I miserabili(sti)
di Michele Smargiassi (il Fotocrate)
«Che cosa faceva a Calcutta?» «Fotografavo l’abiezione», rispose Christine. «Come sarebbe?»
«La miseria», disse lei, «la degradazione, l’orrore, lo chiami come preferisce». «Perché lo ha fatto?» «È il mio mestiere», disse lei, «mi pagano per questo». Fece un gesto che forse significava rassegnazione alla professione della sua vita, e poi mi chiese: «lei è mai stato a Calcutta?» Scossi la testa. «Non ci vada», disse Christine, «non faccia mai questo errore». «Pensavo che una persona come lei pensasse che nella vita bisogna vedere il più possibile». «No», disse lei convinta, «Bisogna vedere il meno possibile».
Antonio Tabucchi, Notturno indiano
Bisogna vedere o non vedere la miseria? Bisogna farla vedere o non farla vedere? Sono due domande diverse? Sono la stessa domanda?
Non siamo tanto liberi di scegliere. La miseria viene mostrata ovunque. Perché, purtroppo, è fotogenica. Sentite cosa scrive nel 1910 un tale Gustavo Bonaventura su La Fotografia Artistica, rivista portabandiera del pittorialismo fotografico italiano. Un ragionamento che comincia benissimo e finisce malissimo:
«[…] l’immenso egoismo umano trascura di soffrire vedendo un vecchio dormire su di una panchina nel gelo delle notti invernali e una madre pascere di lacrime i figli affamati ed i coscienti. Sono dolori a cui non si pensa, perché dolori che si guardano, senza vederli, preoccupati dal pensiero di un sonno dolce e a stomaco pieno, [e fin qui siamo d’accordo, ndr.] mentre potrebbero servire alla esecuzione di una serie immensa di quadri improntati alla triste, alla amarissima poesia della miseria e del martirio».
Capita la morale? Guai a chi volta la testa all’altra parte quando vede un miserabile! È un gigantesco spreco di ottimi spunti artistici! Bisogna guardarli, i poveri, bisogna fotografarli!
Credo che il cinismo forse inconsapevole e perfino benintenzionato del signor Bonaventura, che dava consigli ai fotoamatori della sua epoca, sia una eccellente sintesi della filosofia di quel sottogenere che percorre tutta la storia della fotografia, a cui qualcuno ha dato il nome di miserabilismo. Il compiacimento del rappresentare la povertà in immagine, di guardare la povertà rappresentata.
Naturalmente, non tutto comincia nella e dalla fotografia, e neppure nella storiadell’arte, dove i poveri hanno una antica cittadinanza di cui non ho tempo e competenza per parlarvi qui. Il voyeurismo del privilegiato nei confronti dello sventurato, il piacere di guardare la catastrofe dallo spalto sicuro della nostra tranquillità economica e sociale viene da lontano, ha radici in un meccanismo profondo dell’animo umano. «Le lacrime di compassione per la sventura dello schiavo», scriveva Nietzsche, «sono le perle più preziose nell’aurea coppa della cultura, lasciva Cleopatra».
Già Platone, che diffidava dell’arte, intuì il fascino che i corpi straziati esercitano su chi li guarda. C’è un’estetica specifica per commuovere attraverso ildolorefigurato: quella che il grande storico dell’arte Aby Warburg identificava nel termine pathosformel.
La gente ama piangere sulle disgrazie altrui. È un potente meccanismo di rassicurazione. Chi guarda la sofferenza di un miserabile, molto probabilmente non è a sua volta un miserabile. Chi ode il tuono, sa che non è stato colpito dal fulmine. Il tuono spaventa e conforta insieme. È toccato a qualcun altro, io sono salvo.
Quando la fotografia rivolge la sua lente al mondo sociale e comincia a catturare la sofferenza e la miseria, trova il terreno preparato da numerose lascive cleopatre culturali. Lacompassionecristiana, mai priva del compiacimento della carità. L’eticaprotestanteche nella miseria vede il segno della mancata predestinazione alla salvezza. L’idealizzazione romantica del contadino, dell’umile lavoratore legato alla terra.
In un certo senso, il pittorialismo fotografico è persino meno sprezzante di questi precedenti, recupera in estetica un’etica del labor che vorrebbe essereserena, classica, virgiliana.
Purtroppo per lei, la fotografia non è fatta per le teorie, non riesce mai a rappresentare astrazioni, concetti universali, sentimenti disincarnati. Non possiamo fotografare la povertà. Possiamo solamente fotografare dei poveri. Quei poveri, quel povero specifico che capita avanti al nostro obbiettivo. La povertà come metafora funziona male in fotografia: laciecadi Paul Strand è un’allegoria della visione, una metafora della fotografia stessa: ma quella è stata una donna in carne ed ossa, una mendicante, che non ha avuto alcun controllo sull’immagine che le è stata presa.
Probabilmente non avremmo immagini della crocefissione sugli altari se all’epoca della passione di Cristo fosse esistita la fotografia. «La fotografia è troppo esplicita per far apparire nobile o nobilitante il concetto di sofferenza», ha osservato lo scrittore Philip Gourevitch a proposito delle fotografia delle torture di Abu Ghraib.
Ma è solo per compiacimento voyeuristico, per cinica rassicurazione, che da 170 anni fotografiamo i poveri? Naturalmente, nessun fotografo ama sentirsi cinico o voyeur. In questi due secoli, dunque, non sono mancate giustificazioni autorevoli, non sempre ipocrite o infondate, all’esistenza della fotografia miserabilista.
La prima si rifà ad una sorta di vocazione originaria della fotografia stessa, il suo presunto bisogno insopprimibile, esistenziale, di riprodurre la realtà così com’è. Quando HeinrichZilleo Thomas Annan fotografano i mendicanti di strada a Londra o gli slum di Chinatown, si sentono investiti di una missione di documentazione che li mette al riparo da ogni altra responsabilità morale, da ogni obbligo di pietà e di pudore. Questo genere di fotografia che si pretende avalutativa, indagatrice, classificatoria, catalogatrice, ovviamente oggettiva non è: è lo sguardo della borghesia dell’Occidente che getta fuori da sé e dalle proprie responsabilità le drammatiche conseguenze umane dell’industrialismo.
Questa fotografia non documenta la povertà, ma crea il povero, come fenomeno spiacevole, ma inevitabile perché oggettivo e naturale. Con la sua presunzione di veridicità meccanica, la fotografia è il medium nonché l’alibi perfetto per questa alienazione.
Sentite cosa scrive Adolphe Smith, giornalista socialisteggiante, nella prefazione a Street Life in London, reportage di John Thomson del 1877: «L’indiscutibile esattezza [delle fotografie] ci permetterà di mostrare autentici personaggi della miseria londinese risparmiandoci l’accusa di avere aggiunto o tolto qualcosa all’aspetto particolare di quei miserabili».
Capito? Le foto non creano la povertà, la documentano soltanto, e nel modo più scientifico e corretto possibile. L’evoluzione di questa pretesa sarà la fotografia antropologica, tassonomia umana dell’era coloniale, ovviamente condotta dai colonizzatori sui colonizzati. Ai quali resta solo, muta arma dell’oppresso contro l’oppressore, la resistenza di uno sguardo carico di disprezzo.
Ma se guardiamo questi reportage sedicenti “scientifici”, capiamo subito dove sta il trucco. Per questo sguardo intrusivo e auto-assolutorio del potere, camuffato da censimento entomologico, gli unici poveri fotogenici sono quelli che il medioevo definiva «poveri vergognosi»: i poveri che chiedono senza pretendere, i poveri umili e sottomessi. I poveri che si ribellano contro le condizioni della loro povertà non sono più poveri, sono sovversivi, asociali pericolosi: a loro è destinato un altro genere di fotografia, quella poliziesca, la fotografia segnaletica dei grandi casellari giudiziari ideati per primo dal capo della prefettura parigina Alphonse Bertillon.
I poveri innocui, invece, diventano facilmente figurine di un rassicurante presepe che può perfino avere un valore commerciale. La poetica degli stracci si trasferisce nella sua versione folclorica e turistica dei «tipi», dei personaggi di strada, straccivendoli spazzacamini scugnizzi, una collezione di figurine, anche in senso letterale, elementi di colore locale, da cartolina, curiosità da souvenir di viaggio. Gli spossessati sono spesso privi anche del potere di opporsi al prelievo della propria immagine.
È condannata la fotografia a questa «sociopornografia», a questo folclore degli stracci? Molte volte si è cercato di sfuggire questa sorte, non sempre ipocritamente, qualche volta efficacemente. Agli inizi del Novecento la fotografia sembrò l’arma più forte a disposizione dei riformatori sociali per «gettare luce» sulle contraddizioni della società e invocarne la riparazione. Detective sociali come Jacob Riis si munirono delle pesanti, ingombranti fotocamere dell’epoca
per intrufolarsi negli slum degli immigrati, nei tenements dove gli ultimi arrivati nella «terra delle opportunità» si ammassavano in condizioni spaventose, e asportarne tutto lo squallore a colpi di flash, pazienza se il lampo di magnesio a volte finiva per appiccare il fuoco ai pagliericci lerci dei poveracci.
Non è giusto disprezzare o tacciare di ipocrisia quei tentativi, sinceri, benintenzionati e perfino efficaci: le foto di Riis contribuirono al risanamento del Mulberry Bend, l’angolo più infame e lurido di Manhattan.Ma la giustificazione morale di questo tipo di fotografia sociale si fonda sulla fiducia nella coscienza e nella generosità dei ricchi, che sono il vero pubblico di quelle immagini.
Il rischio di una pornografia della miseria, del consumo del dolore che ci consola e ci evita perfino di sentirsi complici (mi sono commosso davanti a quelle fotografie, è la prova che sono dalla parte del giusto) non è fuori dall’orizzonte umano, anche al di là delle intenzioni. Scriveva Blaise Pascal che «piangere gli sventurati non è contro la concupiscenza. Anzi, siamo ben lieti di offrire questa prova di amicizia, e di attirarci la reputazione di persone sensibili senza dar nulla».
È quindi difficile scacciare la sensazione che anche questo sguardo non potesse evitare una quota di paternalismo compiaciuto, quello che lo storico della fotografia Ando Gilardi definirebbe «porno-concerned», che produce un’immagine del povero stereotipa, inquietante, estrema, disumanizzante. Per denunciare la patologia sociale e solleictare reazioni in chi vive nel torpore del benessere è inevitabile estremizzarne i tratti, si innesca così un meccanismo di
«criminalizzazione a fin di bene» che in anni più recenti ha riguardato anche la generosa fotografia anti-psichiatrica e basagliana, piena di «matti che hanno l’aspetto di matti». La fotografia prende individualità e le trasforma in stereotipi, il rischio lombrosiano (che sostanzialmente consiste nello scambiare gli effetti per le cause) è sempre dietro l’angolo.Non sto dicendo che i fotografi siano tutti incoscienti produttori di cliché. Gran parte dei fotografi «socialmente consapevoli» avverte da sempre il rischio, sa di correre su una lama sottile tra denuncia e conferma del pregiudizio. Sa che è forte la tentazione di affermare, più che uno stato deplorevole delle cose, il coraggio del fotografo nell’affrontare la vista della povertà e i rischi corsi per raggiungerla, in nome di una missione morale superiore. Una sorta di forma moderna del sublime, legittimata dalla morale umanitaria, secondo il sociologo Luc Boltanski.
Contro questo rischio, i fotografi coscienziosi hanno adottato strategie diverse. La più frequente è quella che invoca a discolpa ed esimente morale la pretesa di aver «rispettato» se non
«restituito» la «dignità» ai soggetti: ma di quale dannata dignità parliamo? Un bambino che muore di fame, un uomo ammazzato da un missile, di dignità non ne hanno più, nemmeno un briciolo, gliel’hanno rubata tutta, gliel’hanno strappata a viva forza con i loro artigli maledetti.E se un fotografo gliene mette addosso una che si è portato da casa, prefabbricata e incartata dentro la borsa assieme agli obiettivi, vuol dire che sta mentendo, che sta coprendo, che sta nascondendo la realtà. Una “vittima dignitosa”, educata, che faccia di tutto per non disturbare la nostra sensibilità, è proprio quel che chiedono le sonnolenze postprandiali di noi occidentali che vogliamo indignarci, certo, ma solo per qualche minuto, e senza rimetterci nulla.
Lasciamo perdere la dignità, dunque, scusa fragile e ipocrita. Più fondato come giustificazione morale della fotografia della povertà è semmai il dovere della testimonianza: faccio vedere ciò che ho visto e che altrimenti nessuno saprebbe. Consapevole che sto mostrando “il dolore degli altri”, per dirla con un tormentato libro di Susan Sontag, che sull’efficacia e la legittimità morale di questa testimonianza ha cambiato nel tempo le sue opinioni.
In definitiva, si tratta di quell’etica dell’intenzione, di quel pro bono malum che sorreggeva l’impresa foto-propagandistica della Fsa americana, fotografia di Stato dell’era Roosevelt, che mostrava le piaghe sociali che intendeva risanare, per produrre consenso attorno a una politica. Ma ugualmente, non basta: da cosa si riconosce la buona dalla cattiva intenzione? Da quali segni esteriori distinguiamo il voyeurismo del dolore dall’empatia del riscatto?
Dalla nobilitazione politico-morale del soggetto, è una risposta: il neorealismo cinematografico, e la fotografia che si richiama a quello stile, rinnova il cliché neoromantico della miseria: poveri ma belli, poveri ma eroi, poveri ma virtuosi, poveri ma in cerca di riscatto. Con questa auto-giustificazione, nel dopoguerra, i fotografi italiani tenuti per un ventennio, quello fascista, a digiuno di frequentazione della realtà sociale si lanciarono in una vera e propria corsa
al Sud, in cerca di vedove in nero e cafoni dal volto scavato. Ne uscirono reportagesconvolgenti su un paese fino ad allora invisibile, ma ahinoi anche stereotipi da fotoamatori in cerca di effetti facili. Disse un fotogiornalista di pelo lungo, Vincenzo Carrese, al giovane Ferdinando Scianna che gli presentava un (bellissimo) reportage sulle feste religiose in Sicilia: «I poveri sono fotogenici, ragazzo mio, specie quando pregano, vorrei vede cosa sai tirare fuori da via Montenapoleone…”.
Dalla nobilitazione del soggetto alla estetizzazione della miseria il passo è breve. È l’accusa versata piene mani sui fotografi «epici» come SebastiãoSalgado. Che si difende dicendo: sono fisime occidentali, quando mostro fotografie dei migranti in Europa si discute di estetica, in Brasile di emigrazione. Pornografi della miseria o cantori della contraddizione? (Pivano).
La bellezza è davvero nemica della verità, della compassione, dell’empatia? Per Jeanloup Sieff la bellezza è condizione di efficacia, è sovversiva. Per Ferdinando Scianna, se fai una brutta fotografia a un povero ti trovi con «due problemi: la sofferenza del povero, e una cosa brutta in più che ora impesta il mondo». Ma c’è anche chi, come Don McCullin, al termine di un duro reportage sull’Aids, ha concluso che «non riesci a fare grandi foto sulla sofferenza altrui. è più importante metterle nel giusto contesto».
Ma qual è il «giusto contesto»? Il pericolo è che la fotografia della miseria trovi giustificazione in sé, si proclami giusta, umanitaria, «dignificante» solo perché chi la produce si sente animato da buone intenzioni. Ma se è così, ha ragione Anna Magnani del film L’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, che tira una bacinella d’acqua a un fotografo che la ritraeva mentre faceva il bagno al bambino in una tinozza, gridando «Non c’è gnente da fotografa’, non semo divi der cinema, semo dei disgraziati, capito? E invece de venì ogni du’ ggiorni con ‘ste macchinette, venite co li sordi, così ce ripulimo un po’ e risparmiate pure tante gitarelle».
E siamo ancora al punto: è giusto o no mettersi con una fotocamera davanti alla miseria e alla sofferenza? Sfruttamento o solidarietà? Empatia o ipocrisia? Jean Baudrillard, dopo aver depotenziato qualsiasi immagine del reale riducendola a simulacro, mette in guardia ugualmente dalla «complicità vergognosa» delle fotografie dei miserabili «dati in pasto all’evidenza documentaria e alla compassione immaginaria».
Un rischio ben presente a tutti. Nel 1989 l’assemblea generale delle Ong europee vara un regolamento per le immagini di sofferenza. La Croce Rossa Internazionale ne possiede uno suo. È un tema molto sentito, nel mondo delle organizzazioni umanitarie, questo dell’immagine.
Ovvio che lo sia. Basta un’immagine ben scelta e ben diffusa sui media e il rubinetto delle donazioni comincia a buttare. Ma un’immagine azzeccata è anche un’immagine giusta? Bene, quei codici etici sull’immagine della miseria bandiscono gli estremi opposti delle immagini idilliche e di quelle senza speranza perché, entrambe, «mirano solo a ripulire le coscienze anziché alla comprensione delle radici dei problemi».
Quelle senza speranza vorrebbero scuotere la tranquillità del mondo sazio, aggredendone la coscienza all’ora di pranzo, e ci riescono, ma alla lunga inducono a pensare che non ci sia nulla da fare, che la povertà sia una condanna biblica ed eterna.
Quelle idilliche rispondono alla legge del marketing che impone di non mettere mai a disagio il consumatore (e il donatore è un consumatore di ricompense etiche), ma alla lunga inducono a pensare che tutto sia sotto controllo, ce ogni male sia stato già affrontato e risolto da specialisti che ci dispensano dal preoccuparcene troppo.
Oggettivizzazione, vittimizzazione sono pericoli reali nelle immagini della sofferenza. Ma forse non sono la loro vera, fondamentale debolezza, che è un’altra, a mio parere, la seguente.
La fotografia della povertà tende a sostituire la povertà con una immagine pellicolare, senza spessore, senza storia, ossia senza le categorie di causa-effetto, di responsabilità, di conseguenza.
L’immagine-shock mostra il perseguitato ma raramente il persecutore, lascia solo il benefattore con la vittima, esclude ogni altra cosa o persona, e così quando anche produce empatia nella coscienza impegnata (quella che fu definita la linkemelankolie), resta autoappagante, non riesce a produrre reazioni “politiche”, avendo omesso di indicarne il bersaglio.
E qui sta il rischio più forte: un dolore esibito, insopportabile da vedere, ma che sembra dipendere solo da se stesso, assolutizzato, fuori dalla storia, produce in chi lo guarda una reazione di impotenza e di fatalismo: è la sofferenza umana, ce ne dispiace, ma non possiamo farci nulla. E il malessere momentaneo dell’uomo del benessere trova da sé il proprio lenitivo. Aveva ragione l’abbé Pierre, guardando queste immagini, a temere «una società che consuma in fretta l’ostentazione della carità».
Ma le immagini di bambini con le mosche, topos di quelle che sir Cecil Beaton, fotografo dandy dotato di coscienza, definiva immagini «senza compassione», continuano ad apparire sui media. È evidente che chiudere gli occhi davanti ad esse, che nella loro impotenza sono pur sempre tracce di una sofferenza reale, sarebbe ancora più ipocrita.
Ma dobbiamo anche riconoscere, proclamare, che l’esistenza visibile della miseria non è di per sé un argomento contro la miseria. Le foto di profughi stremati e moribondi riversati dai barconi sulle spiagge dei ricchi fanno dire al leghista di turno «prendeteli a casa con voi».
Le fotografie, diceva Virginia Woolf turbata da quelle della guerra, non sono argomentazioni, sono solo grossolane affermazioni di fatto. Non possono essere il punto di arrivo di una coscienza civile, perché la portano nel vicolo cieco dell’autogiustificazione e dell’indifferenza. Guai dunque se pensiamo che le fotografia siano un punto di arrivo, un’arma finale, nella lotta contro la povertà: avranno la funzione opposta, quella di disarmare le coscienze.
Ma le fotografie possono essere eccellenti punti di partenza. Ogni fotografia dovrebbe imporci una domanda. Solo se cerchiamo la risposta la fotografia della miseria ha un senso. Bisogna prendere parte, essere coscienti di essere solo una parte, ma una parte in gioco. Bisogna che le fotografie della miseria interpellino un noi e non un io.
Nel suo Il contratto civile della fotografia, la studiosa israeliana Ariella Azoulay ha definito i termini di un possibile patto implicito a tre: il fotografo, l’oppresso, il lettore, dove l’immagine fotografica, per mutuo consenso, diventa la condizione di una restituzione della cittadinanza e dei diritti (non di generica «dignità») negati dai poteri.
La fotografia, qualsiasi fotografia, anche la più ingenua, anche la più volonterosa e simpatetica, è un atto di potere. Non si può ignorarlo, pena essere prepotenti. Si può cercare, a nostro rischio, di impugnare quel potere per il manico, come uno strumento di lavoro da maneggiare con apposite precauzioni, e non come una bacchetta magica.
In fondo non c’è molto in più da dire oltre la saggezza del mio amico fotografo libertario Pino Bertelli: «Hai diritto di guardare un oppresso dall’alto in basso solo quando sei capace di allungargli una mano per rialzarsi».
[Questo testo combina i miei appunti per l’incontroLa povertà nella fotografia e nel cinema del dopoguerra, per la rassegna Teatri mirabili di povertà, Bologna 7 settembre 2013; e per la conferenza Miserabilismo, lo spettacolo della miseria e l’etica della rappresentazione fotografica, per Foggia Fotografia, 9 novembre 2013].
Lettera aperta a Michele Smargiassi (il Fotocrate)
in risposta al suo splendido scritto “I miserabili(isti)” di Pino Bertelli
Il testo di Smargiassi è apparso nel suo blog Fotocrazia, Repubblica.it, il 9 dicembre 2013. Quando l’ho letto, qualche giorno dopo, ho buttato giù di getto questa lettera e il Fotocrate ha pubblicato nel suo blog la mia risposta al suo scritto il 16 dicembre 2013, con questa annotazione:
Nota del Fotocrate: pubblico in via eccezionale questo commento, benché superi smisuratamente i limiti di lunghezza suggeriti dal galateo del blog, perché la dismisura delle passioni e della scrittura è la cifra stessa del pensiero dell’amico Pino, al quale peraltro ho rubato la conclusione del mio articolo qui sopra.
Caro Michele,
ho letto con attenzione il tuo scritto sui “miserabili/sti” e a me , per quello che vale, sembra uno scritto di straordinaria bellezza e forza autoriale che investe la fotografia nel suo esecrabile insieme… così mi sono trovato coinvolto in un tema (non solo) fotografico che mi interessa molto ed ho provato ad intrecciare la tua profonda analisi sul “miserabilismo fotografico” con la miseria della fotografia o fotografia della miseria che studio da sempre (e sparso altrove). Lo farò a gatto selvaggio, secondo la critica radicale situazionista, e poco m’importa se qualcuno o molti non comprenderanno la stima profonda che il tuo scritto ha portato nella mia anima in utopia.
1. I miserabili(sti) sono ovunque e siccome la fotografia (come ogni forma d’arte) è lo specchio di un’epoca, si affanna a creare miti, simulacri, dèi e si precipita poi ad adottarli come saperi imperanti… la capacità di adorazione dei fotografi, quando non è complice, è responsabile di tutti i crimini che l’industria dello spettacolo e la politica della corruzione commettono nel nome santificato della “società consumerista”… in generale, i fotografi sono degli stupidi che non sono in grado di vedere il dolore degli altri (Susan Sontag, diceva) e aiutarli a sconfiggere la secolarizzazione delle lacrime… la “pelle della fotografia” è il mercato e il successo di qualche coglione che si fa passare per artista d’avanguardia… i beoti della fotocamera ci credono… storici, critici, fotografi, fotoamatori… sono parte di uno spettacolo mercantista dove il comportamento individuale e collettivo partecipa allo stesso spirito di assoggettamento degli sguardi… la fotografia — nella sua prostituzione più vasta — fa parte di un’idea di felicità consacrata dall’impero dei media ed è mantenuta in un sistema economico/pubblicitario che ingloba tanto l’estetica di Warhol quanto i rutti della Coca Cola.
Una fotografia fondata sulla miseria è idiota… le immagini più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire all’uso della grande maggioranza come illusione d’esistenza… il valore educativo della fotografia è da un’altra parte, in una splendida carica di cavalleria lanciata contro la morte certa o nell’immaginario che prende per la realtà i sogni di rivolta delle giovani generazioni. “Non passa anno che persone da noi amate non cedano, per non aver chiaramente compreso le possibilità presenti, a qualche vistosa capitolazione. Ma essi non rafforzano il campo nemico, che annovera già imbecilli a milioni, e nel quale si è obiettivamente condannati ad essere imbecilli. La prima deficienza morale resta l’indulgenza, sotto tutte le sue forme” (Guy Debord). Sotto ogni fotografo del miserabilismo giace il cadavere del genio.
2. Che si consideri l’età classica della fotografia, quella storica o contemporanea, si rimane colpiti dal fatto che ogni paese in ascesa, come in quelli colonizzati, ha la sua inevitabile percentuale di fotografi afflitti da stupidità… l’allarmante crescita del numero degli sprovveduti è un’emorragia culturale, ma il fuoco della fotografia non è fuoco finché non ci ha bruciato l’anima. La mia fotografia è onesta — diceva un fotografo di talento —. Purtroppo, le mie fotografie lo sono meno. Ogni lascito della fotografia incensata è avvelenato… ecco perché nei vernissage sulle Terrazze Martini più finemente pubblicizzati, una pletora di cadaveri brindano all’arte degli assegni, lì anche le stelle brillano di luce falsa. La “bella fotografia” o la “fotografia del miserabilismo” tormenta soltanto i santi, gli assassini e gli stupidi… gli altri sguazzano nella santificazione dell’arte da supermercato come ratti su un cumulo di spazzatura. Non si fa la fotografia del dolore se non in piena coscienza di accusare i produttori di questo dolore. La fotografia della genuflessione è l’ultima immagine di una civiltà che si spegne.
3. Nell’arte della fotografia che imita l’arte del mercimonio non c’è spazio se non truccato… la sovversione non sospetta dell’arte — di tutte le forme di comunicazione — figura il rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato: Non ti stupire di aver fotografato qualche volta un bambino che moriva per fame in un campo di grano falciato dalle bombe delle “forze di pace”… la fotografia è di vetro, il tuo successo è protetto dai fucili dell’ordine finanziario/politico che lo riveste di mille applausi riflessi nelle coppe di champagne… la trasparenza della fame è solo un incidente di percorso. La fotografia (sotto ogni cielo impietoso di lacrime) si compie nel pensiero libertario che la nega. L’ingiustizia governa l’universo ed ogni uomo si nutre dell’agonia di un altro uomo. A un certo grado di verità, ogni immagine della franchezza diventa indecente.
4. La fotografia è fatta del tessuto di cui sono fatti i nostri sogni, diceva… la sola fotografia buona è quella che possiamo vedere due volte senza bruciarla! A incendiare la miseria della fotografia o la fotografia della miseria bastano un Lazarillo de Tormes e una torcia… in ogni fotografo alberga un’anima di assassino o di un demente… gli eresiarchi di ogni eresia sono i soli per i quali conta solo ciò che non si è fatto o semplicemente abbattuto… tra la Genesi delle convenienze dell’arte e l’Apocalisse dello stupore e della meraviglia, regna l’impostura e la falsificazione… bisognerebbe essere fuori del mondo come un angelo o come un idiota per credere che la fotografia mercantile (come qualunque forma d’arte) o insegnata, non produca schiere di imbecilli che andrebbero soppressi per il disgusto e la vergogna che ci fanno provare quando fanno del dolore degli altri uno spettacolo sulla rassegnazione del divenire. La fotografia sarebbe intollerabile senza le forze eversive che la negano. Ai fotografi del miserabilismo: “Come piedistallo avrete un letamaio e come tribuna un armamentario di tortura. Non sarete degni che di una gloria lebbrosa e di una corona di sputi” (E.M. Cioran). L’amore per la dignità non s’impara a scuola, e nemmeno la fierezza, ma nella strada.
5. La fotografia muore di fotografia. La follia per la “bella fotografia” nasce da una cattiva educazione all’immagine che l’impero dei mass-media ha disperso nell’immaginario collettivo. L’ignoranza dei fotografi (specie i più foraggiati dalle marche di fotocamere, dalle gallerie del mondano o dalle aziende di calendari…) è abissale. Credono di sapere tutto sul valore degli attrezzi di lavoro, sulle sensibilità delle pellicole, sull’avanzare del digitale nella presa del potere della fotografia da parte del popolo… e insieme ad una marea montante di squinternati che si attaccano al collo, come un giogo, la macchina fotografica e imperversano a ogni angolo delle metropoli, delle campagne o nei viaggi specializzati nel turismo sessuale sui bambini… non si accorgono che la loro cecità creativa è una sorta di schiavitù e di genuflessione ai riti e ai codici della società dello spettacolo. Il dominio dello spettacolo è tentacolare. Arriva ovunque e ovunque l’umanesimo della merce si è sostituito ai soggetti sociali. Nel tempo dell’inganno universale dire dell’amore dell’uomo per l’uomo è un atto rivoluzionario, forse. Nessuno rilascia certificati di benevolenza e sotto il sole marcio della fotografia trionfano primavere di carogne.
6. La fotografia del miserabilismo comincia con un conflitto con l’ordine istituito e finisce col farsi sostenere dai suoi fucili. “Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. Egli regna ovunque; egli esegue le sue sentenze sommarie” (Guy Debord). La storia della fotografia consumata non mostra l’inefficacia delle fotografie per la conquista di un’umanità migliore, è soltanto la somma delle vanità mercantili smerciate come “avvenimento” artistico. Di contro, la fotografia di strada insorge nella poetica randagia che la fotografia insegnata non è, né conosce. La verità spettacolare manifestata nell’impostura delle ideologie e delle fedi è il teatro delle maschere, dove l’uso manipolato della creatività cancella la selvatichezza della vita quotidiana e la principale produzione della società attuale è lo spettacolo. Ai quattro venti della terra il falso ha preso il posto del vero e il consumo delle immagini fa del cattivo uso della verità o della poesia, la distruzione della memoria storica.
7. Nell’epoca del mercato globale ogni guerra è giustificata dalle promesse dei governi dei Paesi ricchi. Il genocidio continua. Dopo Auschwitz, Hiroshima, i gulag… il linguaggio delle armi ha preso il posto della ragione e i canti dei poeti e i pianti dei bambini sono seppelliti nella distruzione di massa dei popoli impoveriti. I limiti etici del profitto non hanno confini. I veri “nemici” dell’umanità sono i rigidi trattati di libero commercio, le armi nucleari, le tecnologie produttive basate sulla violenza, l’ingegneria genetica, le guerre del petrolio e dell’acqua, lo sviluppo del neocolonialismo di pace… “La guerra è il terrorismo dei ricchi, il terrorismo è la guerra dei poveri” (Frei Betto, diceva). Maledette siano le guerre e le canaglie che le fanno. Ogni fotografia del miserabilismo si alimenta nel sangue dei suoi proseliti, si allarga e diventa mito quando viene adottata dall’ottimismo ebete delle folle… acquasantiere e sputacchiere sono sinonimi e si celano nell’immaginale ineluttabile del “progresso”. Tutto quello che so, l’ho imparato dai chi non ha voce né volto, i quasi adatti, i folli, gli impoveriti… quando l’amore per gli esclusi cancella la conoscenza, la coscienza ridestata uccide l’inganno.
8. La fotografia di strada (o i grandi fotografi citati da Michele Smargiassi) è una scrittura visuale dei corpi. È un viaggio o un ritorno verso i valori dell’umanesimo, riconosciuti o fissati nella storia in un’immagine che è in grado di reinventare l’unicità dei ritrattati. Lewis Hine, August Sander, Tina Modotti o Diane Arbus, hanno lavorato su visioni diverse dell’esistente e sono giunti al medesimo fine: non basta più trasformare il mondo, perché esso muta di pelle con le “truccherie” e i tradimenti delle politiche dominanti. Si tratta d’interpretare adeguatamente questo mutamento affinché esso non produca il regno degli idioti che emerge dalla civiltà che si autodefinisce “moderna”. Ogni fotografia della coscienza insorta porta lontano e permette qualsiasi cosa. La fotografia della stupidità che caratterizza i momenti culminanti della storia non ha equivalenti se non nell’idiozia di coloro che ne sono i portatori… in questo senso, nessuno può dire sono un fotografo, senza arrossire di vergogna.
9. Il liberalismo delle idee, strano a dirsi, non ha mai voluto dire rispetto per i diritti umani dei più deboli e “tolleranza” del libero pensiero. Le politiche delle società “evolute” hanno pianificato le relazioni sociali e con il clamore delle forche hanno imposto un rigore della permissività fondata sulla violenza e il crimine istituzionalizzato. “Non siamo mai usciti dal tempo dei negrieri” (Raoul Vaneigem). Di più. La società spettacolarizzata non ha solo trasformato servilmente la percezione, ma soprattutto ha fatto del monopolio dell’apparenza, la ricostruzione e il confortorio dell’illusione religiosa. La fotografia del vero esprime l’essenza di ciò che non si riesce a distruggere… con la fotografia non si fanno le rivoluzioni… le rivoluzioni si fanno con le rivoluzioni… tuttavia con la fotografia si può diventare uomini e donne migliori e incamminarsi verso il raggiungimento di un mondo più giusto e più umano.
10. L’insieme delle conoscenze che continua attualmente a svilupparsi come pensiero dello spettacolo dove giustificare la miseria di una società senza giustificazione e porsi come scienza generale della falsa coscienza… si riflette in ogni forma di comunicazione, nella farsa elettorale e nel genocidio autorizzato dai poteri forti… Il sistema spettacolare esprime una sotto-comunicazione diffusa che smussa i conflitti sociali e ri/produce spettatori o complici. Quando alcuni storici, galleristi o critici della fotografia — iscritti nei gazebi dei saperi accademici o dell’avanguardia del vuoto — ci hanno chiesto a cosa serve nell’epoca della tecnologia satellitare, la fotografia di strada o della miseria, abbiamo risposto con un motto di spirito: — a niente, come la musica di Mozart! —. La fotografia ha adorato coloro che l’hanno tradita e la fotografia non è pensabile senza il grado di verità che vi si mette… la fotografia concepita come rituale del mercimonio rende l’intelligenza asservita al regno della stupidità.
11. Cogliere l’immaginario dal vero o rubare l’istante dell’”Angelus novus” nell’Apocalisse dell’ordinario, non è cosa facile. Henri Cartier-Bresson, August Sander, Roman Vishniac, Tina Modotti, Diane Arbus o Sebastião Salgado sono, forse, i soli passatori di confine, i franchi tiratori della fotografia sociale che hanno profanato la forma pittorica prestata alla fotografia e affabulato un’etica dell’arte fotografica senza eguali. La loro opera è lì a sottolineare che la fotografia in forma di poesia è l’epifania del tragico scippata alle macerie della storia. È nel contempo la domanda e la risposta dell’accadere di fronte alla fotocamera. Per significare il mondo occorre scegliere la parte contro la quale stare. Fotografare vuol dire tenere nel più grande rispetto se stessi e i ritrattati che abbiamo di fronte, senza dimenticare mai che è indecoroso uccidere i bambini per febbre di fame, anche con la fotografia. Nell’ossario della fotografia miserabilista riposano princìpi e formule, codici e morali, valori e barbarie inaudite… l’universo della fotografia autentica comincia e finisce con il rifiuto o con la sconfitta di una virtù da schiavi: c’è un bottegaio in ogni santo, un criminale in ogni eroe, un demente in ogni martire che depositano la propria vita nel marcitoio delle certezze. La saggezza della demenza, in fotografia e dappertutto, si affastella in un sistema di segni di assoggettamento ad un impero di macellai di prima qualità, ma una civiltà esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di insubordinazione. Quando l’uomo comincia a rinsavire, i terrori eleganti che lo tendono a catena si sgretolano. La distruzione dei simulacri porta con sé quella dei pregiudizi.
12. La fotografia di strada (o dell’amore dell’uomo per l’uomo) è la costruzione di un percorso che segue l’istinto del gatto, l’occhio dell’anitra, l’intuizione dell’aquila, la passione ereticale dei cuori in amore… si tratta di costruire una situazione in rapporto con quello che si percepisce. La macchina fotografica (per noi) è uno strumento di conoscenza e non un grazioso giocattolo meccanico: “Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge: in quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale. Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore” (Henri Cartier-Bresson). La bellezza della fotografia non addomesticata ai linguaggi dominanti, non è quella che proviene dallo studio delle “belle arti” ma quella che contravviene o si oppone all’esposizione della banalità del male. Ogni ritratto è un autoritratto. È la scoperta di se stessi per mezzo della fotocamera e discorso sul mondo. “Il fotografo saccheggia e insieme conserva, denuncia e insieme consacra” (Susan Sontag). Su questi crinali estetici, mai considerati nella loro reale portata eversiva, la Neue Sachlichkeit (che traduciamo arbitrariamente in nuova cosalità) tedesca degli anni ’20 (in modo particolare la fotografia di Heinrich Zille), ha figurato la dignità della sofferenza e si è imbattuta una poetica del dolore che non è predazione ma contaminazione e condivisione fuori dal simbolico e dal moralismo d’accatto. La fotografia sociale così fatta, ha destituito la mistificazione della realtà per destare le intemperanze generazionali e mostrare che questo non è il migliore dei mondi possibili.
13. La poetica ereticale della fotografia di strada (che disvela il miserabilismo della fotografia) è una scrittura iconografica del diverso che avanza sulle macerie del banale che crolla. È la fotografia dell’”Angelus novus” che si appropria della filosofia dello stupore di Immanuel Kant, Karl Jasper o Walter Benjamin e congela lo spazio e il tempo fuori dai “segni” dell’impotenza e dell’imposizione. La realtà non nasce dalla nostra coscienza e non ha nulla a che fare con essa. Resta a noi sconosciuta e inconoscibile, forse. La coscienza è sempre coscienza di qualcosa che rovescia le categorie della conoscenza date. Alla maniera di Giordano Bruno: L’atto che ci rende liberi da ogni forma di soggezione culturale/politica è sempre una rottura (il mistero del mondo finito è dentro di noi e quello del mondo infinito — finalmente degno dell’Uomo — si manifesta nella bellezza che l’uomo può incontrare nella natura, nell’arte, nella sorgività dell’essere). In questo senso la finalità senza fine di Kant s’intreccia alla libertà dello spirito di Jasper e al risveglio dell’esistenza di Benjamin. Il linguaggio (in)diretto, metaforico, casuale… della fotografia di strada figura dunque, la felicità sofferta e quella possibile.
Nel fare-fotografia di strada, il momento dell’”Angelus novus” è un colpo di dadi sul culo della storia. Conferisce all’istante scippato alla particolarità del qualunque, l’aura del singolare, dello straordinario, del fatato… è una rottura del consueto e in una specie di lotta amorosa tra ritrattato e fotografo, la comunicazione di un’esistenza che s’intreccia con un’altra esistenza e tutto ciò dà vita a una filosofia della meraviglia che fa dell’esperienza del limite, lo strappo con tutte le scritture cifrate, decifrandole. Il “lievito” della ribellione che l’”Angelus novus” porta con sé, si scaglia contro la civiltà del profitto e dell’ipocrisia e denuncia il rovescio dell’eterno nell’immaginale degli uomini.
14. I politici (come i fotografi) diventano ogni giorno più stupidi, tutti… i loro precetti e le loro promesse tradite irritano anche i cani randagi nei giardini pubblici e i loro miracoli economici (lavoro, crescita, mercato, successo) fanno sorridere perfino l’ultimo migrante che muore di freddo in cartone o affogato nel Mediterraneo… per sanare una razza di serpi occorre dunque tornare a far volare le pietre che, qualche volta, sono state più lievi delle ali degli angeli ed hanno impresso alla storia un’altra versione dei fatti: la libertà non è mai stata un privilegio che si concede, ma una conquista degli uomini in rivolta. Agire è una cosa, sapere contro chi indirizzare la propria indignazione è un’altra.
Nel ’68 la gioia di una gioventù libertaria si riversò nelle strade del mondo per portare la fantasia al potere, non per possederlo ma per meglio distruggerlo… le cose poi andarono diversamente, molto di quei giorni formidabili è stato recuperato, stravolto o devastato, tuttavia vogliamo ricordare che in quell’anno anche i vini e le marmellate vennero più buoni… chiese, ideologie, polizie, mercati sono all’origine dell’orrore che si nutre della stupidità delle masse… i ceppi dell’illusione sono più forti delle galere e il fucile, l’aspersorio e le merci battezzano il tremore dei servi… non si diventa uomini liberi per decreto né per concessione, e se ci soffermiamo a considerare lo stile del nostro tempo non possiamo non interrogarci sulle ragioni della sua mediocrità: degno del nostro interesse è soltanto chi non ha alcun riguardo per le convenienze né per le restaurazioni, sappiamo che alla splendida disgregazione dei linguaggi ne consegue la caduta degli imperi. La vera vita è fuori dal destino imposto.
15. Per chiudere, ma anche per aprire ai sospiri di una felicità superiore…. il linguaggio fotografico è uno strumento di disvelamento della verità o non è nulla… nel cimitero delle buone intenzioni riposano i dettati, le mitografie, le scuole di un fare-fotografia che al massimo riproduce l’immaginale mercantile al quale si foraggia… i poeti maledetti di ogni arte non hanno bisogno di credere a una verità per sostenerla, né di amare il tempo dello spettacolare integrato per giustificarlo… dato che ogni predica è infausta e ogni avvenimento si abbevera alla fonte della menzogna e della genuflessione. Ideologia e barbarie sono sinonimi… l’inclinazione a servire degli uomini fa il resto… un uomo, come un popolo, muore quando non ha più la forza di dire la mia parola è no! E l’arte? L’arte è una vecchia troia (Joyce, diceva, e Picasso che di puttane dell’arte s’intendeva bene, sosteneva) al servizio di tutti i padroni: la fotografia non tollerabile senza il grado di sovversione non sospetta che vi si mette. Che la Fotografia sia con voi.
Fine.