“…Ciò che esiste non è mai altro che l’istante che viviamo.
Non ne possiamo vivere altri. Ma in esso possiamo vivere estraneità,e sorpresa,
meraviglia e protesta, tutte cose che sono nello stesso tempo passato e futuro, riconoscimento e progetto”.
Gaston Bachelard
I sogni sognati del cinema sono sorvegliati e controllati dai pianificatori della domesticazione sociale… qualche volta, anche nella “fabbrica delle illusioni” fuoriesce un film che non invita alla diserzione ma alla riflessione, come Manchester by the Sea di Kenneth Lonergan, e per finire — come anche per cominciare — la bellezza è più importante della fama e dei premi che si porta dietro… questo vale per il cinema e per ogni forma d’arte. Il cinema autentico diffida del successo… si interroga sempre su ciò che il cinema può essere… i firmamenti del cinema d’autore sono da tempo spenti, fatta salva qualche eccezione… i mondi da filmare (nella meraviglia e nello stupore dell’indignazione o della poesia) sono tutti aboliti a favore dell’ovvio e dell’ottuso… anche d’autore… il sapore di una madeleine burrosa immersa nel tè di un film di Marcel Carné o di Luis Buñuel o di Jean-Luc Godard è ormai svanita negli sbadigli dei prodotti di Quentin Tarantino, Martin Scorsese o Steven Spielberg… conseguire l’abitudine di filmare senza dire niente sembra essere la funzione principale del cinema mercantile, senza sapere mai che solo ciò che ci spinge a morire di verità è anche ciò che ci dà la possibilità di rinascere e vivere in un mondo diverso, più giusto, più umano.
Di Manchester by the Sea. Lee Chandler (Casey Affleck) è un portinaio di Boston… il fratello Joe (Kyle Chandler) muore per un attacco cardiaco ed è costretto a tornare nella sua città, Manchester by the Sea… Lee resta nella cittadina per organizzare il funerale e ha un rapporto un po’ difficile con il figlio di Joe, Patrick (Lucas Hedges)… del quale scopre di essere stato nominato tutore. Lee cerca di impedire che il ragazzo si riconcili con la madre (ex-alcolista) che aveva abbandonato la famiglia e si è ricostruita una vita con un marito tutto casa e morale… l’incontro non funzionerà e Patrick comprende presto che quello non era il suo posto.
Lee chiede a Patrick di trasferirsi a Boston, il ragazzo rifiuta… vuole restare a Manchester e curare la barca del padre.
Il regista, attraverso una serie di flashback, ricostruisce il passato di Lee a Manchester… aveva una famiglia, la moglie Randi (Michelle Williams) e tre bambini… dopo una serata passata con gli amici, ubriaco, mette della legna nel camino, poi va a comprare delle birre al supermercato e quando torna vede la casa nel fuoco, i figli muoiono nell’incendio… nel posto di polizia Lee ruba la pistola a un poliziotto e cerca di spararsi… viene fermato… l’inchiesta della polizia non lo ritiene colpevole. La moglie lo lascia e lui si trasferisce a Boston in una profonda depressione e solitudine.
Il corpo del fratello non può essere sepolto che a primavera a causa del freddo e viene messo in un congelatore… Lee e Patrick iniziano un difficile rapporto… il ragazzo vive i suoi amori adolescenziali e Lee è incapace di avere una qualsiasi relazione con gli altri… cerca un lavoro nella cittadina… un giorno incontra Randi, si è risposata ed ha un bambino… dice di amarlo ancora ma Lee fugge via e scatena una rissa in un bar. Lee comincia a comprendere l’affetto che il ragazzo ha nei suoi confronti… prima di partire per Boston decide di restare l’amministratore dei suoi pochi beni e lo lascia in affido legale all’amico George (C. J. Wilson)… al funerale di Joe (dopo che il regista ci fa vedere la tomba dei tre figli), Lee confida a Patrick che non può restare a Manchester, non può superare il dolore del ricordo. Mentre zio e nipote giocano con una palla trovata in strada, Lee dice al ragazzo che tornerà a Boston e ha trovato un lavoro migliore… con una stanza per ospitarlo quando vuole. Il film si chiude con Lee e Patrick che pescano sulla barca che il ragazzo ha ereditato dal padre. The end.
Manchester by the Sea è bello… di una bellezza tragica, certo, ma è bello… la narrazione filmica di Lonergan non è innovativa come le regie di Xavier Dolan o Kim Ki-duk, ma la forza figurativa, quasi da western moderno (alla Anthony Mann o Samuel Fuller, per intenderci), prende alla gola e l’emozione che cola dallo schermo irrompe anche nelle anime perse di spettatori abituati alle banalità televisive… le inquadrature, infatti, non sono per niente piegate alla richiesta dei mercati multimediali e il regista non teme di inserire campi lunghi o figura americana, ormai spariti dalla struttura filmica imperante (che richiede il primo piano
amplificato o il dettaglio forte, più adatti alla ricezione domestica del video/schermo).
La sceneggiatura di Lonergan (premio Oscar 2017) è intessuta di dialoghi stretti, accurati… il regista fa parlare il paesaggio e dirige gli attori in percorsi o tasselli abituali all’epica western, come già detto… la grande attorialità di Casey Affleck (già vista in The Killer Inside Me di Michael Winterbottom), premiato a ragione dall’Oscar come miglior attore protagonista, imprime al film una notevole presenza o percezione del dolore di un uomo che è stato causa della morte dei figli… qui Affleck è davvero superlativo… l’introspezione di una frattura interiore si configura negli sguardi, nei gesti, nel corpo di un uomo che inciampa fra verità irrespirabili e intuizioni di speranze che in qualche modo condivide con il nipote… Affleck riesce a comunicare anche la compassione, l’affettività, la pienezza e il disinganno di una vivenza all’inferno, e lo fa proprio riducendo al minimo il manicheismo o la schizofrenia comune (che poi è solo letteratura dozzinale) a molti attori della macchina/cinema, come l’ultimo Robert De Niro o, in Italia, Roberto Benigni. Lo straordinario non si misura in termine di premi o di consensi, niente è più miserevole della guitteria costruita dalla licenza di una merce che dispensa consensi e si disfa di pericoli culturali/politici che possono incrinare (quanto dissolvere, anche) scempiaggini e idiozie che accompagnano i fasti della società spettacolare.
“Lo spettacolo non è solo un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (Guy Debord, diceva). Ogni forma di spettacolo, compreso nella sua totalità, è allo stesso tempo il risultato e il progetto dei modi di produzione della società alienata… il modello presente della vita socialmente dominata. Anche l’interpretazione di Lucas Hedges è rilevante… il ragazzo lavora secondo una metodica sottrattiva della recitazione… non fa da spalla ad Affleck, lo affianca con la freschezza, quasi insolente della giovinezza… è complementare alla storia che il regista racconta, si ritaglia una propria esistenza, raggiunge le cime della disperazione con l’intensità e l’eloquenza di un ragazzo sballottato tra l’attesa e la paura… che lotta contro l’evidenza o all’ossessione di una realtà che lo supera. Hedges esprime una ritrattistica dell’umano e fa dell’innocenza non una crocifissione ma una reversibilità del dolore a profitto del romanzo autobiografico che ne consegue. Non raccoglie in sé “la dolce mediocrità dei Vangeli” (E.M. Cioran), non vive la realtà come destino e costruisce dallo sgomento quella forza di esistere che guarisce dai dolori passati e si proietta al di là del risentimento, fuori dalle soluzioni a basso prezzo… sa che ogni istante scippato alla storia contribuisce alla costruzione del suo divenire.
Da sottolineare l’interpretazione di Michelle Williams nel ruolo della moglie di Lee, Randi… si vede in maniera marginale, la Williams lascia comunque il segno… quando appare sullo schermo si avverte qualcosa di materico, di vero, di bellezza che coglie un dietro-mondo… ci porta a conoscenza con le cose, gli amori, la visibilità di un rapporto col marito mai finito… ci fa comprendere che è buono ciò che permette l’espansione di sé, cattivo o imperfetto tutto ciò che l’ostacola… il giudizio degli altri non conta nulla quando si ama davvero… importa solo la manifestazione della propria passione… in amore, quando è vero, tutto è permesso! In
amore, come per la libertà, niente è obbligatorio, nemmeno rispettare un contratto! il diritto di cambiare è sempre in relazione con la sconfitta della sofferenza.
La fotografia di Jody Lee Lipes è magistrale… è affabulata sui bianchi, gli azzurri e i marroni (negli interni)… insieme alla musica di Lesley Barber e al montaggio di Ruth De Jong conferiscono al film una sapienza architetturale intimamente associata all’essenzialità del regista… non è facile vedere un film, specie americano, che si avvicina all’universale attraverso i viatici del particolare… Manchester by the Sea, a ben vedere, è un’opera corale… dove Dio non è da nessuna parte e l’uomo dappertutto… ogni momento che sfila sullo schermo è epicentro di qualcosa che accade e di altro che verrà… segue una pedagogia libertaria che afferma
che ogni autorità è illegittima e si poggia sul consenso di coloro contro quali si esercita (ecco perché va respinta)… l’elogio della libertà passa dal godimento di sé e, meglio, dell’altro… l’eccellenza e lo stile di una vita semplice allora si trasfigura nel comportamento che porta fuori dal cielo dell’approssimazione e fa della magia, del mistero, della verità, della ragione un canto alla conoscenza che aborrisce i codici costituiti.
Il cinema contiene la realtà del tempo e dell’istante… non è che una costruzione della realtà o dell’immaginazione che vuol sognare e rivivere, e comprendere ciò che lo circonda… al poeta non si chiede di non dispiacere alla corporazione dei saperi… il cinema in forma di poesia o cattura il reale o lo disconosce per accedere alla verità delle cose. Siccome non c’è cinema ma solo prove di cinema, l’immaginario (non solo) del cinema rende possibile l’epifania della gioia con la materialità o l’indignazione della vita quotidiana.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 26 volte aprile 2017.