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Il Formulario per un nuovo urbanismo – Gilles Ivain

Inserito da serrilux

Il Formulario per un nuovo urbanismo – Gilles Ivain

Sire, io sono di un altro paese

Il Formulario per un nuovo urbanismo

Prefazione Leonardo Lippolis

Il Formulario per un nuovo urbanismo viene scritto a Parigi tra l’agosto e il settembre del 1953 a firma di Gilles Ivain, pseudonimo di Ivan Chtcheglov, un diciannovenne che, folgorato dalla lettura della vita di Van Gogh suicidato dalla società raccontata da Artaud, aveva abbandonato la scuola a 16 anni. Da quel momento si era dedicato ad un nomadismo esistenziale che lo aveva portato a contatto con l’ambiente bohémien del Quartiere latino, dove alcune correnti post-surrealiste sognavano ancora di concretizzare il vecchio progetto di saldare la rivoluzione sociale di Marx con la rivolta esistenziale di Rimbaud. Chtcheglov e il suo amico e coinquilino, Henry de Bearn, erano da poco finiti nei guai, accusati nientemeno di progettare un attentato per far saltare le Torre Eiffel, colpevole con le sue luci di non farli dormire di notte.

È in quell’ambiente, tra giovani poeti e piccola malavita, precisamente Chez Moineau, al 32 di rue du Four, che Chtcheglov in quei giorni del 1953 aveva incontrato Guy Debord e l’Internationale lettriste, una piccola avanguardia nata pochi mesi prima dalla scissione dal Lettrismo di Isidore Isou. Il Lettrismo di Isou, agli occhi dei dissidenti di Debord, aveva la colpa di voler continuare a portare lo scandalo neodadaista nell’ambito dell’arte, dove ormai tutto era già stato detto e fatto. Non si trattava più di destrutturare linguaggi ma di portare la critica all’esistente nella realtà della vita quotidiana, dove le mutazioni repentine del capitalismo di quegli anni stavano stravolgendo rapidamente tutto, e non certo in meglio.
Nel 1978, nel film In girum imus nocte et consumimur igni, ricostruendo l’attività pionieristica dell’Internationale lettriste, Debord dirà di Chtcheglov e di quel 1953:
“Si sarebbe detto che soltanto guardando la città e la vita egli le cambiasse. Scoprì in un anno i soggetti di rivendicazione per un secolo”.
L’Internationale lettriste fino a quel momento si era mossa tra un volantino provocatorio e un’attitudine alcolica che rischiava di sconfinare nel nichilismo esistenziale: non a caso, appena prima che Chtcheglov scrivesse il Formulario, Debord, in un brano dal titolo Per farla finita con il comfort nichilista, auspicava:

“La negazione nei bar non sarà lo sbocco delle nostre vite […] Dobbiamo promuovere un’insurrezione che ci riguardi, testimoniare un’idea di felicità anche se l’abbiamo conosciuta perdente, perché su di essa dovrà anzitutto allinearsi ogni programma rivoluzionario”.
Chtcheglov irruppe sulla scena a promuovere quell’insurrezione, a suggerire una nuova idea di felicità, e lo fece camminando ancor prima che scrivendo. Deambulando incessantemente per Parigi in quell’estate del 1953 fino a scoprire nel cuore del Quartiere latino un intero continente (il Continente Contrescarpe), le cui “passioni dominanti erano il gioco, l’ateismo e l’oblio”, egli “inventava” la deriva, un’attitudine all’esplorazione e allo spaesamento che, in un mondo che cadeva sempre più sotto la cappa soffocante della noia e della ripetizione, racchiudeva il senso della libertà nell’incoraggiare associazioni inedite, passioni proibite, incontri imprevisti e curiosità sopite. Contemporaneamente un “cabilo illetterato” incontrato nei bar suggerì ai lettristi la definizione di psicogeografia per quella nuova geografia soggettiva ed emotiva. La deriva e la psicogeografia annunciavano che la forma della città riflette gli ordini della società dominante determinando i comportamenti, e che il superamento dell’arte e la realizzazione delle sue promesse di felicità implicavano una reinvenzione passionale dell’esperienza quotidiana.

L’Internationale lettriste adotta il testo di Chctheglov nell’ottobre 1953 e prevede di pubblicarlo nel quarto bollettino omonimo del gruppo, che però non vedrà mai la luce, sostituito da un volantino che riproduce la fotografia di Debord, Chtcheglov stesso e Dahou che camminano per strada commentata dalla scritta “La guerra della libertà va condotta con collera”; contemporaneamente, nel settembre 1953, Debord scrive un testo che rimarrà inedito, dal titolo Manifesto per una costruzione di situazioni, che di fatto anticipa di cinque anni la teoria che sarà alla base della fondazione dell’Internationale situationniste.
Il testo è totalmente impregnato delle teorie di Chtcheglov e testimonia la svolta dell’Internationale lettriste, che ora è convinta di aver trovato il passaggio a nord-ovest nella ricerca della nuova via rivoluzionaria; da quel momento il gruppo si ristruttura e comincia a pubblicare un bollettino ad uscite regolari, Potlatch, che nelle dichiarazioni d’intenti del primo numero si pone l’obiettivo di “fondare una nuova civiltà”.
Siamo alla metà del 1954 e l’avventura di Chtcheglov nell’Internationale lettriste si interrompe bruscamente, per dissidi insanabili con Debord; poco dopo, in conseguenza di alcune manifestazioni di violenza e delirio nei bar del Quartiere latino finirà in una struttura psichiatrica dove rimarrà internato per anni, tanto che se ne perderanno le tracce. (Solo nel 1963

Debord stesso rientrerà in contatto con lui per via epistolare, riprendendo a discutere delle intuizioni di allora, e Chtcheglov dimostrerà di non aver dimenticato).
Nonostante l’improvvisa scomparsa dalla scena del suo estensore, la via tracciata dal Formulario rimarrà ricca di prospettive. Se gli articoli di Potlatch spaziavano sui vari aspetti dell’attualità e della modernizzazione neocapitalista, il focus pratico-teorico del gruppo verteva sempre sulla deriva, sulla psicogeografia e sulla critica architettonica e urbanistica. La “nuova vita” proposta dal neocapitalismo di quegli anni prevedeva infatti una razionalizzazione della città il cui senso non sfuggiva ai lettristi: i centri urbani dovevano essere depurati della popolazione comune per diventare il cuore della macchina economica (banche, uffici, istituzioni), e la popolazione stessa andava deportata in periferia, in quartieri di nuova concezione che avevano un prototipo preciso: l’unità di abitazione che l’architetto più celebrato del Novecento, Le Corbusier, stava completando a Marsiglia proprio mentre Chtcheglov scriveva il Formulario. Si trattava di un enorme edificio, una città verticale – una “macchina per abitare”, come la chiamava Le Corbusier nella sua triste antropologia meccanicistica – destinata ad ospitare oltre 1500 persone e finalizzata ad uccidere le strade e i vecchi quartieri. Cosa sarebbero diventati questi edifici e i nuovi quartieri Chtcheglov l’aveva già capito allora, quando il modello non era ancora completo:
“Un progetto di Le Corbusier è l’unica immagine che evoca in me l’idea di un suicidio immediato. Sparirebbe per colpa sua ciò che resta della gioia. E dell’amore – della passione – della libertà”.
Dalla lezione di Chtcheglov l’Internationale lettriste comprese che, negli incontri che ci nega, nei panorami a cui ci abitua e nei percorsi obbligati a cui ci costringe, la città si poneva in quegli anni al centro del programma di un nuovo ordine totalitario:
“Eccolo, appunto, il programma: la vita definitivamente frammentata in isolati chiusi, in società sorvegliate; la fine delle possibilità di insurrezione e di incontri; la rassegnazione automatica” (Potlatch, n°5, luglio 1954).

Come detto, il Formulario non viene pubblicato nel bollettino dell’Internationale lettriste in quel 1953, ma apparirà cinque anni dopo sul primo numero dell’Internationale situationniste nel giugno 1958, con qualche brano in meno rispetto alla versione originale (quella qui riprodotta).
Sono cambiate tante cose in quegli anni: dell’Internationale lettriste originaria sono rimasti solo Guy Debord e Gil Wolman, ma tanti altri si erano uniti e altri ancora si avvicenderanno

negli anni successivi in una sorta di invisibile insurrezione di personaggi di varia provenienza ed estrazione che sconvolse la storia del progetto rivoluzionario del XX secolo.
Il Formulario di Chtcheglov apriva dunque quella strada perché, come ricorderà Debord al momento del suo scioglimento, nel 1972, l’Internationale situationniste era nata con il progetto di “almeno costruire delle città, l’ambiente favorevole all’illimitato dispiegarsi di nuove passioni”.
Per i situazionisti alla fine degli anni Cinquanta la lotta per la rivoluzione si giocava sul campo della cultura, della critica della vita quotidiana, dell’uso dello spazio-tempo collettivo: l’homo ludens, ovvero una comunità umana che fosse in grado di rifondarsi sulla vita activa, sul gioco e sull’ozio, doveva contrapporsi e soppiantare l’homo economicus, ovvero gli individui atomizzati che vedono asservita la propria esistenza al dover essere del capitalismo che lo stesso Le Corbusier (nella Carta d’Atene) aveva fissato nelle quattro funzioni del lavorare-consumare-abitare-circolare. E questa battaglia per un “totale cambiamento di rotta dello spirito” si combatteva sul filo di una propaganda intensiva e concreta, da diffondere nei luoghi del vivere comune, a favore di un’idea di felicità completamente nuova: “[…] la messa in evidenza dei desideri dimenticati e la creazione di desideri completamente nuovi”, come diceva Chtcheglov.
Il capitalismo stava estendendo la propria mefitica coltre utilitaria su tutte le sfere della vita, colonizzando l’esperienza e l’immaginario collettivi sul tempo e sullo spazio della merce. Tutti i prodotti del consumismo degli anni Cinquanta, dall’automobile alla televisione, erano accomunati dalla tendenza ad isolare, separare, alienare. La resistenza e il contrattacco dovevano avvenire sullo stesso campo: se la malattia mentale che stava invadendo il pianeta era la banalizzazione, occorreva riappassionare la vita, reincantare il mondo.
Le vecchie città degli anni Cinquanta mantenevano ancora dei tratti a carattere popolare, zone franche di vitalità e socialità; esistevano ancora quartieri con relazioni di solidarietà e forme di vita condivise, antieconomiche; l’esperienza proletaria – per dirla con alcuni amici dei situazionisti – era insomma ancora viva e il capitalismo sapeva di avere la necessità di estirparla in modo brutale e rapido per completare la propria trasformazione; le comunità andavano smembrate, gli individui separati e isolati affinché il dover essere dell’homo economicus risultasse l’unico orizzonte possibile. L’urbanistica era la disciplina poliziesca per realizzare tutto ciò.
Le Corbusier aveva detto già negli anni Venti che bisognava “abolire la strada”; negli anni Cinquanta-Sessanta quest’obiettivo si poneva al centro dell’agenda del dominio, e la psico-

geografia si riformulava in critica dell’urbanistica per permettere di tracciare i confini tra le zone urbane ancora vitali e quelle già morte, sterilizzate.
Il fascino della proposta di Chtcheglov che rimaneva attuale nella prima parte dell’attività dei situazionisti era l’idea che la costruzione di un mondo rinnovato non dovesse partire da una nuova forma di architettura, intesa come tecnica costruttiva, ma da un inedito sentimento del tempo e dello spazio; rompere le abitudini, i condizionamenti della vita quotidiana; esplorare i quartieri per vedere che effetto fanno sui nostri sentimenti, frequentare gli spazi pubblici dove gli incontri sono possibili: in attesa di poter costruire le “città del sogno”, bisognava nel frattempo stravolgere ed appassionare quelle esistenti.
Per lunghi anni i situazionisti lottarono così per dimostrare concretamente che “l’idea borghese di felicità” era letale, che il capitalismo stava barattando “la garanzia di non morire più di fame con la certezza di morire di noia”, come scrissero un anno prima dell’esplosione del maggio ’68, riproponendo la questione già posta quindici anni prima da Chtcheglov quando aveva sottolineato che “tra l’amore e lo svuota-rifiuti automatico la gioventù di tutti i paesi ha scelto e preferisce lo svuota-rifiuti”.
All’inizio degli anni Sessanta, dopo qualche tentativo fallito di costruzione di ambienti e città, i situazionisti si resero conto che il condizionamento del potere correva troppo veloce per i tempi di un progetto simile. Da quel momento si dedicarono all’analisi spietata di quella che Debord chiamerà la “società dello spettacolo”, per offrire alle persone le armi della critica con cui comprendere e insorgere contro l’intero sistema economico, sociale e politico del moderno capitalismo. Da quella analisi, di cui oggi tutti celebrano la lucidità e la lungimiranza, verranno le scintille per le barricate del maggio francese e tanto altro.
Se le città sperimentali immaginate da Chtcheglov appaiono ai nostri occhi odierni un’utopia radicale, se la previsione di Debord che “un giorno, si costruiranno città per lasciarsi andare alla deriva” sembra ormai un sogno lontano e ingenuo, tuttavia la provocazione del Formulario di Chtcheglov rimane ancora originale e ricca di cose da dirci.

A Chtcheglov va riconosciuto almeno il merito di aver ricordato e rivendicato una delle passioni più profonde quanto sottovalutate dell’essere umano, quella voglia di “giocare con l’architettura, il tempo e lo spazio” di cui una vita finalmente più libera non potrà fare a meno.

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Maldoror Press 2013

Titolo originale: Formulaire pour un urbanisme nouveau
Prima edizione integrale italiana
Traduzione di Carmine Mangone
Introduzione di Leonardo Lippolis
Illustrazioni e postfazione di Kalashnikov Collective

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