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PIER PAOLO PASOLINI. Accattone

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PIER PAOLO PASOLINI. Accattone

L’ANARCHIA DI ACCATTONE. Pier Paolo Pasolini, il poeta di Casarsa della Delizia, esordisce sulla bianca palpebra dello schermo con ACCATTONE (1961), ed è subito cinema di eresia.

“Amo tutti gli uomini nella loro umanità e perciò che essi dovrebbero essere, ma li disprezzo per quello che sono”. Emile Henry

ACCATTONE (1961)

L’ANARCHIA DI ACCATTONE. Pier Paolo Pasolini, il poeta di Casarsa della Delizia, esordisce sulla bianca palpebra dello schermo con ACCATTONE (1961), ed è subito cinema di eresia. Il Cristo in forma di Accattone che Pasolini trasporta sullo scher­mo dai suoi “romanzi di strada”, si chiama fuori da ogni cristologia corrente e an­che i richiami ad un’antropologia dell’emarginazione (che in molti vi hanno vi­sto…) non lo riguardano. “Sono passato così, come un vento dietro gli ultimi muri o prati della città – o come un barbaro disceso per distruggere, e che ha finito col distrarsi a guardare, baciare, qualcuno che gli somigliava – prima di decidersi a tornarsene via” (Pier Paolo Pasolini). ACCATTONE figura da subito la “cinelingua” o la “lingua dei corpi” di Pasolini come regista, ed è forse il più grande debutto nel­la storia del cinema italiano. Accattone/Vittorio (Franco Citti) è un sottoproletario delle borgate romane. Non lavora, vive facendo il “pappone” di una puttana, Maddalena (Silvana Corsini). Abitano in una baracca semidiroccata con Nannina (Adele Cambria), la moglie e i figlioletti di Ciccio, un guappo/sfruttatore che è in galera. Le giornate di Accatto­ne passano lente, quasi immobili, in un baretto sgangherato insieme agli amici (Mommoletto, Piede d’oro, il Capogna, Pupo biondo, Peppe il folle, il Tedesco, Balilla, Cartagine, il Cipolla, il Moicano)… abbacinati dalla svogliatezza di vivere. Per mostrare di non aver paura della morte e anche per raccattare un po’ di soldi, Accattone si tuffa da un ponte nel Tevere dopo aver mangiato e vince la scommessa. Alle sue spalle appare per la prima volta nel cinema Pasoliniano, un “angelo di marmo” che sembra proteggerlo. In modi diversi o sotto altre spoglie, la visione angelica pasoliniana sarà una presenza costante nella sua opera filmica. È un “an­gelo necessario” che annuncia una vita fantastica che è alla fine o al fondo di noi stessi. È l’“angelo dell’accoglienza” che fa della sensibilità e della tenerezza la tra­sparenza dei sogni. È l’“angelo dell’immaginazione” che porta la lieta novella dell’amore – da cuore a cuore – e fa della fanciullezza il centro focale dove uguaglianza e diversità si fondono nella favola bella e malinconica dell’infanzia. Il film ha un sussulto, quasi un fuori scena di derivazione Nouvelle Vague… quando appare la banda di napoletani… vogliono sapere chi ha fatto la spiata e mandato il loro amico Ciccio (sfruttatore di Maddalena prima di Accattone) in carcere. Accat­tone tradisce Maddalena e dice ai napoletani che è stata lei a denunciarlo. La donna viene investita da una motocicletta. Deve restare a letto con una gamba fasciata. Ac­cattone la schiaffeggia e la costringe ad andare a battere il marciapiede come ogni sera. I napoletani la prendono, la portano in una discarica e la picchiano a sangue. Sullo sfondo le luci di Roma abbagliano un cielo nero e le grida della donna si per­dono nella notte. In questura Maddalena non denuncia i suoi aggressori ma Carta­gine e Balilla, non fa il nome di Accattone e viene rilasciata… Maddalena è accusata di falsa testimonianza e deve scontare un anno di carcere. Accattone resta solo. Sen­za soldi, senza nessuno che lo aiuti. Va a trovare la sua ex-moglie Ascenza (Paola Guidi) che lavora in una laveria di bottiglie, per chiedere dei soldi. Qui conosce Stella (Franca Pasut), una ragazza bella, ingenua (figlia di una prostituta), fuori del tempo e della storia. Accattone s’innamora di Stella e vanno a vivere nella casupola di Nannina. Per comprare le scarpe a Stella, ruba a suo figlio un’esile catenina d’oro. Accattone, per amore della ragazza cerca anche di lavorare, da un fabbro. Il primo giorno di lavoro è sfinito. Quando ritorna in borgata gli amici lo prendono in giro, scoppia una rissa e Accattone viene pestato. La notte fa uno strano sogno. Vede i cadaveri dei napoletani nudi, semisepolti sotto la terra e lui col vestito della festa che va al suo funerale. È in ritardo, gli amici lo chiamano, manca solo lui. Ai cancelli del ci­mitero il becchino (Polidor) lo ferma… a lui è vietato l’ingresso. Tutto è inondato di luce, è il Paradiso. Il becchino gli scava la fossa in una zona d’ombra, Accattone gli chiede di essere seppellito un po’ più in là, al sole. Accattone cerca di avviare Stella alla prostituzione ma al suo primo cliente la ragazza rifiuta di fare la marchet­ta e scoppia in lacrime. Intanto una puttana, Amore (Adriana Asti) è arrestata in una retata e finisce in cella con Maddalena e altre prostitute (tra queste si riconosce un’interessante Elsa Morante). Amore dice a Maddalena che il suo ex-protettore sta ora con Stella. Maddalena lo denuncia e la polizia controlla i suoi movimenti. Ac­cattone, Cartagine e Balilla girano per Roma per mettere a segno qualche furtarel­lo. Mentre rubano dei salumi da un furgone, vengono scoperti dalla polizia. Accat­tone inforca una motocicletta e fugge… fuori campo si sentono gli stridori di una frenata e il colpo di uno scontro… Accattone va finire contro un camion e con la te­sta sanguinante sull’acciottolato, morente, dice: “Mò sto bene”. Balilla si fa il se­gno della croce (alla rovescia) con le manette ai polsi. Il debutto di Pasolini come autore cinematografico è fulminante. ACCATTONE fa su­bito scandalo ed è subito poesia in forma di cinema. L’universo del sottoproletaria­to romano diviene una metafora del mondo e quei primi piani, le grezze panorami­che, la sacralità dei corpi di una gioventù alla deriva della civiltà dei consumi che avanza dal centro della metropoli ed esplode in quelle periferie assolate… portano in sé una diversa tecnica filmica e una diversa poetica cinematografica che fanno di questo film una specie di “ballata neo(sur)realista” d’irripetibile bellezza. ACCATTONE racconta l’emarginazione suburbana romana ma è evidente che la me­tafora si allarga ai Sud del mondo. È una storia che sviscera la profonda miseria del­le borgate di Torpignattara, del Pigneto e dai margini della grande città riporta alle radici di un’esistenza offesa, bastonata, deflorata senza rimedio. Pasolini coglie i segni della condizione umana povera e vigliacca di personaggi che vivono ai margi­ni delle periferie e da qui ne escono in galera o morti. In questa degradazione esi­stenziale Pasolini vede “qualcosa di sacro” che crolla nella caduta personale di Ac­cattone e nello stesso tempo risorge nel segno della croce blasfema finale di Balilla. “La morte, il presentimento della morte domina, è una presenza – ora segreta, ora esplicita – sospesa sul film dalla prima all’ultima inquadratura” (Morando Moran­dini), che infonde all’opera un percorso primordiale, quasi una lacerazione di un’innocenza ritrovata e immediatamente perduta sulla quale si può solo piangere o bestemmiare. È vero quello che ha detto Jean Collet – ACCATTONE è fratello di MOUCHETTE – (…hanno lo stesso assetto visionario che li conduce nei luoghi della trasversalità ereticale e nell’incoscienza di una crudeltà amicale, fraterna, doloro­sa… trasmutano lo schermo in un sudario passionale che si chiama fuori dalla storia quotidiana. ACCATTONE è “un film ambiguo, lacerato, dunque un’opera d’arte” (Jean Collet). Lo sguardo pasoliniano su Accattone è inquietante, sofferto ma anche distaccato. Non giudica la sua vita, ne comprende la sua disperazione. Non ci sembra (come dice Alberto Moravia) che Accattone è “soprattutto l’espressione d’una sclerosi etica, di un’inconscia volontà suicida”, piuttosto vediamo in Accattone un testi­mone tragico dei mondezzai (delle periferie del mondo) prodotti dalle forme di discriminazione/sperequazione della collettività moderna. ACCATTONE contiene in sé secoli di dolore e di sottomissione di un’umanità dimi­nuita. È un discorso sulla fame, sulla miseria, sulla solitudine… che si prende gioco di ogni politica, di ogni fede e fa della condizione emarginata l’ultimo strappo di un sociale profanato per sempre. Quello di Accattone è un destino tragico che si avvolge nel mito e nell’incoscienza di chi affronta il quotidiano giorno dopo gior­no, morso dopo morso. Pasolini costruisce un apologo contro la pacificazione do­mestica piccolo-borghese, sceglie l’inquietudine come insicurezza e interrogazio­ne dell’esistenza di tutti. Le cifre stilistiche/espressive di ACCATTONE sono elemen­tari e gli omaggi a Ejzenstejn, Dreyer, Mizoguchi, Chaplin o Bergman si ricono­scono senza difficoltà… le baracche della periferia romana, l’immondizie, le facce irripetibili di un popolo miserabile schiacciato sotto l’avanzare della modernità vanno a comporre un florilegio iperreale della “diversità”. La figura di Accattone è stata associata a un “cristo anarchico” (Sandro Petraglia). Non ci sembra così. La sacralità o la fatalità psicologica nella quale il film è deposi­tato, è piuttosto un espediente narrativo e la degradazione viscerale di un uomo che vive nel fango e nella polvere (ha detto da qualche parte, Pasolini). ACCATTONE in­treccia la surrealtà maledetta di opere disperate che hanno scritto la storia del ci­nema e dell’uomo, con i resti dello splendore neorealista contaminato da riferi­menti pittorici medievali e dalla musica di Johann Sebastian Bach, che conferisco­no al film un’aura innovativa del linguaggio cinematografico.

La fotografia in bianco e nero (Tonino Delli Colli) di ACCATTONE è “cruda”, “grez­za”, racconta lo stupore del “vero” senza cadere nella retorica della cronaca o del falso documentario. Pasolini chiese a Delli Colli una fotografia sgranata, contrasta­ta, tagliata sui bianchi e sui neri. Delli Colli usò la pellicola Ferrania P. 30, la più dura che si trovava sul mercato… “da un positivo fu fatto addirittura un controtipo, ossia fu stampata bene una copia dal negativo diretto, e poi da questa copia, da que­sto positivo, fu ricavato un altro negativo. Il tutto, quindi, si indurì persino mag­giormente” (Tonino Delli Colli) e il film assunse un’aura di grande spessore emo­zionale/figurativo che proietta Pasolini accanto ai maestri dell’irriverenza poetica come Chaplin, Dreyer, Welles, Buñuel o Bresson. L’essenzialità figurale di Pasoli­ni supporta non poco l’approssimazione scenografica… sovente la cinecamera sfio­ra, si sofferma, descrive i numerosi comprimari di Accattone che emergono dalla loro realtà devastata e qui la lezione etica di Rossellini, De Sica o Buñuel esplode in tutta la sua forza comunicativa. Il montaggio (Nino Baragli) è frammentato… a tratti lento, largamente giocato su metafore ardite o contrasti improvvisi, delinea già la magia affabulativa sulla quale Pasolini costruirà tutto il suo cinema a venire. I montatori (italiani) erano abituati ad aggiuntare la pellicola sulle uscite e le en­trate in campo… procedimento che non esisteva nel film di Pasolini, che faceva “un controcampo a Frascati e un altro a Venezia” (Nino Baragli). Proprio come Welles, Ejzentstejn o Buñuel. Quando Pasolini “decideva di fare un campo lungo o un pri­missimo piano, avevo l’impressione di assistere all’invenzione del campo lungo o del primissimo piano. La prima volta della storia del cinema” (Bernardo Bertoluc­ci). Il tocco filmico pasoliniano è subito chiaro: cinecamera libera (anche a mano), inquadrature forti, primi piani azzardati, lente panoramiche… tutto immerso in un’estetica della trasgressione che trasfigura l’impossibilità di vivere il reale nei recinti istituzionali e delinea l’utopia dei senzastoria che scardina il pensiero pro­tetto dello Stato. Sono tematiche che scivoleranno in ogni lavoro pasoliniano (ci­nematografico, poetico, giornalistico o letterario) e andranno a costruire un uni­verso insanguinato dove la strada è la trasparenza dell’immaginario calpestato e la fede, la cultura o la politica il male di esistere nel cerchio conviviale della civiltà del­lo spettacolo. L’interprete di Accattone è Franco Citti, un ex-imbianchino e amico di Pasolini. “La sua miseria materiale e morale, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sban­data e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo pagano” (Pier Paolo Paso­lini), bruciano lo schermo come nessuno e fanno dei limiti del dolore, la sovversio­ne non sospetta che non ha né inizio né fine… è il rovesciamento del convenzionale e della temporalità addomesticata, il capovolgimento di una situazione statica che dà voce al silenzio genuflesso degli oppressi. Pasolini è, su molti piani, l’interprete più “scoperto” di un’umanità emarginata, depredata, violentata… la trasgressione che porta sullo schermo, nei libri, nella vita personale e quotidiana è quella di una presenza forte e anomala, che schianta l’insieme della cultura del sospetto e fa della fede politica/religiosa i luoghi della sofferenza e della rivolta. Al fondo di ogni trasgressione c’è la ribellione contro il Padre, contro Dio, contro lo Stato… e solo attraverso la trasgressione l’uomo è capace di divenire padrone del­la propria intelligenza e rovesciare il prestabilito della propria epoca. Citti nasce nella borgata di Torpignattara… conosce la guerra, la fame, il riformatorio, la di­sperazione, l’inesistenza, la non-vita, la merda… la prima volta che ha fatto l’amore è stato con una puttana. Il riformatorio è l’unico posto che ricorda come casa sua. “Mi facevo dei ragazzini in riformatorio. Ce n’erano per lo meno tre innamorati di me… con la scusa dell’età o del brutto muso ti approfittavi di quelli che avevano più di te, di quelli che ricevevano dai parenti più soldi, più regali, più pacchi-viveri. Quella era vita. Vinceva chi riusciva a coltivarsi il più gran numero di ‘culetti bian­chi’, come chiamavamo quelli che venivano da Milano o soltanto dal Nord” (Franco Citti). Il personaggio di Accattone nasce nelle pizzerie, nelle osterie, sul tramvetto azzurro di Grotte Celoni, nei racconti di borgata che Sergio e Franco Citti (davanti a un li­tro di vino) facevano a Pasolini. Accattone era uno che esisteva davvero, se ne parla­va tra “i malandri della Acqua Bullicante, come di un paraculo senza fissa dimora che viveva di espedienti. Una specie di «leggenda» di periferia, un Robin Hood da quattro soldi, che non rubava ai ricchi per dare ai poveri, ma che si rimediava la giornata per sopravvivere. Magari fregando un altro povero, ma che non era mai tanto povero come lui” (Franco Citti). Lo chiamavano Accattone perché “accatto­nava la vita” e poi tutti nelle borgate avevano dei soprannomi. Il quel micromondo di diseredati tutti parlavano di Accattone ma nessuno lo conosceva bene. Appariva e scompariva dal nulla. Ogni tanto in borgata venivano a sapere che aveva fatto un colpo al Tiburtino Terzo o al Prenestino, poi più niente per lungo tempo. In prin­cipio, i produttori di Accattone volevano come interprete Franco Interlenghi… Pa­solini insistette su Citti e crediamo che il suo volto/maschera del sottoproletariato universale, sia una delle più grandi rivelazioni della storiografia cinematografica italiana. Lo sguardo obliquo, la camminata non impostata, la gestualità essenziale, il sorriso ironico di Citti… “bucano” lo schermo almeno quanto l’interpretazione corrosiva – maschilista – di Marlon Brando (IL SELVAGGIO) o quella schizofrenica – effeminata – di James Dean (GIOVENTÙ BRUCIATA), ma lì è la fiction hollywoodiana che parla, in Citti è la vita della periferia che insorge e debutta sulle sue macerie. ACCATTONE è stato il primo film del cinema italiano a essere vietato (con un apposi­to decreto) ai minori di 18 anni. Le riprese del film furono effettuate tra l’aprile e luglio 1961. Per gli interni, vennero affittati i teatri di posa Incir De Paolis. Per gi­rare gli esterni, la piccola troupe si spostava nella periferia romana (Via Casilina, Via Portuense, Via Appia Antica, Via Baccina, Ponte degli Angeli, Acqua Santa, Via Manunzio, Ponte Testaccio, il Pigneto, borgata Gordiani, la Maranella. Subiaco (il cimitero). Il negativo adoperato non superò 50.000 metri e la copia definitiva du­rava 116’ e 32 secondi (3.188 m). I manifesti pubblicitari del film (splendidi), fu­rono eseguiti su bozzetti di Carlo Levi e Mino Maccari, il costo approssimativo si aggirò intorno ai cinquanta milioni, quanto un film di “serie B” di quegli anni e forse meno. Scelto per la XXII Mostra del Cinema di Venezia (31 agosto), il film di Pasolini ricevette fischi e rimproperi. Pochi capirono di trovarsi di fronte a un’ope­ra d’arte. I settimanali avvertivano i lettori che si trattava di “un film sui rifiuti umani” (Oggi) o che “quello di Pasolini è, insomma, un mondo a senso unico, dove non affiora mai la speranza o un sentimento capace di dare il senso della dignità umana” (Vita, 7 dicembre 1961). La “sacralità dell’autentico non trovò seguito” (Barth David Schwartz) che in pochi disertori della pubblica opinione. Alla “prima” di ACCATTONE al cinema Barberini a Roma, un manipolo di giovani fascisti cercarono di impedire la proiezione… lanciarono bottiglie d’inchiostro contro lo schermo, bombette di carta e finocchi tra il pubblico… ci furono collutta­zioni e la visione del film fu sospesa per quasi un’ora… intorno a Pasolini si strinse­ro amici e intellettuali senza museruola e ACCATTONE prese la via degli schermi di ogni parte della terra… da subito, Pasolini mostrò un “cinema di poesia”, in oppo­sizione al “cinema merce”, come linguaggio edulcorato del potere. Quando il film sarà bloccato in sede di censura e ritirato da tutte le sale italiane… non furono molti i giornalisti che gridarono alla discriminazione… e oltre all’amico Moravia, s’infu­riò Mino Argentieri, che dalle pagine di Cinema Sessanta (luglio-agosto 1961) scrisse che era importante agire contro i censori dello Stato in quanto si trattava di un film che raggiungeva la “compiutezza d’arte”. Solo un anno prima, Mario Mon­tagnana, dalle colonne di Rinascita aveva tuonato contro Pasolini per espellerlo dal­le file degli intellettuali graditi dal Partito… dietro l’epurazione chiesta da Monta­gnana c’era il fiato marcio del più sardonico, ambiguo, fariseo uomo politico che l’Italia abbia avuto dopo Benito Mussolini, Palmiro Togliatti (il braccio lungo di Stalin, colui che si è macchiato la coscienza di sangue con i massacri degli anarchici e comunisti dissidenti nella guerra di Spagna del ‘36). Nel 1962 ACCATTONE viene presentato al Festival del cinema di Karlovy Vary (Urss) e vince il Primo premio per la regia. Il coraggio dello spirito e la passione per i dirit­ti civili dell’uomo/della donna non fanno difetto a Pasolini, che infrange la “notte americana” del cinema e interrompe il gioco della commedia attoriale e della mac­china divistica. “Il cinema e la politica sono la stessa cosa. Hanno entrambi a che fare con lo spettacolo. Il cinema ha a che fare con lo spettacolo, la politica è spetta­colo, divertente o meno… C’è lo stesso scarto di partenza, stavo per dire la stessa menzogna, sia nella rappresentazione politica sia nella rappresentazione cinema­tografica commerciale” (Marguerite Duras). Pasolini denuncia col suo film, sia la menzogna politica che la menzogna del cinema. La sua opera non è solo una messa in questione delle responsabilità della classe dominante ma è anche un’accusa con­tro l’indifferenza e la passività degli spettatori. “Il genio comincia col dolore” (Marguerite Duras), la stupidità con l’euforia o la genuflessione all’ordine domi­nante. ACCATTONE esce in tempi agitati, attraversati da strappi culturali e fratture politi­che… lo schermo era stato violato da autori eversivi della “fabbrica dei sogni” e Shirley Clarke, Jonas Mekas, Lionel Rogosin, John Cassavetes o Robert Frank… avevano aperto vie del cinema a basso costo, mostrato deviazioni e turbamenti del-l’arte cinematografica. L’assalto al cinema del film pasoliniano è talmente partico­lare che nemmeno i Cahiers du Cinéma (n. 116, 1961), sempre attenti alle pulsioni nuove e ai cambiamenti radicali del linguaggio cinegrafico, non si accorgono di ciò che passa loro negli occhi… Jean Douchet ignora ACCATTONE alla rassegna venezia­nae i Cahiers preferiscono recensire DONNA DI VITA (Jacques Demy), LA NOTTE (Mi­chelangelo Antonioni), EL COCHECITO (Marco Ferreri), LES GODELUREAUX (Claude Chabrol), DOV’È LA LIBERTÀ (Roberto Rossellini), ROCCO E I SUOI FRATELLI (Luchino Visconti), THE CRIMINALS (Joseph Losey), OMBRE (John Cassavetes), BELLISSIMA (Luchino Visconti), KAPÒ (Gillo Pontecorvo), EXODUS (Otto Preminger), ESTER E IL RE (RAOUL Walsh), LA VENDETTA DEL GANGSTER (Samuel Fuller), L’ANNO SCORSO A MARIENBAD (Alain Resnais), LA DONNA È DONNA (Jean-Luc Godard, QUESTA SERA O MAI PIÙ (Jacques Deville), SPARTACUS (Stanley Kubrick), IL TESTAMENTO DEL MO­STRO (Jean Rebnoir), PARIS NOUS APPARTIENT (Jacques Rivette)… si accorgeranno della portata eversiva di ACCATTONE l’anno dopo. La cultura figurativa di Pasolini (le lezioni di Roberto Longhi su Masaccio, Piero della Francesca all’Università di Bologna sono una presenza costante nel suo fare-cinema…), reinventa “l’iconografia e il senso dello spazio nell’immagine cinema­tografica” (Gian Piero Brunetta). I primi piani dei personaggi pasoliniani, inca­stonati sullo sfondo delle periferie metropolitane si rifanno a certi affreschi medie­vali e divengono icone-simbolo di una visione materica della realtà che è propria dei grandi “sognatori” (da Masaccio a Goya, da Klee a Picasso). Pasolini assume il punto di vista delle sue immagini/metafore, sa che “non ha più senso scrivere per una classe sociale mutata e inseguendo il sogno di una rivoluzione sociale impossi­bile” (Gian Piero Brunetta)… così pone il suo cinema alla confluenza delle culture transnazionali e tra la realtà e sogno si fa soggetto politico/indocile del presente e testimone eretico/blasfemo della memoria storica del passato. ACCATTONE è il primo dei 22 film che compongono la cinevita di Pasolini. Anche se la risonanza di Gramsci e la sua idea di cultura “nazional-popolare” della classe dominata scissa dalla cultura borghese, sembra riguardare da vicino la prima sta­gione cinematografica pasoliniana… Pasolini affabula i suoi film per un’umanità ideale e in qualche modo contengono un’insorgenza (mai una prospettiva) rivolu­zionaria: la disobbedienza o la ribellione. Accattone vola un’estate… quanto basta per mostrare la sua tragedia personale e quella di tutti i sottoproletariati suburba­ni. “Una tragedia senza speranza, perché mi auguro che pochi saranno gli spettato­ri che vedranno un significato di speranza nel segno della croce con cui il film si chiude” (Pier Paolo Pasolini). La realtà pasoliniana veniva rappresentata con la realtà emarginata di Accattone, quelle facce, quei gesti, quei corpi, quelle parole… erano così nella vita come sul lenzuolo sdrucito dello schermo. La cultura che Ac­cattone esprimeva non aveva una propria morale e la sua interpretazione del mon­do restituiva il razzismo evangelizzato della classe dominante. La cultura borghese che Accattone non conosceva, era ciò che respirava e non aveva nessun mezzo (se non la violenza o la bruta criminalità) per mettere in discussione i modelli e i valori imposti. Nella disseminazione della tolleranza istituzionale (puramente formale), “tutti i borghesi sono infatti razzisti, sempre, in qualsiasi luogo, a qualsiasi partito essi appartengano” (Pier Paolo Pasolini). ACCATTONE è un’opera di straordinaria bellezza formale, oltre che un film dolce­mente poetico, indimenticabile. Accattone “non incontra sul suo cammino il parti­to comunista e non si redime neppure diventando ladro… Accattone appartiene a un mondo socialmente primitivo, le quali leggi della ragione e della consapevolezza sono confuse annebbiate… Pasolini ha osservato e giudicato i suoi personaggi dal-l’interno, nel cerchio chiuso di una sotto-società dominata da regole proprie e im­permeabile alle sollecitazioni esterne” (Mino Argentieri). ACCATTONE rappresenta la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio della periferia ro­mana, ma contiene anche la “sacralità dell’innocenza” che questa condizione di­sperata comporta, in ogni società cosiddetta “evoluta”. L’entusiasmo rende imbe­cilli anche i santi. Nella società dello spettacolo integrato (Guy Debord, diceva), dove tutto è ormai sacro, tutto si può dire o violare. In arte, come nella vita, il padre va ucciso. Il poeta è la fiamma che lo brucia e ci sono maestri della disobbedienza — come Pasolini — che con le loro affabulazioni etiche hanno inchiodato i tribunali delle banalità mercantili nel tanfo della loro epoca. Per sempre. Amen e così sia!

26 volte luglio 2005

 

Manifesto per una fotografia dei diritti umani resistenza sociale, disobbedienza civile e poetica dell’immagine

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