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Martin Eden (2019), di Pietro Marcello

Inserito da serrilux

Martin Eden (2019), di Pietro Marcello

“L’autorità non solo non è necessaria all’organizzazione sociale, ma, lungi dal giovarle, vive su di essa da parassita, ne inceppa l’evoluzione, e volge i suoi vantaggi a profitto speciale di una data classe che sfrutta ed opprime le altre.”

Errico Malatesta

La macchina/cinema non è solo merce, non è cioè un fenomeno della religione capitalista soltanto, ma è anche culto che eleva il consenso a rito spirituale. Politica, cinema, fotografia, letteratura, teatro, musica, calcio o uno chef con la faccia da scemo che cuoce un hamburger in televisione, fa lo stesso… sono legittimati dal prontuario utilitarista che non ammette sacrileghi… “la storia del cristianesimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo (Walter Benjamin). La macchina/cinema è il brutto sogno della società incatenata ai simulacri dell’idiozia. La sua funzione è di servire lo stato attuale delle cose e manipolare l’opinione pubblica… e l’esegue a meraviglia. L’iconografia del capitalismo celebra i santi del mercato e al contempo educa le masse adoranti all’obbedienza e al servaggio… inventa i loro desideri senza pietà e li destina al frantoio dell’intelligenza… la desacralizzazione del cinema come religione mercatale, sarà il compito culturale e politico della generazione che viene.

Il cinema in utopia di Pietro Marcello è una profanazione dell’incultura… contrasta i destini approssimativi di un vivere globalizzato dove perfino i biscotti sanno del tanfo di Dio o della peste di Wall Street… attraversando i suoi lavori — La baracca (2005), Il passaggio della linea (2007), lo straordinario La bocca del lupo (2009), Bella e perduta (2015), fino a Martin Eden —… si coglie l’afflato libertario di Marcello che trabocca sulla tela puttana del cinema e deterge il linguaggio imposto dal mercato… gli affari e la politica uniformano, allineano, modellano i molti sotto il tallone di ferro dei pochi e impediscono lo sviluppo della libertà autentica… la realtà annichilita, alienata nella mistica dei “marchi di fabbrica”, è raffigurata in termini bassamente profittuali e solo un rovesciamento — puro e semplice — di questo ordine crescente della volgarità economica /guerrafondaia, può restituire dignità e giustizia agli oppressi e accedere alla costruzione di una società meno feroce e più giusta.

Il Martin Eden di Marcello si chiama fuori tanto dal cinema-saponetta, quanto dal cinema-elitario… è un’opera in forma di poesia che se ha un qualche riferimento è a Pasolini o Ferreri o a Olmi che si deve guardare… la storia (tratta liberamente dal romanzo omonimo di Jack London) è quella di un marinaio che conosce una giovane borghese e la sua famiglia… s’innamora perdutamente della ragazza, inizia a darsi un’istruzione e riesce a diventare uno scrittore… i sui racconti parlano dei poveri, degli sfruttati, degli offesi di una Napoli che diventa mondo e sul filo dell’eversione socialista si trova famoso, non supera le contraddizioni del successo e si lascia morire nel mare.

L’impianto narrativo di Martin Eden è complesso, quanto affascinante… Marcello viola spazi e tempi filmici, anzi li contamina, li confonde, li aggancia allo stupore della memoria, del ricordo, del sogno infranto… la grana del film è quella degli esordi del cinematografo — dai cinegiornali dei fratelli Lumière, al cinema “povero” di Elvira Notari (salernitana, prima regista della cinematografia italiana), alla ritrattistica del documentario materico di Joris Ivens, Alberto Cavalcanti, John Grierson, più ancora riporta al “punto di vista documentato” di Leo Hurwitz, Paul Strand o Jean Vigo —… Marcello intreccia le immagini di repertorio (il film si apre su un comizio dell’anarchico Errico Malatesta) con la quotidianità di Martin Eden (uno splendido Luca Marinelli, al di là della Coppa Volpi che gli è stata assegnata per la migliore interpretazione alla mostra del cinema di Venezia 2019) e costruisce una delle più belle “cartografie visuali” del Novecento, quella degli impoveriti, degli spossessati, degli umili… c’è la ferocia del capitalismo, l’indifferenza della borghesia, le speranze (tradite) dei lavoratori… tutto gira intorno all’individualità etica di Martin Eden che si trasforma in critica della società dello spettacolo che avanza e spazza via ogni forma di fraternità, solidarietà, accoglienza: “Lo spettacolo, come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell’abbandono della storia eretto sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo” (Guy Debord)… lo spettacolare riduce gli uomini allo stato di consumatori del tempo-merce e la condizione preliminare è l’espropriazione violenta del loro vissuto. La coscienza spettatrice-consumistica è prigioniera del potere mediatizzato dietro il quale è stata deportata la vita quotidiana… là soltanto dove gli spettatori cessano di esserlo, l’emancipazione delle coscienze getterà le basi della verità capovolta, là soltanto dove il dialogo insorge per far vincere le proprie condizioni, lo Stato sarà niente e l’uomo tutto.

In Martin Eden Marcello disvela l’ideologia del capitalismo montante che riduce l’uomo a servo e preda della politica immobilizzata nella non-storia della demenza accettata, ufficiale… sono gli albori della società omologata che in tutta l’estensione tecnologica a venire (cinema, fotografia, carta stampata, telefonia, internet…) andrà a mutare la percezione dell’umano… la retorica sociologica-politica di uno spazio-tempo congelato delle conoscenze giustifica, quando non è complice, dell’organizzazione collettiva dell’apparenza… gli specialisti della sotto-comunicazione producono linguaggi (come i campi di sterminio) all’interno di un sistema che detta comportamenti e non vuole risposte… ciascuno crede a ciò che desidera ma quello che desidera è parte di una realtà unificata… l’epoca moderna inizia con l’isteria della catena di montaggio, continua con la bomba atomica di Hiroshima e raggiunge l’idolatria del divenire nella distruzione del pianeta blu… merci e guerre sono lo spettacolare integrato di universi convenuti e trattati internazionali di pace… ma là dove un bambino affoga nel Mediterraneo, c’è la decadenza della politica e la prostituzione della cultura: c’è sempre una definizione all’origine di un genocidio, ed è il vassallaggio dei dominati alla geografia delle rovine dei dominatori.

Martin Eden è una scheggia poetica che si eleva sulle macerie della ragione imposta… avversa l’accademismo (non solo) cinematografico e sparge la radicalità visionaria dei passatori di confine sulla falsificazione del non vissuto quotidiano… la scrittura lirica del film denuncia la generosità criminale della borghesia “illuminata” e fuori dalle ricette della “regale” sciatteria dei “pensatori” di politiche autoritarie, s’innesta in tutto ciò che l’uomo in libertà ama, soprattutto in tutto quello che detesta e trascolora i semi dell’utopia in fiori della storia… Martin Eden è un attacco all’individualismo nella persona dell’eroe (Jack London, diceva), è l’uomo in anarchia che di fronte al tradimento dell’indifferenza generalizzata, non trova altra via di uscita se non quella di scomparire là dove finisce il mare e comincia il cielo… certo, ricco e famoso, ma fuori da tutto ciò che rappresenta l’esistenza di una cattiva eternità.

Martin Eden si dipana in forti inquadrature, a volte leggiadre, asciutte, severe quanto quelle di Robert Flaherty in L’uomo di Aran (1934) o L’uomo del Sud (1945) di Jean Renoir… meno ricamate di La terra trema (1948) di Luchino Visconti o naturaliste di Gente del Po (1947) di Michelangelo Antonioni… è la figurazione di un uomo che non è contemporaneo a nulla se non a tutto… che segna la precipitazione politica di un popolo al destino storico di una nazione in camicia nera.

La fotografia di Alessandro Abate e Francesco Di Giacomo è una danza di colori “fuori registro” che nulla ha a che vedere con quanto passa sugli schermi italiani… sequenza dopo sequenza rivela il vero (o il sogno) piuttosto che il desiderabile… se il cinema italiano ha esiliato la bellezza nella merce e nutrito la propria desolazione nella bruttezza e nelle convulsioni manieristiche degli attori, l’estraniazione figurativa di Martin Eden riporta il cinema nel disincanto di un pensiero (quello di London) mutuato dalle letture socialiste/spontaneiste di Herbert Spencer e al superamento delle discordanze (razziali, sessuali, comunitarie…) del Moby Dick di Herman Melville… l’uomo lotta contro il male e solo l’uomo del dissidio profana le nuvole dell’immaginazione e pianta le proprie bestemmie nello spessore della realtà. La bellezza dell’uomo in rivolta passa attraverso le lacrime.

Il montaggio sapienziale di Aline Hervé e Fabrizio Federico rafforza l’architettura filmica e insieme alle musiche di Marco Messina e Sacha Ricci, si raccordano in una sorta di sinfonia visuale che travalica lo stato d’assedio del cinema-merce… i ritmi, i tempi, i chiasmi sradicano i dettati del cinema domestico… è un modo di tessere il cinema-altro o esprimere idee al servizio di una verità da conquistare… siccome, “visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo almeno a vivere il tempo della rivolta” (Albert Camus), dice in fondo Martin Eden… nella costruzione delle situazioni, nelle metafore dei dialoghi si colgono accostamenti con il ribelle di Ernst Jünger o la disobbedienza civile di Hannah Arendt… e cioè: solo nella ribellione l’uomo trascende e si appropria dell’insensatezza della realtà e la rovescia nella sostanza ereticale del presente.

La sceneggiatura di Maurizio Braucci e Marcello è feconda d’intuizioni politiche… parole e immagini aderiscono a un’idea di giustizia e libertà che s’addossa al corpo/gesto di Marinelli e rigenera affezioni verso il giusto, il bello e il bene comune… il lessico attoriale/disadorno di Jessica Cressy, Carlo Cecchi, Marco Leonardi… rafforza l’irrasegnazione (rubata a Cioran) del protagonista che si schiude alla collera, alla pietà, all’impossibilità di accettare l’evidenze dell’ingiustificabile… le vittime e i carnefici sono depositati nelle medesime illusioni che sfoceranno nella barbarie fascista… con la medesima disperata vitalità del Cristo selvaggio di Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini, Martin Eden rifiuta la violenza della storia e nel gesto più estremo non accetta nessuna morale, non riconosce niente e nessuno sopra di sé… il genio — come sappiamo da Nietzsche, Céline o Artaud — possiede la meravigliosa disinvoltura dei maestri della sovversione non sospetta, è l’intelligenza che conosce le proprie dogane e le infrange.

L’uomo in rivolta delegittima assassinio e tirannia, e là dove la vita degli uomini esce offesa dalle formule dei partiti, delle economie, dei saperi… recide valori e morali e li subordina alle proprie utopie… meglio l’inferno con l’ultimo ribelle che ha attentato all’ordine costituito che il paradiso senza di lui! “Finché non avrete deposto le armi, finché una vasta visione non vi avrà completamente roso le midolla, voi disporrete ancora della forza necessaria ad affrontare ogni spettacolo” (E. M. Cioran)… chi è incapace a stare alle regole del gioco (come diceva Jean Renoir nel suo capolavoro intramontabile, La Règle du jeu,1939), abbatte una mediocrità senza rimedio e lavora alla dissolutezza del sistema… i popoli iniziano con adorare i miti che li minacciano o li sollazzano, per finire impiccati nel marcio delle convinzioni: sotto la servitù volontaria della civiltà dello spettacolo giace il cadavere dell’uomo.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 29 volte settembre, 2019

 

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