografia. Storia della fotografia significa storia non solo della raffigurazione dell’umanità, ma anche della disobbedienza civile e della sedizione dei passatori di confine. In difesa o contro i confessori dell’idolatria fotografica che fanno ostentazione di raggiri o pestilenze mercatali, solo una controstoria della fotografia può disarticolare l’immaginario impadronito nel suo contrario… costruire un’epoca senza epigoni non è facile, tuttavia i debutti non ci fanno paura, e nemmeno le rovine4. Solo i Don Chisciotte all’inferno non rimpiangono la lingua rovescia… dove non si conosce nessuna abdicazione né defezione della voluttà o disdoro nel bruciare i Vangeli… senza un’oncia di dubbio, Stirner, Schopenhauer o Nietzsche giocavano a mosca cieca con l’assenza di Dio, non con la sua presenza… e tutto per ricondurre la verità all’uomo.

Niente seduce tanto della società dello spettacolo come l’accattivante arroganza delle sue dottrine. Per gli stupidi non ci sono catene, basta una merce o un oracolo per possedere la loro dipendenza. L’orientamento della fotografia è studiato con cura, tuttavia non sono molti che colgono la caduta della soggettività in adesione alla riproducibilità tecnologica. La folla è sempre più solitaria, sempre più si autofotografa ed è sempre più fotografata. Al posto della pregnanza del reale c’è la cronaca, in sostituzione del vissuto quotidiano c’è il documento familiare. I social-network sorvegliano lo stile dei fedeli e fanno dei loro clienti vittime predestinate all’imbecillità. Sono molti i manuali, workshop o saggi che “parlano” di fotografia, pochi vanno alle radici del “sistema fotografia” e della dittatura dell’effigie (non solo fotografica) che sta alle fondamenta di ogni “apparato di potere”… i devoti di circostanza si aggiornano su tutte le saggezze e nefandezze grammaticali, semplificate fino ad assimilare nella demiurgia verbale, il monopolio dell’incontinenza.

L’avanzare della fotografia è nelle mani dell’industria da sempre e non ci sono lacrime né santi che possono mostrare i padroni dal volto buono o i commedianti della fotografia insegnata, come novelli levatori di “democrazia dell’immagine”. La fotografia è una baldracca che non sorride. I possessori dell’immaginario fotografico lo sanno bene ed è per questo che lavorano sull’entusiasmo dei cretini. Folle private d’ogni emozione senza barbarie, si limitano a tradurre l’anomia metropolitana o la povertà più povera nelle sollecitudini dei mercati… sono i maggiori depositari della società mediocratica e delegano la loro esistenza all’ultimo boia santificato in terra vaticana o agli untori di genocidi che siedono sugli scranni dei parlamenti. La violenza non è sufficiente a demolire una civiltà dell’ossequio, del comportamento informale o dell’affidabilità delegata a regole stabilite, sottaciute… occorre anche la fotografia — carta stampata, televisione, cinema, telefonia, internet — a sacralizzare il saccheggio dei Sud della Terra ad uso dei saprofiti della Borsa e dei governi! Spesso si denuncia la soperchieria per meglio rendergli omaggio. Liquidare un tiranno, un despota, un dittatore o far saltare in aria il covo di serpi di Wall Street nell’ora del tè, può anche essere inteso come un minuetto di giustizia.
Anche la fotografia è da distruggere. La filosofia/eresia della fotografia di situazione non ha altra bellezza se non quella di aiutare a spezzare le catene della malvagità, sciogliere i legami del giogo, dare libertà agli oppressi… dividere il tuo pane con l’affamato, vestire chi è nudo e non voltare le spalle al tuo simile, diceva Isaia, è ricordare ad ogni essere umano che la liberazione autentica sarà opera degli oppressi o non sarà. Una fotografia che crea valore è nel contempo una fotografia in utopia. Non c’è storia della politica se non c’è storia della libertà. La filosofia in utopia è il canto più estremo della liberazione dell’uomo da se stesso. L’utopia non è solo l’aspirazione all’uguaglianza nella diversità e godimento dei beni comuni che non prevede né servi né padroni… l’eversione che sta al nascere dell’utopia è rifiutare la brutalità dei codici imposti e annunciare le proteste che saranno e che ancora non sono… la richiesta in fieri di una comunità differente e di una differente società in armonia tra gli uomini e l’ambiente nel quale si trovano a vivere. La fotografia di situazione lavora sull’immaginario liberato. Il viatico dalla poesia alla vita quotidiana impone un salto di qualità, una rottura con il catechismo dell’ingiustizia, l’intervento dell’immaginazione contro i disegni salvifici della civiltà dello spettacolo e dice la mia parola è no!

II. Sulla sovversione non sospetta della fotografia

Per chiudere, come anche per aprire, riprendiamo qui la filosofia comunarda/libertaria di Tina Modotti. D’infilata. Tutti i regimi fanno schifo… nei governi, anche in quelli che si dipingono democratici, vi si segnalano buffoni, mafiosi, burocrati e assassini in formato grande… il lavoro sporco lo lasciano fare ai fondamentalismi, agli integralismi, ai fanatismi del momento, naturalmente ben fagocitati dalla politica finanziaria, i servizi segreti, le caste degli aiuti internazionali… che bello! il mondo è in fiamme e non c’è papa, capo di stato, generale o finanziere che non si faccia carico di carneficine inammissibili a danno dei diseredati della Terra: “Il crimine in piena gloria consolida l’autorità con la paura sacra che ispira. L’arte di farsi temere e rispettare equivale al senso di opportunità” (E.M. Cioran) che ne consegue. Il cattivo gusto dell’arte mercatale contiene la sorte impersonale dell’artista… gli appestati dell’ascesa millantata ne sono coscienti… per questo hanno deposto le armi della critica e non sono passati a dissotterrare altri arnesi del comunicare… si è veramente artisti solo quando ci si pone al di fuori della beatitudine o della trasgressione concertata e si rinuncia ad avere un destino da servi.

La sovversione non sospetta dell’immaginale libertario della Modotti è un coltello piantato nell’essenza della storiografia fotografica… poiché “la verità conosce ogni forma di sovversione… vivere è far propria la sovversione dell’istante, morire è far propria quella, irreversibile, dell’eternità” (Edmond Jabès)5. Le fotoscritture della sovversione o si sconfiggono nell’addizionalità delle crocifissioni o obbligandole a cambiar bersaglio… la filosofia della sovversione della Modotti è un atanòr colmo d’avvenire, una diffida, anche, del silenzio che oscura o reprime la furiosità del disordine gonfio di certezze! Si tratta di minacciare quel che ci minaccia, annotava… disporsi alla legittimità della rivolta e custodire lo sguardo come il partigiano il ferro che portava sulla spalla… poiché da una parte ci sono i ceppi del conformismo, dall’altra la libertà!

TINA MODOTTI
Frau mit Krug
Mexiko 1926

Nessuna fotografia è innocente, tantomeno il fotografo che ne fa barlumi di spettacolarità… la fotografia, qualsiasi fotografia, non dà la misura del tutto o del nulla, del compiuto o del vuoto, ma dell’incompiuto ed è sempre il “lettore” che ne detta l’oscurità del falso o lo splendore del vero! I limiti violati non vogliono capi chini… s’interroga il potere o lo si subisce! La fotografia accoglie o respinge ciò che emerge da omissioni o lacerazioni volontarie… il pensiero sovversivo è in ciò che dichiara, non in ciò che tace! Legata com’è al servilismo mercatale dell’origine, la fotografia contiene tuttavia la dismisura dello straordinario che spacca le introspezioni romanzate… rivendica la libertà primigenia del Meraviglioso e, in qualche modo, determina la sorgività dell’icona del giusto, del buono e del bello sulle macerie della speculazione senza contenuti. La polverizzazione della fotografia insegnata passa dalla coscienza di sé disseminata d’amore per i più deboli, gli sfruttati, gli invisibili… quando la fotografia crea, la risposta uccide o canta i suoi tormenti!

La fotografia randagia accetta i propri bordi e getta un afflato d’impertinenza al di là del visibile… è smania di qualcosa che non si detiene e a cui si volge… rifiuta i simulacri che riconoscono la politica, la fede o la cultura come criteri del successo che legittimano la sola felicità possibile nella società dell’ostaggio. La fotografia del dissidio ruba l’Imago, come il ribelle l’utopia, l’una e l’altro sono depositari dell’indicibile e l’attimo della loro diserzione da tutto quanto è merce o mediocrazia, segna il disvelamento dell’efferatezza, della proclamazione e del provincialismo. “Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di comparabile all’incendio del Reichstag e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato nessun colpo di cannone. Tuttavia, l’assalto è stato già lanciato ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere (Alain Deneault)”6, hanno anestetizzato i cittadini nella “meritocrazia” ed eletto a modello la mediocrità.
Ecco perché occorre buttare all’aria lo scacchiere sociale e la corruzione sul quale poggia… l’abnegazione a tutto, la credenza standardizzata, l’educazione alla stupidità, corrispondono esattamente alla media della popolazione che si rispecchia nei loro rappresentanti, leader o profeti: “Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe” (Robert Musil)”7. Quando sono finite le riserve di disprezzo contro la governance della forca o del clientelismo, agli uomini non restano che le secche dell’atarassia!… che non hanno nulla che vedere con i giardini degli epicurei, semmai con le fasce matide di peste dei monatti e, di solito, i monatti erano condannati a morte, addetti a trasportare i morti nei lazzaretti. L’ineleganza dei nuovi monatti ha un pregio, non si nasconde… vibra di cattiveria o isteria di bassa lega… dissimula una sapienza apostolare che stordisce ed entra o esce di scena con un tono da kermesse della loquacità. Eppure dappertutto si respira un odore di carogna? Ci sale alla mente Alice nel paese delle meraviglie8… non sottendeva forse che sono i delicati che ragionano e non possono misurarsi coi beoti che credono o pregano dei feticci? Alice e il reverendo Lewis Carroll (fotografo d’alto lignaggio che ne dettò le avventure), avevano compreso che il tanfo della feccia viene sempre dall’alto.

La fotografia di liberazione dell’immaginario assoggettato che la Modotti sparge, senza rimpianti, nel pattume delle coscienze… manifesta un’elegia visuale che implica il punto di vista dei poveri, è anche una richiesta di rispetto dei diritti umani che discopre i pretesti del potere e mostra che la politica coloniale è figlia della politica industriale e dei loro armigeri! Non esiste nessun uso incolpevole o ingenuo dell’immagine e della libertà. Potere significa oppressione, dominazione, coercizione. La società degli eguali ha per fine la partecipazione degli uomini alla vita comune. In una società di liberi e uguali ciascuno è l’espressione della propria capacità di amare l’altro, il diverso da sé… ed è parte fondante della società di mutuo soccorso alla quale tende. Il primo atto di disobbedienza nasce col primo grido di libertà.

L’immaginale fotografico della Modotti va oltre l’eloquenza dell’inganno, si affranca all’interdetto e lo esterna… diffidare sempre di ciò che viene detto/fotografato con chiarezza, perché la chiarezza altro non è che il versante accogliente dell’ombra, così chiosava Edmond Jabès, il maestro. Il fascino delle stelle, come dell’amore, è l’inconosciuto d’ogni aspetto dell’arte… l’imperfetto creativo che fa della realtà interiore la sacralità o il sacrilegio di tutte le perfezioni violate… l’opera più compiuta resta indecifrata, poiché è la brace che alimenta il fuoco della lirica che ne configura l’autorevolezza… là dove c’è creazione radicale, c’è distruzione di ferite secolari della ferocia di pochi sul maggior numero. Poiché l’orrore s’impone e la sofferenza si spiega da sé, il giudizio del potere è sempre giudizio d’assassini! Si tratta di sostenerlo o di denunciarlo! La ribellione sta tutta in una sfogliata dell’inatteso! in un colpo di dadi! in un’azione che tenta di demolire il male e l’apogeo del suo delirio.
Il male fatto conserva il suo carattere di irrealtà e nella semplicità dei criminali che albergano nei centri di potere muta il dolore in abominio o passività! “Lasciare che l’immaginazione si attardi su quel che è male implica una specie di viltà; si spera di godere, di conoscere e di accrescersi mediante l’irreale… Dopo aver attardata la propria immaginazione su di una cosa malvagia, se si incontrano altri uomini che la rendono obiettiva con le loro parole e azioni e così sopprimono gli ostacoli sociali, si è già perduti. Che cosa ci può essere di più facile? Nessun punto di rottura; quando si vede il fosso, lo si è già passato. Per il bene, è il contrario; il fosso è visto quando dev’essere oltrepassato, al momento del distacco e della lacerazione. Non si cade nel bene. La parola bassezza esprime questa proprietà del male” (Simone Weil)9.

Tina Modotti Ph. Edward Weston

La stabilità sociale si organizza sulla pacificazione e sottomissione dei miserabili o degli ingenui!
Il peso e la grazia dell’iconografia della Modotti si dipana sui volti, corpi, gesti… una geografia aurorale che si raccorda con l’essenziale… una fame di eguaglianza che racchiude in sé qualcosa di tenace, commovente, anche, che infrange le asperità dei bassifondi… l’innocenza dei bambini, la dignità delle donne, l’orgoglio degli uomini in lotta… non accettano l’infelicità né la consolazione… né rivestono l’iconologia dello schiavo… si spogliano invece d’ogni privazione che obbliga allo sgomento e alla rassegnazione… la fotografia è sangue seccato nella piaga, dove la bruttura dispiegata nell’incontro amoroso muore con la prima carezza osata! La cupidigia dei potenti produce odio, rancore, sopraffazione… l’amore degli uomini in libertà, disgusto, scherno, spregio contro la cattività e sparge ovunque e con tutti i mezzi utili, la fine di sconfinate misericordie.

Il lessico fotografico della Modotti trascende e dirotta l’insensatezza della realtà… è il respingimento d’ogni autoritarismo e nella sostanza del suo pensiero politico c’è la medesima vampata libertaria della rivolta, più che della rivoluzione, che ritroviamo nella filosofia ereticale di Pëtr A. Kropotkin, Ernst Jünger, Albert Camus, Hannah Arendt, Carl Schmitt o Ulrike Meinhof 10… una dissociazione dalla società dell’imposizione e lo spostamento al meridiano zero della sollevazione o sconvolgimento o tumulto dell’intolleranza… l’Anarca, il ribelle, il partigiano o il guerrigliero che sfida l’accidia delle istituzioni in nome della libertà di enunciare un altro umanesimo! “Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo almeno a vivere il tempo della rivolta”, Albert Camus, diceva… e la rivolta ha sempre a che fare con la cancellazione del sopruso. Chi come noi è nato nella pubblica via e ha conosciuto l’indigenza, la povertà, la miseria… e non ha tuttavia conosciuto l’infelicità… ha fatto di un’infanzia intramontabile l’utopia libertaria che è al fondo di ogni anima bella… una certa ostilità contro le categorie/ideologie sia di sinistra sia di destra… una lotta continua contro i santuari del capitalismo globale… l’inclinazione alla risorgenza sempre in atto dell’insurrezione popolare! Un canapè della speranza come sentire dell’umano nell’uomo.

Il portolano fotografico della Modotti è di una nudità prosaica senza fascinazioni per l’immagine rifinita, goduta, posseduta… gli occhi di un bambino, l’eleganza povera di una donna o gli attrezzi di lavoro dei proletari senza voce né volto… sembrano uscire dalla narrazione del bene contro il male di Melville, Moby Dick, specialmente… più che da un reportage di un giornale politico… qualcosa che si riconosce nell’immaginazione della realtà rivendicata e il declino dell’Occidente di Spengler (troppo sbrigativamente apostrofato come autore di “destra” o inattuale)11, inchiodati nella supremazia della ragione che ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni del potere!… ha esiliato la bellezza nelle guerre, nelle merci, nelle piantumazione del linguaggio mediatico/massificato ovunque e fatto della modernità tecnologica il cantico dell’ingiustizia.

La sapienza del cuore messo a nudo di Baudelaire12 risuona in ogni figurazione/composizione della Modotti… la fotografa s’accosta alla surrealtà quanto all’allegoria che la include… specie nelle folgorazioni di attimi scippati a oggetti, fiori, ambienti… un invito a dubitare anche del popolo, del buon seme, dell’ispirazione e dell’evidenza, Baudelaire, diceva… una specie di diario intimo che poggia non sulle convenzioni ma sulle passioni… quasi un sussulto, un tremore, una sensibilità delle piccole cose sradicate all’apparenza… una sorta di gnosi atea che destina la ricchezza dell’uomo nell’azione salvifica che ne riflette il senso… quindi rose, scalinate, fili della corrente o bettole, financo marionette da teatro di strada… sembrano configurarsi con una platea svestita d’illusioni… mostrano che i padroni dell’immaginario hanno sempre ragione, sono quelli che ubbidiscono al narcisismo o compiacimento che si rendono ridicoli. I grandi fotografi sono quelli che entrano nell’alfabeto fotografico e ne escono poveri, ma arricchiti dalla conciliazione tra giustizia e libertà!
Le fotoscritture della Modotti si chiamano fuori dal ricamo grammaticale o mercatale… non hanno la pretesa di edificare morali, convincimenti e ingiunzioni… è un’estetica dell’imperfezione quella che questa fotografa impertinente esprime… il suo sguardo attraversa la prepotenza del forte sul debole e presuppone un rovesciamento della notizia a favore dell’eterna bellezza che gli uomini del disinganno si portano addosso. La Modotti dissipa la disinvoltura dei maestri… la capacità e il bisogno della ripetizione etica/estetica come seminagione di un’arte del vivere… non fa processi sommari contro i mallevadori della violenza, ma si schiera con chi l’ha sempre combattuta. Cerca di nutrire una diversa sensibilità, un’altra percezione dell’esistere, una visione del giusto che ignuda ciò che lo tradisce o lo depreda! Alla maniera di Dostoevskij, Balzac, Kafka o Pasolini… carica le sue immagini di scenari appassionati e mostra che un popolo vale per quanto si oppone alla condizione sociale nella quale è allevato, tenuto o imprigionato. Poiché l’uomo è fatto della stoffa con la quale s’innalzano i patiboli, solo una ballata alla rivolta e all’amore può spaccare qualsiasi culla di costrizione. Quando l’uomo mette a tacere i suoi pregiudizi, fa crollare anche tutti gli idoli che l’incatenano al patteggiamento con Dio o il Diavolo.

L’intera fotografia della Modotti è fuori misura… crea la storia dei suoi disordini… e il suo fare-fotografia non può viversi se non mediante la rivolta dello sguardo… la Modotti è tra quegli artisti che non si sono messi al servizio di coloro che fanno la storia, ma dalla parte di chi la subisce! Sui crinali della verità e della libertà… erede di rivoluzioni sconfitte, mai vinte! In opposizione a linguaggi impazziti, ideologie del disamore, intelligenze prostituite all’economia della distruttività, la Modotti fotografa lo slancio dell’amicizia, la circolarità dell’amore, la generosità della gente semplice (non “comune”) che non accetta il mondo come è… la sua contestazione è ispirata al valore della solidarietà, della condivisione, della fratellanza che portano alla rivoluzione umana.

La fotografia dell’incondizionale della Modotti si definisce in empatia alla poetica che l’autorizza a scegliere tra la condiscendenza e la disobbedienza… il cammino artistico che intende capovolgere le prospettive, non sottomette il politico all’economico ma pone la politica a fianco della visività eidetica e riduce il ruolo dell’artista idolatrato dal mercato nel suo opposto… sotto ogni taglio la si voglia vedere, la fotografia della Modotti non contiene la “morale da padroni” disciplinata dall’industria culturale… è un’esortazione alla resistenza di coscienze che sfidano la soggezione e la proibizione dell’onnipotenza del corpo politico… una vitalità/sensualità senza Lenin o Marx, tutta vissuta tra Rimbaud e Bakunin… contagiata dai cattivi esempi di Fourier o De Sade che inneggiavano alla scelta d’amore senza tabù o totem… uno sconvolgimento libertario che si abbeverava al reincanto del mondo.
La fotografia sovversiva della Modotti è un’interrogazione del potere e la confutazione a demarcazioni che emergono dall’ossessione ideologica/religiosa della civiltà dello spettacolo… in anticipo sui tempi, la rivoluzionaria con la macchina fotografica, aveva compreso che “non si può servire il capitale, ma metterlo a disposizione degli uomini. Il trionfo del capitalismo ha firmato la condanna a morte del politico e della politica di amministrare gli uomini come fossero beni. L’uso libertario dell’economia permetterebbe il ritorno del politico e dei titoli nobiliari, che non avrebbe mai dovuto abbandonare quest’arte della vita in comune diventata, dopo la rivoluzione industriale, la scienza dell’assoggettamento   degli   schiavi   al padrone” (Michel Onfray)13. Tutto vero. Il sentimento autentico della fotografia della Modotti si rovescia nell’atto di credere d’avere ancora qualcosa cosa da dire e la rivelazione che la fotografia suggerisce è uno squarcio sulla frontiera del presente, storia di un pensiero, sovente spudorato, che spalanca gli occhi sull’oblìo… i fotografati sono creature strappate all’identico… poiché la dignità di un volto è la somma di tutte le storie diseredate che l’hanno preceduto!… soltanto la fotografia che tocca da vicino si prepara all’incontro quanto allo scontro… e siccome il terrore si sconfessa da sé, il dolore del fotografo non giudica la vittima, ma chi l’ha uccisa.
Il talento creativo della Modotti si riversa nelle sue azzurrità discorsive: «Ogni volta che si usano le parole “arte” o “artista” in relazione ai miei lavori fotografici, avverto una sensazione sgradevole dovuta senza dubbio al cattivo impiego che si fa di tali termini. Mi considero una fotografa, e niente altro». E ancora: «Metto troppa arte nella mia vita e di conseguenza non mi rimane molto da dare all’arte». Il sublime, il blasfemo o l’urlo non c’entrano nulla con l’arte né con la punteggiatura di spiriti liberi… l’artista procede dal vissuto all’opera (e viceversa)… i dizionari o la sintassi non lo interessano… l’Iliade, l’Apocalisse o Shakespeare partecipano alla sua asciuttezza architetturale/formativa per tradirne la perfezione… è bello, giusto e buono ciò che è incline alla diserzione della propria compiutezza… e non c’è pubblico né adepti che ne possono asserire la finitezza, solo fare del sogno dell’arte per tutti o per nessuno, una miniatura! Il genio non può diventare cosa di cui s’impadroniscono i concilii… il grande bene sta solo nell’arte che porta la dissidenza del vero nell’impensato. Anche il più povero degli uomini, come Dio, esige di testimoniare la condizione nella quale si trova o l’hanno buttato… come nel legno intagliato, la bellezza gemina una ferita e ogni conoscenza passa per il pugnale che garantisce l’assassinio o le schegge insanguinate dell’uomo in rivolta! Quando la fotografia prende il posto del vocabolo che l’attesta, potrai dire di conoscere il mistero delle stelle e l’esultanza delle parole rubate a tutti i libri, e affermare che ogni immagine è specchio-memoria dell’intera umanità.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 1 volta gennaio 2022

1 Dayle M. Bethelm, La creazione di valore. Vita e pensiero di Tsunesaburo Makiguchi, Esperia, 2018

2 Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2014

3 E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, Adelphi, 1996

4 In oltre trent’anni abbiamo disseminato in libelli ciclostilati, pamphlet irriverenti o saggi in lingua rovescia, una controstoria della fotografia senza la pretesa di fare discepoli in nulla, se non quella di fare della sovversione non sospetta dell’immaginario fotografico, una visione non edulcorata della realtà: Contro la fotografia. Il linguaggio sequestrato delle scimmie e l’incendio dell’impero dei codici. Teoria, pratica e messa a fuoco della scrittura fotografica, L’Affranchi, 1996; Della fotografia situazionista. Storia ereticale della fotografia sociale. Sulle scritture e i simulacri fotografici della civiltà dello spettacolo nell’epoca della simulazione dell’impostura. Critica radicale del linguaggio iconologico come linguaggio politico, religioso e artistico mercantili, La città del sole, 2004; Fotografia situazionista della rivolta. Dal sessantotto alle attuali insurrezioni nel mondo arabo, Mimesis, 2011; Né fotografia né fama: Saggio sull’arte di strisciare a uso dei fotografi, Ciost Edizioni, 2015; La fotografia ribelle. Le passioni e i conflitti delle donne fotografe che fecero l’impresa, NDA 2017; La fotografia in rivolta. Controstoria della fotografia attraverso le opera di 32 grandi artisti, Interno4, 2019; Merde de la photographie. Trattato di resistenza e insubordinazione. Sovversione non sospetta del linguaggio fotografico, considerato nei suoi aspetti sociali, politici, religiosi e specialmente culturali e di alcuni mezzi per porvi rimedio. Anche la fotografia è da distruggere! Per una controstoria della fotografia vol. X (inedito).

5 Edmond Jabès, Il libro della sovversione non sospetta, Feltrinelli, 1984

6 Alain Deneault, La mediocrazia. Come e perché i mediocri hanno preso il potere, Neri Pozza Editore, 2017

7 Robert Musil, L’uomo senza qualità,

8 Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie-Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò, a cura di Martin Gardner, BUR, 2015

9 Simone Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, 2021

10 Pëtr A. Kropotkin, Lo specchio della rivoluzione, Casa Editrice Vitagliano, 1920; Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi, 1990; Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 1981; Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, 1996; Carl Schmitt, Il partigiano, Adelphi, 2005; Ulrike Meinhof , Rivoluzione e guerriglia urbana, NdA, 2021

11 Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Aragno, 2017

12 Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, Adelphi, 1994

13 Michel Onfray, La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione, Fazi Editore, 2008

Manifesto per una fotografia dei diritti umani resistenza sociale, disobbedienza civile e poetica dell’immagine

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