Naviga per Categoria

Ernst Haas – Il linguaggio fotografico dell’immaginale

Inserito da serrilux

Ernst Haas – Il linguaggio fotografico dell’immaginale

(La fotografia esiste, me l’ha detto Franti!)

“Continuo a non capire tutte queste problematiche discussioni sul bianco e nero e il colore. Amo sia l’uno che l’altro, ma parlano lingue diverse nello stesso ambito. Sono entrambi affascinanti. Il colore non significa bianco e nero più colore, come il bianco e nero non è solo un’immagine senza colore. Ciascuno di questi mezzi richie- de una diversa sensibilità nel vedere e, di conseguenza, una diversa disciplina.
Ci sono gli snob del bianco e nero, e ci sono gli snob del colore. Incapaci di usare bene entrambi, si mettono sulla difensiva e militano in campi opposti. Non bisognerebbe mai giudicare un fotografo dal tipo di pellicola che usa, ma solo da come la usa”.

Ernst Haas

 

I. La fotografia esiste, me l’ha detto Franti!1

É quando non si riesce più a ridere che si comincia ad uccidere, anche con la fotografia… ecco perché le turbe dei fotografi (professionisti o amatoriali, è la medesima cosa) che inseguono il successo e il consenso, sono pronti a vendere la propria madre per avere un posto in società… il riconoscimento dei media (specie se è televisivo) rendono i fotografi più stupidi dei santi… si può prevedere il destino da valletto di un fotografo, un docente o un esperto in affari fotografici, dal numero di workshop, portfoli o stage che ha perseguito… sono in molti a non aver ancora compreso che ciò che è veramente straordinario in fotografia è bere una birra sul mare con un amico e mandare a fare in culo tutte le chiacchiere filistee sulla fotografia, sulla vita e sul mondo che affermano sia il migliore dei mondi possibili.

Aveva ragione Cioran “È meglio fare la Francia in bicicletta che una tesi di dottorato” —… e con chi farla la tesi? con chi sostiene il segretariato delle emozioni? i salotti di buona condotta? la grandezza della fotografia alla portata di un barboncino? i fotografi, come gli scemi del villaggio, si smedagliano tra loro o leccano il culo a chi pensano ne sappia più di loro… tutti parlano di fotocamere, pixel, obiettivi… nessuno di fotografia… almeno i buffoni di Shakespeare sapevano sputare nel piatto del re… questi non riuscirebbero a sopravvivere a cinque minuti verità (non solo della fotografia)… scollati come sono dalla vivenza e dalla pelle del reale, non si accorgono nemmeno di essere le scimmie obbedienti della civiltà dello spettacolo… dissertano sul bianco e nero, sul colore, sul mosso, lo sfocato, il crop, il boken… tutta roba da fanatici del nulla e consumatori del vuoto… millantatori di simulacri e mitologie non sanno (né vogliono sapere) che i padroni dell’immaginario fotografico sono i medesimi che fabbricano armi, foraggiano lo sport, saccheggiano continenti delle loro ricchezze e con il terrorismo della Borsa tengono a catena, governi, partiti, mafie, mercati… la fascinazione dell’obbedienza incarcera ogni poetica del dissidio e una società incapace di generare utopie, denunciare le disuguaglianze sociali e l’urgenza di porvi rimedio è, a lungo andare, destinata alla sclerosi e alla rovina.

Tutti gli imbecilli finiscono per giocare a bocce, adorare un sport, seguire la moda, dissertare sulla cucina o debuttare in politica… i più imbecilli si aggrappano a una macchina fotografica e sgambettano da qualche parte per addivenire artisti o soltanto consumatori della fotografia del narcisismo industriale… la fotografia non si legge, né si vede… si ascolta, si sente… il fotografo non parte da ciò che ha letto, ma da ciò che ha vissuto. La grande fotografia contiene un’imperdonabile insolenza, è l’epifania di un sogno o la testimonianza di una creatività ricevuta in sorte. Non tutti i “grandi” fotografi sono allo stesso tempo uomini eccezionali o in qualche modo interessanti o più semplicemente amabili… occorre sapere che molti sono sgradevoli, noiosi o addirittura stupidi… alcuni hanno messo nella fotografia l’anima e la carne delle umane cose (Leopardi, diceva) ed è per questo che sono i magnifici randagi (o gli immortali) della storiografia fotografica.
La fotografia esiste, me l’ha detto Franti!… e dev’essere vero, visto che per essere autori di spessore non importa fotografare bambini buttati nella spazzatura o bambini bruciati dal napalm o bambini in attesa di essere mangiati da un avvoltoio… a volte basta un uso intelligente del colore (o del bianco e nero) per mostrare che il vero uccide la vita, che solo l’amore rende possibile. A volte ci sono fotografi che guardano la realtà con altri occhi e anche altri cuori… transfughi dell’ordine, della norma e dell’impostura… colpevoli di una qualche ingenuità, forse… affabulano immagini gnostiche, scettiche, a volte ciniche… tuttavia sempre impiantate in quello stile aforistico che non canta la storia, ma la sua fine… sanno che ogni progresso mercatale implica più distruzioni e ogni ascesa politica inaugura nuove fosse comuni. Lo scandalo supremo è la libertà! e solo un maelström dell’agire (con qualsiasi strumento utile) può portare a un’altra ridefinizione del mondo.

Uno dei fotografi, ritenuto di grande talento estetico da molti (a dire il vero non è proprio uno dei nostri cattivi maestri, ma abbiamo sempre apprezzato la sua onestà intellettuale), è Ernst Haas… nasce a Vienna nel 1921, scompare a New York nel 1986. In gioventù voleva diventare pittore (come tanti altri fotografi, uno per tutti Henri Cartier-Bresson)… negli anni 40 inizia a studiare medicina, ma ha un difetto, ha origini ebraiche, e da quelle parti c’era un caporale viennese con inclinazione alla macelleria, che appena eletto capo del parlamento tedesco vuole eliminare l’intera razza ebraica… lo scemo con i baffetti da topo si da da fare… ne ammazza quasi sette milioni di ebrei… poi vuole allargarsi alle nazioni che un tempo lo finanziavano e così perde la guerra e la complicità di un popolo disattento al fumo dei camini dei campi di sterminio che sporcava i panni stesi ad asciugare nei cortili. Haas fa in tempo però ad arruolarsi nell’esercito tedesco (?) e vedere da vicino l’assurdità della guerra. A conflitto finito inizia a fotografare il rientro dei prigionieri di guerra austriaci e siccome è bravo attira l’attenzione di Life che lo mette sotto contratto. Haas rifiuta e difende la propria indipendenza. Nel 1949 Robert “Bob” Capa lo invita ad entrare nella prestigiosa (per così dire) agenzia Magnum… e avvia rapporti di amicizia con Cartier-Bresson e Werner Bischof, due giganti della fotografia. Nel 1951 si trasferisce negli Stati Uniti… è un curioso sperimentatore e le pellicole Kodachrome (a ragione) attirano la sua attenzione… prende a lavorare con il colore e nel 1953 Life pubblica un suo notevole reportage su New York… nel 1962 il New York’s Museum of Modern Art gli dedica una retrospettiva… viaggia a lungo nel mondo e i suoi reportage sono pubblicati da Life, Vogue e altre riviste… i quattro libri che escono in vita (The Creation, 1971), In America,1975), In Germany, 1976), Himalayan Pilgrimage, 1978), restano a memoria di quanti hanno compreso che la fotografia è un linguaggio creativo o la mortificazione del pensiero e insegna che ovunque si può morire o vivere per una virgola fuori posto! Nel 1986 (anno della sua morte) riceve il Premio Hasselblad. Finite le necessarie annotazioni, meglio passare ad altro… senza incappare, spero, in lezioni di lucidità dissennata… lo giuro davanti alla statua di Gavroche (uno dei personaggi de I miserabili di Victor Hugo) che muore sulle barricate di Parigi cantando: “Se balzano è il mio carattere, / La colpa è di Voltaire, / Se quattrini non ho, / La colpa è di Rousseau. / Se son finito in terra, /La colpa è di Voltaire, / Col naso nel canale finirò, / La colpa è di Rousseau”. Ci sono molti (troppi) politici ma pochissimi Gavroche, è questa la tragedia dell’umanità.

II. Il linguaggio fotografico dell’immaginale

La fotografia è un linguaggio dell’immaginale (e dell’immaginario), apolide, anche… con “il quale — Henry Corbin, il più grande studioso iranista europeo, tra i maggiori pensatori del Novecento, diceva da qualche parte, — “intendo provare a definire un ordine di realtà che corrisponda a un certo tipo di percezione, poiché la terminologia latina ha il vantaggio di fornire un punto di riferimento tecnico preciso, con cui confrontare i più o meno idonei equivalenti dei linguaggi moderni occidentali… Al fine di incoraggiarci in questo cammino, dobbiamo domandare a noi stessi: cosa costituisce il nostro reale, cosa è reale per noi, e se lo lasciassimo, troveremmo qualcosa in più del semplice immaginario, dell’utopia?”2. Tutte le belle domande feriscono, l’ultima, uccide (a ricordo del film di Jean-Pierre Melville, Le Deuxieme Souffle, 1966, è una sorta di patto amicale tra banditi di un certa nobiltà). Più semplicemente la fotografia è un messaggero d’amore alla portata di un barbone alcolizzato che inveisce contro l’immaginale tradito, mai piantato nella realtà… non si può fare nessuna fotografia se non si è compreso Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, l’Ecclesiste (Qohèlet), l’asino Platero di Juan Ramón Jiménez o le puttane di Storyville di Bellocq…  la fotografia accende il discorso sul mondo e parla o partecipa al contraddittorio tra il male e  il bene comune.. poiché non esistono regole senza eccezioni, la fotografia può (come ogni forma d’arte) diventare il lasciapassare dell’amore perduto o, come vediamo, teatro di crudeltà inaudite che popolano il mercato degli idioti.
Il mondo immaginale (o delle immagini sospese), termine introdotto da Henry Corbin, è una realtà indipendente dal soggetto, ha una sua geografia e si estende nella realtà senza essere influenzata dalla fantasia, ma che è connessa con la profondità del pensiero. Nella mistica visionaria della filosofia Sufi, l’espressione che figura questa realtà è chiamata “Terra di nessun-dove” (Na-Koja-Abad). La capacità di entrare in contatto col mondo immaginale dipende dall’immaginazione, che per Corbin è una facoltà attiva, mediatrice, con funzione simbolizzante, capace di liberarci dall’ostacolo generato dal processo razionale (che obbliga a scegliere tra materia e spirito, svolgendosi principalmente per analogia e consonanze tra simboli. Il mondo dell’immaginale è un passaggio spirituale, trasforma gli stati interiori dello spirito in stati esteriori, ovvero in visioni ed eventi che mettono in atto, simbolizzandoli, gli stati interni, come c’insegnano Corbin, Carl G. Jung o Gaston Bachelard [ e perfino il boia di Londra ] (vedi: gianfrancobertagni.it). L’immaginazione creatrice, scrive Corbin altrove3, è il luogo epifanico che supera la coscienza razionale e in questa “Terra del non-dove” si opera per il superamento della coscienza ordinaria… è qui che s’incontrano gli angeli che corrispondono agli esseri umani, anche… si tratta di vedere e “volare” al di là della storia e figurare sotto ogni cielo il fantasma o l’inumanità del vero.


A sfogliare l’immaginale fotografico di Haas (non solo sul colore ma dell’insieme della sua opera)… non è difficile cogliere la forza affabulativa del fotografo viennese… per Haas ciò che importa è la decostruzione del reale, riprendere e rivedere ciò che bisogna necessariamente cogliere di là dall’immaginario. Le immagini scattate in Brasile, Giappone, Africa… travalicano la situazione d’origine e vanno a comporre una rapsodia visiva che riguarda la bellezza del mondo da difendere e preservare… in questo senso la fotografia di Haas diventa archetipo o traccia di una luminosità della vissutezza che esplode nella bellezza convulsiva del fotografato… cieli, mari, fiori, savane, coralli, cascate… riportano alla sensualità dei trovatori… alla pratica dell’amore cortese verso il delicato, il fragile, l’indifeso… la dolcezza, non va dimenticato, è la capacità, non solo in fotografia, di differire, di associare il vero al giusto, di volere un piacere a venire. Non si può concepire nessuna relazione fra corpi e ambienti senza conoscere la dolcezza come virtù cardinale dell’esistenza.
L’immaginale fotografico di Haas è un portolano di emozioni… ogni immagine è gravida di senso, di bellezza, di nudità singolari… il vocabolario della ricchezza visionaria di Haas si fa ascoltare senza fraintendimenti… che la fotocamera di Haas s’accosti a uomini, ambienti urbani, nature o composizioni geometriche… tutto ciò che ne esce è un disincanto, l’autonomia del significante che gli permette d’intrecciare l’immaginale con i gangli del reale… non ci possono essere fotografie giubilatorie senza il coinvolgimento dei sentimenti da una parte e, dall’altra, senza la loro realizzazione in forme alte del comunicare. Chi non vuol vedere, si espone a non essere inteso, o forse anche troppo bene! Ogni immagine, infatti, è menzogna estetizzante o un pezzo di futuro che avanza.
I colori delle immagini mosse di Haas (toreri, cavalli, danze, gare sportive)… rimaterializzano l’immaginale fotografico… non importa fotografare il contingente o colorare il movimento… ciò che vale è fare del colore un vivaio di situazioni costruite che non lusingano né violano, tantomeno celebrano… Haas qui si fa demiurgo o iniziatore d’infanzie mai tramontate e attraverso un eccelso edonismo riconduce l’immaginale a rileggere la memoria o l’indicibile dimenticato… l’intimità dello sguardo che trabocca fuori dagli obblighi sociali e dagli ordinamenti mondani della cultura fotografica… la geografia etica che fuoriesce da queste fotografie-movimento è una sorta di variazione del colore, della luce, dei suoni che sembra di toccare… vedere un invisibile che diventa forma, vita, ponte, un altrove che obbliga alla gentilezza, all’intersoggettività che è la temperatura del bello, del buono e del giusto, a una morale egualitaria che diventa prossimo in ciascuno e in tutti.
La ritrattistica in bianco e nero di Haas contiene la stessa prospettiva artistica dei lavori a colori… le fotografie di star del cinema, della cultura, dello sport, della politica… raffigurano sempre la persona, mai il mito… Haas lavora sull’imperfetto per superare il fascino del momento… anche quando l’oggetto della fotografia è il più consumato commediante del suo tempo (o un poeta geniale, mai asservito alla macchina/capitale), l’immaginale del fotografo s’affida all’eleganza, alla grazia, all’eccellenza di uno stile dove la preminenza dell’istante è una trasmutazione dei valori o, meglio ancora, è un chiamarsi fuori dall’ordine spettacolare a favore della libertà espressiva… non c’è realtà possibile senza considerazione dell’altro, il battesimo del clamore consacra, la villanìa della realtà tutta intera è il risultato della magnificenza che lo stile, il giusto e la discrepanza esigono e conferiscono solo agli artisti senza guinzagli la dignità che ne consegue.

Le immagini dell’America, Europa, Asia… non si accartocciano in abissi, eccessi o levature dozzinali… rivelano l’unicità e il rinascimento del soggetto, e alla maniera della commediaumana di Balzac, figurano non i costumi dello spettacolo ma il sorgere delle cause che vivono il desiderio di verità, di bellezza e convivenza come principio di tutte le passioni. “La passione ti porta avanti. Se non hai la passione, termina l’arte, termina la vita” (Gian Paolo Barbieri). Prima che ogni forma d’arte fosse confinata nelle istituzioni o esposta in recinti o stalle appropriate… l’arte è stata di certo accorpata a ciò che dovrebbe essere ai nostri giorni… una pratica differenzialista o un canto d’esistenza della vita quotidiana. Un’intimazione rivolta alla mistica, all’acredine, all’arbitrio che sono incompatibili con l’atto poetico che strappa la diversità all’anonimato. Non c’è arte che non sia dell’anima, il resto è merce.


Il reale fotografato da Haas è colto più in profondità di quanto a prima vista si legge nell’immagine… tutta una serie di microstorie emergono dall’inquadratura e sono proprio quelle  che divampano nella malinconia che le abita… Haas non spiega né dimostra! mostra la storia universale (anche dell’infamia, direbbe Borges) e ogni immagine coincide con quella del mondo… c’è ammirazione, anche stupore, in questo dispendio della bellezza… una forza prometeica che albeggia nuove rotte del vedere… un’architettura etica che esonda sul disordine dello spettacolare integrato che, come sappiamo, è «il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente (Guy Debord, diceva)» che ha permesso la manipolazione del dominio spettacolare sull’uomo. La rottura dell’estetica generalizzata è l’inizio di tutte le liberazioni dell’immaginario e il brulotto messo sotto il culo di tutti gli imperi. Si tratta di aspirare a un’altra vita, a un’altra politica, ridurre le caste, i partiti, i dogmi al silenzio! Come è successo nel Maggio ’68, portare l’immaginazione al potere, non per possederlo, ma per meglio distruggerlo. I ragazzi del ’68 hanno perso, è vero, ma avevano ragione! Ma questa è un’altra storia.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 24 volte giugno, 2018

1 Per i curiosi, non solo di cose fotografiche, Franti è un personaggio del libro di Edmondo de Amicis, Cuore (prima edizione 1886)… spesso è malamente descritto come — “Il cattivo, di una famiglia del sottoproletariato, che trema davanti ai ragazzi più grandi e se la prende con quelli più deboli di lui; alla fine viene prima espulso dalla scuola e poi mandato in prigione dopo una rissa con Stardi” —. Franti è la figura dell’insubordinazione (che de Amicis racconta con parca amorevolezza)… il ragazzo non capisce (e de Amicis, nemmeno, forse) che la miseria non è ereditaria e la sua disperata vitalità è anche l’autobiografia di un escluso dalla vita sociale… è il ritratto più bello (a nostro avviso) del libro e de Amicis — di famiglia benestante, allievo dell’Accademia Militare di Modena, direttore di Italia militare (organo ufficiale del Ministero di guerra), poi socialista, massone e molto altro ancora… non poteva comprendere fino in fondo —… l’imperitura pedagogia buonista di Cuore ha fatto più vittime della Santa Romana Chiesa e sotto le stigmate di Lavoro, Patria, Famiglia, Fede, Onore e Gloria si sono commesse più infamie delle calate dei barbari.
[ Il nostro Franti è Maurizio Rebuzzini, editore e direttore di Fotographia, una rivista ereticale, anche, dove si parla di fotografia e poi, eventualmente, si fotografa! Maestro in molte cose, Franti-Rebuzzini è un moralista fourieriano o un comunista utopico che nei suoi scritti, come nella sua esistenza, configura una filosofia delle passioni come passaggio dalla vita alienata alla vita autentica. Come Fourier sa che in tutti luoghi e in tutte le epoche, solo i cortigiani sanno come muoversi a corte e insieme ai buffoni tengono alte le insegne del successo e del consenso… peccato che moriranno stupidi, senza sapere mai che l’epifania del meraviglioso è nella regalità del ragazzo che gioca e continua a giocare alla guerra con la spada di legno (qualche volta con la macchina foto- grafica). Fino a vent’anni tutti fanno fotografie, poi restano i poeti (pochi) e gli imbecilli (molti). E sono i poeti che hanno presto capito che la cosa più importante da fare con l’oro (ripreso ai ladri delle banche) è fabbricare i vasi da notte o ridere fino a morirne di un’epoca mercatale che è stata tutto, tranne che intelligente! Ciao a te, Franti ].

2 Pino Bertelli, Dal taccuino di un fotografo di strada, senza data né origine della citazione.

3 Henry Corbin, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Laterza, 2005

 

Manifesto per una fotografia dei diritti umani resistenza sociale, disobbedienza civile e poetica dell’immagine

Manifesto diritti umani