« Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità.
Quando la verità è ricostituita, si raggiunge l’espressione.
Oggetto vivo del film realistico è il “mondo”, non la storia, non il racconto”.
Roberto Rossellini
Il cinema italiano, lo sappiamo bene, o sprofonda nell’universo della banalità in cui è battezzato dalla commedia provinciale o finisce nel ribrezzo della borghesia sempre pronta ad affascinare soltanto le anime esulcerate di una civiltà esausta… così, in buona pace per l’intelligenza, si passa dal disgusto dell’occasionale al senso della semplicità letteraria che investe tutti, specie a sinistra… un cinema che esiste e si afferma soltanto grazie a film che intrattengono l’universo demente di consumatori affogati nel formalismo o educati dai mezzi d’informazione ad essere serventi personaggi in cerca di un capo, un politico, un criminale o soltanto un buffone che possa solleticare la pochezza con la quale affrontano tanto un’urna elettorale o il cappio del boia (che sono la medesima cosa), quanto a sostenere una qualsiasi forma di cultura con la convinzione di avere capito che quello che hanno visto è qualcosa d’importante e non una cosa impigliata nei merletti della merce filmica! Dio d’un cane boia! Figlio d’un prete ladro! Madonnaccia della miseria zozza! Proprio non si riesce a vedere che questo cinema ha perduto tutto dei maestri (Rossellini su tutti) e in cambio ha conservato storie che si creano nel delirio e si disfano nella noia. Il vero, il giusto, il buono è una creazione dei nostri eccessi, delle nostre dismisure e delle nostre sregolatezze, diceva… oppure è un sottoprodotto della tristezza che non conosce l’infanzia del mondo.
La tenerezza è un film abbastanza brutto o quantomeno funebre, diretto da Gianni Amelio, tratto dal romanzo di Lorenzo Marone, La tentazione di essere felici (Longanesi, 2015), vincitore del Premio Strega (autore di successo, ha vinto anche il Premio Scrivere per amore 2015, Premio Caffè Corretto – Città di Cave, 2016). La scrittura non è proprio quella del filosofo E.M. Cioran in La tentazione di esistere (Adelphi, 1984) né si pone l’avvicinamento… Cioran qui scriveva: “Chi è troppo lucido per adorare lo sarà anche per demolire, oppure non demolirà che le proprie… rivolte”. Con Marone siamo dalle parti delle terrazze milanesi col Martini, le olive e il maggiordomo, s’intende di colore. Il film è ambientato nella Napoli borghese e gli attori protagonisti sono Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti, Renato Carpentieri e Greta Scacchi… è la storia di un padre (ammalato di cuore) e dei suoi figli che non ama (un fratello e una sorella che attendono la morte del padre per dividersi l’eredità), una giovane coppia apparentemente serena, avvolta nel limbo della “Napoli bene”… che non conosce le periferie (né vuole), dove il giovane ingegnere sceglie la morte e non la vita.
E qui potremmo anche chiudere il discorso. A stento non siamo usciti dal cinema. Dovevamo forse finire il pop-corn e un chinotto che sapeva di petrolio… poi c’è venuto in mente cosa aveva detto Amelio del suo film durante la conferenza stampa a Roma (24 aprile 2017), e siamo stati assaliti da conati di vomito. “La tenerezza nel film è una mano che afferra un’altra e ha citato il momento in cui in Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, “il bambino tiene stretta la mano di suo padre, proprio nel momento in cui viene umiliato”. Ladri di biciclette? De Sica?… c’è di che ridere! Anche nel film più brutto di De Sica ci sono almeno i cinque minuti del Meraviglioso di cui parlavano i surrealisti… in La tenerezza c’è la convinzione che fin quando viviamo in mezzo a tragedie eleganti, ci possiamo anche accontentare benissimo di Dio o dello Stato, sono le due facce dello stesso conformismo. Senza saper mai che la stanchezza intellettuale riassume i vizi e le deformità di un’umanità alla deriva.
Va detto. Ci sono stati film di Amelio che abbiamo apprezzato, come La città del sole (1974), Il piccolo Archimede (1979)… abbiamo compreso lo sforzo ideativo di Colpire al cuore (1983), I ragazzi di via Panisperna (1988) e Il ladro di bambini (1992… poi non l’abbiamo più capito… forse per un nostro difetto a frequentare solo autori con il vezzo della disobbedienza e siamo disattenti forse, a quanti – nel cinema e fuori – si abbandonano ai riconoscimenti mercatali. Ai peccatori d’ottimismo certo preferiamo i passatori di confine… gli uni intrattengono l’universo in un boudoir, gli altri s’ostinano ad avere dello “stile”, quello con il quale non mancheranno di dare il colpo di grazia a una società spettacolarizzata che non va sostenuta ma aiutata a infrangersi nei propri terrori.
Certo, con Amelio, non siamo dalle parti del cinema libertario di un calabrese dimenticato o disconosciuto, mai assurto alla ribalta del cinema italiano, né voleva, forse… Andrea Frezza da Laureana di Borrello (Reggio Calabria)… autore dirompente di Il gatto selvaggio (1969, ma affabulato nel 1968), un teorema politico che intreccia violenza e rivoluzione (un film che ha anticipato gli anni spezzati sui marciapiedi di una generazione che ha combattuto per una vita più giusta e più umana per tutti e ha perso, ma non è stata mai vinta!)… sono gli anni quando il cinema si occupava di avvenimenti reali e di come attuare il rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato.
Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertolucci, Non riconciliati o solo violenza aiuta dove violenza regna (1965) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Un uomo a metà (1966) di Vittorio De Seta, La Cina è vicina (1967) di Marco Bellocchio, Grazie zia (1968) di Salvatore Samperi, Sovversivi (1968) di Paolo e Vittorio Taviani, Escalation (1968) di Roberto Faenza, Capricci (1969) di Carmelo Bene, Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri, Queimada (1969) di Gillo Pontecorvo, Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini, Sierra Maestra (1969) di Ansano Giannarelli, I dannati della terra (1970) di Valentino Orsini]… nelle loro differenze espressive, questi cineasti lavoravano sull’irrisione del potere, sapevano che all’infuori della creatività e della distruzione dei potenti, tutte le forme di comunicazione erano senza valore… sapevano che i dominatori dell’immaginario sono sempre stati dalla parte del plotone di esecuzione… sapevano anche che nessuno aveva più il diritto di attendere e invitavano a modificare la sorte della speranza sino ad allora tradita (come oggi) e di farsi ribelli di fronte all’ordine costituito… toccati gli estremi di una coscienza raffinata, inafferrabile e impudica insieme, non resta che insorgere o scomparire: l’abbattimento dei simulacri si porta dietro anche il crollo dei pregiudizi.
La tenerezza è un compendio del cinema di Amelio e contiene le brutture o le furbizie di Lamerica (1994), Così ridevano (1998), Le chiavi di casa (2004), L’intrepido (2013)… qui si fiuta il lezzo dei cadaveri profumati di una certa elevatezza sociale, là si tenta di avvalorare grandi e piccole gesta deposte nelle favole della cronaca o nei manuali di polizia… destini di sciocchezze avviluppate in una metastoria del sospetto o tuttalpiù in una sfida impressa nel consolatorio o nell’utilitarismo… niente è più estraneo alla vita vera, della redenzione o della salvezza del consenso! Solo la coscienza del nuovo o del diverso porta lontano! e permette qualsiasi cosa! e costi quel che costi, si sbarazza del teatro di burattinai e burattini e anche se schianterà sulle scogliere del conformismo, la sua indisciplina non sarà che un divertimento da fine dei tempi.
Il film di Amelio è infiocchettato in un’apparente eleganza… quasi una preghiera di raffinate ambizioni e si esaurisce nella superficialità irreparabile del risaputo. La fatturazione del regista è un compitino nemmeno riuscito bene… inquadrature lente, pezzi di Napoli addossati ai protagonisti, la grande casa come contenitore di codici morali… si respira una noia da convento. La sceneggiatura (Amelio e Alberto Taraglio) è distesa su una psicologia surrogata dalla fatalità del disagio che molto piace (l’abbiamo detto) ai salotti milanesi o romani (come il libro di Lorenzo Marone) e canta la mancata gioia dell’infelicità borghese. Ma non c’è la caduta, né la bava del dolore, solo qualcuno che si uccide perché è difficile essere ricchi e non conoscere i tremiti dell’amore (?!). Lo scrupolo della decenza di uccidersi ha nobili radici, che Amelio nemmeno sfiora… la sofferenza di stare in mezzo agli uomini votati alle delizie delle statistiche, delle borse, dei dividendi… può essere vista (da un poeta senza ali) come una sorta d’ingiustizia e allora — chiamarsi fuori — dal circo delle fiere è forse l’atto sublime contro l’aridità di una civiltà che si spegne… nessun animale è capace di uccidersi e, diceva il filosofo dei nostri scontenti (E.M. Cioran), gli angeli l’hanno solo intuito.
La tenerezza è una cosa da portinai avvinazzati o da carabinieri scemi con la pistola fumante… che ci stanno a fare Shelly, Baudelaire o Rilke… se non si comprende che la vita si fortifica fuori dalle verità degli potenti e dei santi, non si può capire nulla dei disastri del divenire umano… un’anima, alla pari di una nazione, non sboccia se non fuori dal ragionevole… nella civiltà del declino il fascino dell’agonia (specie se borghese, ma se fosse anche proletaria è lo stesso) rovina nel ballo in maschera della società consumerista. Le belle carogne continuano ha prosperare sui piaceri omologati dell’imbecillità.
La fotografia di La tenerezza (Luca Bigazzi) è tutta giocata sui marroni e sui neri, molto liquida, più aderente a un film horror che una vicenda drammatica… però sembra funzionare e pubblico e critica si sentono avvinti in un infausto abbraccio culturale… insieme a un montaggio da serie televisiva (Simona Paggi) e alla banalità dei dialoghi messi in bocca a interpreti abbastanza fuori ruolo (Greta Scacchi, Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno) evocano una storia che a tratti sfocia nel ridicolo (specie quando sullo schermo appare Elio Germano)… dalla muffa del film si cava fuori Renato Carpentieri (un po’ per quella faccia da guitto senza spessore, un po’ perché evita di gigioneggiare sul personaggio)… la simpatia di Micaela Ramazzotti è naturale… lì non c’entra nulla, e si vede, tuttavia è la sola figura che in qualche modo appare con una qualche franchezza espressiva.
Per chiudere, come anche per aprire, il cinema con La tenerezza non c’entra proprio… si guarda un film come si tira uno schiaffo o un bacio, per odio o per amore… un uomo di genio è colui che iscrive la sua opera nello spessore della realtà e non nella merce che l’affoga… qualcuno ha detto non esistono ottimisti, né pessimisti: soltanto imbecilli allegri, e imbecilli tristi, questa è la sintesi al vetriolo del cinema italiano. Ci sia consentito immaginare un tempo in cui avremo superato il fascio della cultura, della politica, della fede, un tempo in cui i detrattori di valori e morali giungeranno a sconfessare qualsiasi cosa che non appartenga al rispetto dei diritti dell’uomo, solo a quel tempo potremo vivere e morire tra liberi e uguali.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte giugno, 2017