Prof. Dr. Hubertus von Amelunxen
Se ne va per le strade e nelle strade si avvicina alle persone toccando la loro anima. Gli spazi stretti o larghi, le mansarde, gli uffici commerciali, le fabbriche e le strade accolgono l‘uomo e Pino Bertelli interiorizza quegli spazi. La fotografia di Pino Bertelli rappresenta lo spazio tramite i visi, gli sguardi; una fotografia del volto. La presenza dell‘uomo caratterizza lo spazio, con la sua presenza l‘uomo caratterizza lo spazio politicamente. Il mondo per noi è immaginabile solo attraverso la presenza dell‘uomo. Pino Bertelli è considerato un fotografo di strada, va in giro, con se stesso e con la sua macchina fotografica, cattura ciò che incontra per strada, come il baudelairiano cenciaiolo raccoglie gli stracci per poi riutilizzarli o dimenticarli, vestendosi alla fine con ciò che di essi rimane.
Ma Pino Bertelli, amico di Pasolini, raccoglie, non toglie niente, anzi, dà. La sua fotografia delle persone ha un‘intenzione. E tuttavia le persone nelle sue immagini non sottostanno all‘intenzione, come se l‘incontro e l‘immagine avvenissero attraverso la magia dello spazio. Lui non prende spazio alla persona, né ascrive la persona allo spazio. Pino Bertelli pone l‘incontro come riconoscimento della singolarità umana, come momentanea liberazione, come riscatto del sé e redenzione dal corso della determinazione sociale. Per decenni ha lavorato con il materiale inanimato nell‘acciaieria di Piombino e lottato contro i rapporti di produzione, reclamando diritti con i suoi pamphlet e la sua casa editrice TracceEdizioni e opponendosi a ogni ideologia, a-narchico della fotografia e situazionista con e dopo Guy Debord.
In tutta la sua produzione – i film sulla psichiatria (1972), la fotografia (la sua prima immagine è del 1957) e i suoi numerosi libri – rivendica il diritto del volto, il viso sovrano, che si autoafferma di fronte a ogni appropriazione ideologica, a ogni reificazione. Da giovane anch‘egli un ragazzo di strada, Pino Bertelli è da sempre consapevole della problematica per cui la fotografia, come un pendolo del tempo nello spazio, oscilla dall‘essere la più misantropa delle invenzioni, come la definì Thomas Bernhard, al rappresentare la luminosa bellezza del tocco leggero del tempo che passa sul volto (Hilde Domin).
Sempre presente nel suo territorio, Piombino, si è saputo far valere, sia contro la proprietà della fabbrica che contro i sindacati.
Bertelli non stava bene a nessuno a causa del suo schierarsi senza compromessi per la dignità dell‘uomo e per la legittimazione dell‘esistenza. La fotografia per lui è una cassa di risonanza, una voce che dà in prestito alle persone che incontra in strada, negli spazi, senza distinzione di classe. Più o meno dieci anni fa cominciò ad allontanarsi dalla sua Piombino per recarsi a Chernobyl, nel Burkina Faso, in Etiopia, in Uganda e in Iraq, dove sempre ha fatto risaltare l‘uomo nell‘immagine senza mettere in scena come un ornamento metaforico la miseria dell‘inquinamento nucleare, dell‘emigrazione, della fame o dell‘oppressione. Le persone appaiono nella loro emergenza esistenziale, ma nel momento dello scatto non sono né mercificati né strumentalizzati, è come se Pino Bertelli per un momento invece della compassione restituisse loro la sovranità del essere, per sottolinearne l’esistenza almeno nell‘immagine.
Più di un quarto di secolo fa andai a trovare Pino Bertelli ,sul mare di Livorno, nella sua Piombino ricca di fortificazioni medievali, marchiata nel 20esimo secolo da altoforni, dallo stabilimento siderurgico e da grossi laminatoi, cittadina industriale di un proletariato le cui fortificazioni erano diventati i capannoni dello stabilimento. Comunicavamo a gesti, tramite la reciproca simpatia e un amico interprete, il suo gallerista di Mannheim Angelo Falzone. Tuttavia la prospettiva a mio avviso migliore nella sua semplice quanto inusuale modalità di ritratto la ebbi seguendolo per le stradine strette e nelle piccole stanze delle case. Fotografava persone nel quartiere popolare intorno al porticciolo piombinese. Una volta entrammo in un palazzo e Pino Bertelli iniziò dal piano terra a bussare alla porta per chiedere alle persone di poterle fotografare, con in mano nient’altro che la macchina fotografica.
Quasi nessuno rifiutava, perciò fotografò quasi tutti quelli che abitavano là, di stanza in stanza, di piano in piano, come per registrare le tracce della loro storia, in modo né protocollario, non imponendo nessuna espressione, né portando attrezzature invadenti. Al contrario, gli spazi venivano amplia-ti dall‘atto stesso del guardarli, diventando quasi magici nel loro potere empatico con le potenziali immagini. Era impressionante osservare ogni nuovo incontro tra le persone e la macchina fotografica, il contatto speciale di lingua, corpi e sguardi, che mischiandosi l‘un l‘altro in modo invisibile, delineavano l‘immagine, con ogni fotografia che diventava parte sintattica dell‘incontro. I gesti e i movimenti erano creati per il ritratto, il mondo è in posa davanti alla tecnica, la macchina fotografica influen-za ogni mossa e, diversamente che con matita o pennello, o con una videocamera, l‘immagine si compie non nella durata dello scatto, ma piuttosto è la conclusione, la „ghigliottina“ dell‘attimo, come Nietzsche definiva l‘atto fotografico.
Salendo di piano in piano, in ogni palazzo ci si accodavano sempre più persone e, arrivati nella stanza più piccola, nel sottotetto, se ne stiparono tante quante quello spazio minuscolo ne poteva contenere, mentre gli altri rimanevano indietro da qualche parte, tentando di guardare Pino Bertelli da sopra le spalle. In questa comunità di sguardi, nel figurarsi l‘immagine in divenire venivano realizzati i ritratti. Per un attimo, una sincope, l‘uomo appariva liberato da ogni costrizione, il suo sguardo veniva innalzato, non abbassato.
Pino Bertelli ha scritto molti libri dedicati a Diane Arbus, Jean Vigo o Pier Paolo Pasolini (a cui è riconoscente per la sua prima macchina fotografica), sul film e la fotografia, sul situazionismo. E ha scritto contro la fotografia, contro la sua canonizzazione come arte. „Fotografia di strada“ non vuol dire niente, è un genere come lo sono la fotografia di paesaggio o di guerra, il ritratto o il nudo. Con fotografia di strada si intende l‘immediatezza dell‘incontro per strada, come la conosciamo da Walker Evans negli anni 30 e da Robert Frank negli anni 50 del XX secolo, ma soprattutto da molti ignoti a partire dalla metà del XIX secolo.
Con la sua opera fotografica, Bertelli si colloca tra l‘estetizzazione del lavoro, l‘affermazione della presenza umana e la sua conservazione. Una situazione difficile per il suo potenziale di appropriazione ideologica, a cui Guy Debord rispondeva col rifiuto dell‘immagine. Le fotografie non si lasciano catalogare, esse non appartengono né alla fotografia di strada, né alla fotografia del lavoro. La famosa citazione di Brecht, secondo cui una fotografia di Kruppwerke (acciaierie Krupp a Essen, Ndt) non direbbe niente di queste fabbriche, non vale meno per le persone che dentro le fabbriche lavorano.
Oggi l‘individuo si sfuoca nelle immagini, è sfigurato, si vuole saper riconosciuto nella bellezza dell‘industria, come Jean-François Lyotard chia-mava la distruzione dell‘esperienza attraverso l‘attrezzatura tecnica della fotografia. Le immagini scattate da Pino Bertelli in oltre cinque decenni raccolgono ritratti, l‘immagine dell‘uomo nel contesto urbano e industriale per come si è sviluppato in oltre mezzo secolo. Una delle sue prime fotografie però non ritrae essere umani, non ci sono occhi a cercare sguardi al di là della carta. La facciata di un palazzo nel 1957, una scala con quattro scalini, davanti, sull‘angolo in basso a sinistra dell‘immagine, una sedia, la cui spalliera, costituita da quattro legni curvati in orizzontale, si staglia parallela agli scalini, sulla seduta rattoppata con delle tavole c‘è la custodia di una macchina fotografica, a destra, paralleli alle scale, un manico bianco e una scopa di saggina irsuta appoggiati al muro, attraversato in verticale da un tubo dell‘acqua. La facciata giù all‘altezza delle scale è di un grigio cemento, come se fosse cresciuta su dalla strada, in alto a destra penzola un vestito che da un tendipanni entra nell‘immagine, un vestito umano, un contenitore così come lo è la custodia della macchina fotografica. É un‘immagine del tempo, degli oggetti nel tempo.
Nel 1975 ne „l‘articolo delle lucciole“, Pasolini metteva poeticamente in relazione la continuità del fascismo italiano e la rapida trasformazione della realtà nazionale sull‘onda dell‘industrializzazione massiccia all‘inizio degli anni ‘60 con la scomparsa delle lucciole. Se ci fossero ancora e se fossero migrate con la loro poesia dell‘unicità dai prati, dai boschi e dai fiumi nelle città e nelle fabbriche, per manifestare un‘ultima volta la loro scomparsa, allora apparirebbe nei ritratti di Pino Bertelli il barlume delle lucciole, che riluce nell‘unicità dell‘incontro, nella forza dello sguardo. La sua fotografia è un tenero guscio dello sguardo, come se registrasse delicatamente gli sguardi in quanto dono umano. Nelle sue immagini è racchiusa questa visione, un‘anima minima, nell‘espressione di Jean-François Lyotard, che pone la condizione minima dell‘estetica, ma senza continuità, senza un risultato estetico, un breve contatto, lontano dall‘appropriazione ideologica e protetto dalla singolarità dell‘incontro, che tutt‘ora caratterizzano le fotografie di Pino Bertelli. In queste immagini possiamo ancora percepire la lucciola, l‘anima nell‘immagine, l‘immagine dell‘uomo.
Prof. Dr. Hubertus von Amelunxen
Scienziato dell‘arte