“Provate a essere liberi: morirete di fame.
La società vi tollera soltanto a patto che siate successivamente servili e dispotici”.
E.M. Cioran
I. Per una notte di san Bartolomeo della fotografia
Tutto nel mondo accade per finire nelle fotografie (nei film, nei libri, nelle pitture spesso di corte), se non fosse così, nel mondo non succederebbe mai nulla! Al tempo del civiltà dello spettacolo un sistema di dominio mondiale gestisce tutto… oro, acqua, droga, armi, banche, partiti, governi, mafie, sindacati, terrorismi, culture, religioni, perfino i sogni dei bambini… le forme di dipendenza passano attraverso il soddisfacimento o la paura delle masse dei consumatori e il mercato globale ha unificato il pianeta nella soggezione o nel genocidio delle guerre “umanitarie”… l’ipercapitalismo della Cina “comunista” di Xi Jinping, il fascismo di rosso vestito di Vladimir Putin (che danzano sui cadaveri dei loro oppositori con notevole disinvoltura), insieme alle economie di guerra sostenute da Donald Trump, Benjamin Netanyahu, Salmān bin ʿAbd al -ʿAzīz Āl Saʿūd (re dell’Arabia Saudita) e altri piccoli bastardi sanguinari come Recep Erdoğan, Abd al-Fattah al-Sisi, Bashar Al-Assad… con la complicità reverente di Inghilterra, Francia, Germania, Italia… tanto per non dimenticare… esprimono al meglio la schiavitù del capitale, il colonialismo “civilizzatore” più spietato mai apparso sulla terra dalla scoperta del fuoco e l’ingiusta ripartizione della ricchezza nell’epoca della tecnocrazia, tiene interi popoli in condizioni di schiavitù1 . L’utopia dell’egoismo ha vinto sull’utopia della fratellanza.
La fotografia è uno dei mezzi, tra i più efficaci, a servire per l’edificazione di un sistema spettacolare che volge le spalle all’umano e i fotografi, nella maggior parte, sono piccole (o grandi cimici) dell’accordo divinizzato… per ricevere l’aureola del consenso, del premio o del riconoscimento televisivo… sono disposti a fotografare scannamenti, lapidazioni, brutture, ingiustizie… da sistemare in gallerie, musei, latrine nobiliari… e tutto per entrare (saltellando) nella storia della fotografia, sovente scritta da storici che la storia non ha ammazzato. Davanti a un tribunale degli angeli, pochi, davvero pochi, sarebbero i fotografi da non impiccare sui portoni blindati delle banche, le nuove chiese dell’obbedienza.
La fotografia è sempre l’immagine di ciò che si è voluto celebrare o distruggere… basta non screditare né uomini né istituzioni, né guerre né mafie, né chiese né caste… e nessuno corre alcun rischio… ecco perché la fotografia dello spettacolo vanta successi e idiozie appassionate… finché un fotografo è protetto dalla demenza agisce a prospera, quando si pone contro la tirannia mercatale, o è affogato nel silenzio o cade in rovina. Tuttavia, e non solo nella storia della fotografia, ma in quella dell’esistenza, ci sono stati fotografi (e uomini) che hanno sfidato tutti i poteri e tutte le conventicole culturali, hanno contrastato l’assuefazione all’ipocrisia e sputato in faccia (con grazia) a quanti facevano professione di convertire o convincere. Chi non ha rimpianto di non aver tagliato la gola a un dittatore, un papa o un generale, invece di fargli il ritratto? Il cinismo, come la franchezza, non s’impara a scuola, e nemmeno la fotografia… per avere un posto onorevole nella fotografia, bisogna essere commedianti, rispettare il ruolo delle parti e lavorare su falsi problemi… la messe di beati che figurano nell’olimpo della fotografia sono confusi tra l’equivoco del talento e l’impostura dell’uomo… eppure, come tutti sanno, anche lo scemo del villaggio, in ogni fotografo coesistono un millantatore, un cretino o un genio (quest’ultimo però non lo sa).
C’è da dire però che al limitare della fotografia o al margine dell’immagine integrata nell’illusione generalizzata… ci sono autori che non rilasciano certificati d’inesistenza… fotografi di percorsi accidentati che obbligano a riconsiderare negazioni e verità (anche le nostre) e, più di ogni cosa, perseguono con coraggio il viatico di una creatività nella quale il fermento agnostico degli uomini è ancora traccia di qualcosa da difendere o da sostenere… e non importa andare a scovare chi sa quale fotografo americano, francese, giapponese… ai quali spesso si perdona tutto, persino crimini d’indegnità per conquistare un premio Pulitzer… basta andare a vedere la cartografia fotografica di Danilo De Marco, per comprendere che la fotografia non riconosce altra dignità se non quella della bellezza, della giustizia e del bene comune… l’immaginario di resistenza che ne consegue si chiama fuori dall’apparato utilitaristico e sospetto di ciò che corre sui mercati, non solo dell’immagine… la fotografia fiorisce soltanto in opere in cui la futilità dei precetti muore insieme ai lasciapassare di buona condotta dei palafrenieri dell’ordine costituito.
Abbiamo tutti pianto con la fotografia, perché è così difficile cambiare il mondo! Siccome ogni fotografia (di una persona, un cane, un postribolo, un paesaggio, una lucciola scomparsa) è un autoritratto, una confessione in pubblico, ciascuno ha diritto ad uccidere il mito, quanto elevarlo a santo! Ma alla fine, in guisa di consolazione e al culmine di una vita glorificata, in ogni campo dell’arte (come nella quotidianità), restano i poeti e gli imbecilli! E sono i poeti ad anticipare il crollo degli imperi e l’inutilità di una corona (anche fosse di sterco). L’estrema unzione della fotografia è nell’autobiografia che si porta dietro… l’avvento della coscienza, in fotografia e dappertutto, porta lontano e permette qualsiasi cosa, anche di spazzare via la farsa dell’immaginale mercatale… non perché le fotografie non si vendono, ma perché il fascio delle fotografie sono fatte nella maniera più attuale per essere vendute… l’arroganza dei mercati non vuole filibustieri dell’immagine, ma soltanto cortigiani intontiti dal trionfo… l’abbiamo detto altrove… ci vorrebbe una notte di san Bartolomeo della fotografia per riconoscere il rumore secolare delle lacrime.
Un’annotazione di servizio. Danilo De Marco nasce a Udine nel 1952. A quindici anni incontra la fotografia e lavora come apprendista in un laboratorio artigianale di stampa in bianco e nero. Nel 1975 apre una sua “bottega” di sviluppo e stampa (bianco e nero) e, come autodidatta, si diploma all’Istituto d’Arte di Udine, poi frequenta il DAMS di Bologna. Nel 1970 è tra gli ideatori della prima mostra in Italia su Tina Modotti. Nel 1985 cura una grande esposizione sulla Resistenza italiana (con fotografie d’epoca). Trascorre qualche tempo in Nicaragua e allestisce una mostra sulla rivoluzione sandinista. Nel 1988 si trasferisce a Parigi, dove vive ancora e inizia a viaggiare. Nel 1991 è in Kurdistan, nel 1994, 1995, 1998 in Brasile, le sue fotografie confluiranno nella mostra Il sale della terra. Nel 2000 è in Colombia, fotografa l’etnocidio degli indigeni U’WA che difendo le loro terre dalla devastazione provocata da una multinazionale e, naturalmente, si occupa della guerriglia (FARC). Le sue immagini e gli articoli di Ettore Mo, per il Corriere della Sera, faranno conoscere la giusta causa degli indigeni U’WA. Poi è la volta dell’Ecuador, della Bolivia, India, Haiti, Sri Lanka, Congo, Uganda… ritratti di scrittori, poeti, pittori, partigiani europei… pubblicazioni, mostre, incontri (come quello con Mario Dondero, fotografo di grande spessore autoriale e politico)… insomma un’iconografia radicale che pratica brecce nelle mura di vergogna del gusto imperante… gli opportunisti hanno rovinato la fotografia, i poeti (come De Marco, Dondero o Roman Vishniac…) l’hanno salvata dal ridicolo.
Ridotta all’apparenza, la fotografia mercatale sposa una saggezza incompleta, una sorta di miscuglio fra l’arte del sogno e la scimmiottatura del sogno venduto come arte… l’onorabilità della rivolta in ogni campo del comunicare si misura sul numero dei disaccordi con le idee dominanti e dal rifiuto a genuflettersi in mezzo a terrori eleganti: “Siamo abbastanza chiaroveggenti da essere tentati di deporre le armi; nondimeno il riflesso della ribellione trionfa sui nostri dubbi; e benché potremmo diventare degli stoici perfetti, l’anarchico rimane desto in noi e si oppone alla nostra rassegnazione” (E.M. Cioran)2 . L’aggressione dell’uomo contro l’uomo, dei dominanti sui dominati, dei padroni sui servi… cade in fotografia (o ne viene espulsa con timorato rigore stilistico) come un assassinio impunito e voltarsi contro la storia significa imparare a insorgere e con qualsiasi mezzo utile, dare alla storia la lezione che si merita.
La fotografia, è il tutto alla portata dei cani e il niente di eroiche vigliaccate e luride espressioni dell’anima umana… senza indignazione non c’è fotografia, solo ricchezza obbligatoria… sbudellare qualcuno per ricevere l’attenzione di quelli che commerciano col dolore e lo premiano senza considerarne il sugo! I patrioti dell’industria che incensano anche i conti della spesa dei loro datori di lavoro… linguaggio in presa diretta del sensazionalismo, mai quello dell’emozione! del rispetto! della condivisione! tutti imitano tutti e nessuno mai si accorge delle lacrime secche di un bambino morto per fame o sotto una pioggia di “bombe intelligenti”! Non si tratta solo di smerdare e sputare sulle conveticole della fotografia e dell’uditorio che ne fa il coro… occorre fare dell’improprietà dello stile (compresi gli errori d’inquadratura, d’esposizione o di messa a fuoco) lo stravolgimento della lingua iconografica e attraverso la filosofia dell’ingiuria (che offende l’onore o il decoro di una bandiera, una fede, un capo di Stato o un padrone), rendere incommerciabile la menzogna.
L’utopia non ci fa difetto… tuttavia professare opinioni sovversive significa lavorare sulle definizioni e abbandonarsi a tutte le forme di liberazione, senza temere l’orrore del paradiso né le gogne (censorie) delle democrazie autoritarie. Una civiltà esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione, diceva… è solo a prezzo di grandi abdicazioni che un uomo, come un popolo, diventa protagonista della propria esistenza. Liquidare una dinastia di tiranni non è un assassinio, ma un atto di giustizia! Importante è avere dello stile! La distruzione del simulacro porta con sé quella del pregiudizio. Nei momenti di raffinatezza popolare la forza della sovversione è contagiosa, si porta addosso anche il fascino dell’avventura e non è facile resisterle.
Un fotografo che vale non è in grado di fotografare soltanto la situazione, ma anche il pensiero (il vissuto)… si tratta di “amare la gente e farglielo capire” (Robert Capa). Visto che fotografare la verità è tanto difficile, non importa avere in banca un conto da incoraggiare qualsiasi rapina a mano armata, a volte basta solo un nichelino (come per Capa) per affrontare l’afflizione della guerra e la convinzione che certe fotografie possono essere un’utile testimonianza contro tutti i fascismi… “il fotografo è lo strumento, non la macchina fotografica” (Eve Arnold), e la fotografia è qualcosa a metà strada tra l’impronta di un avvenimento e il desiderio di rovesciare il mondo! Le belle fotocamere arredate d’ogni cosa servono solo ad impressionare gli idioti… nessun fotografo ragionevole ha mai fatto oggetto di culto delle sue immagini… la storiografia fotografica ha adorato soltanto i fotografi che l’hanno fatta perire, la fotografia. I grandi fotografi hanno combattuto verità scadute, rivoluzioni suicidate, fedeltà tradite e svelato l’imbroglio di una società fondata sul falso ottimismo, sull’autoritarismo e sull’oltraggio… un immortale della fotografia, William E. Smith, quando è morto ha lasciato in eredità 18 dollari, ma la sua opera è divenuta patrimonio dell’umanità.
La fotografia spettacolare è parte di una reticolazione accettata, quando non sostenuta, della creatività subordinata alla dissimulazione, quella del consenso spettacolare… sembra che anche gli autori più riconosciuti non possano fare a meno dell’organizzazione della passività… ma ciò che è falso forma il brutto e sostiene il brutto che la finzione dice essere bello! L’inganno sostituisce il vero dovunque! L’impostura generale regge tutta l’impalcatura dell’immaginario e arte e affari volteggiano insieme nel “grande gioco” dell’imbecillità, dove la parte della realtà è tenuta nascosta o amplificata fino all’astrazione, al concettuale, mentre l’autenticità del discorso relegata tra l’incompreso e il suicidato dalla società… l’industria, lo stato e lo spettacolo formano legami personali di dipendenza, protezione e soggezione… da quando la fotografia è morta, è diventato facilissimo, com’è noto, travestire dei poliziotti da artisti, diceva… la fama di giornalisti-poliziotti, storici-poliziotti, romanzieri poliziotti o politici-poliziotti sta tutta nella pontificazione dei mass-media… la loro miseria creativa influenza spie, sbirri, buffoni dell’ufficio segreto dello Stato (quello dove tutto fluisce e defluisce secondo gli scopi, anche terroristici della politica)… sociologi, politologi, specialisti mediali dibattono su tutto, esprimono uno stile di vita e lo spirito di un’epoca che è stata tutto, fuorché che intelligente! “Presto per strada non vedremo più che artisti, e faremo una gran fatica a scorgere l’uomo” (Arthur Cravan). La fotografia, come la libertà, non è altro che la possibilità di essere uomini e donne migliori.
I proprietari della società, e quindi dello spettacolo, mantengono un rapporto sociale tra le persone attraverso le immagini, le parole, le opere d’ingegno, le fanfaronate politiche, le rivoluzioni tecnologiche, l’obbligo ad accettare i vincoli con la civiltà esistente… ogni mezzo è anche il passaggio verso un fine, che è naturalmente quello di entrare a far parte del dispotismo illuminato o mercantile dell’arte malefica di governare in questo modo e a questo prezzo… il sistema di dominio spettacolare è di facile comprensione… si è consolidato ovunque nell’organizzazione di autocrazie rapaci che rappresentano il nucleo attivo della potenza produttiva… professionisti del terrore e delle disuguaglianze, hanno centralizzato la politica-spettacolo nell’impero della merce e la plebe degli spettatori, dei servi e dei reprobi è complementare ai loro disegni, progetti, ambizioni di sottomissione dell’uomo alle loro leggi. Tutto ciò che ormai il loro potere impedisce, è anche tutto ciò che permette! La mercificazione del mondo è la religione più forte… ha influenzato linguaggi, comportamenti, bisogni… ha integrato ogni forma d’arte nella medesima realtà e ricostruito anche dissidenze (vere o apparenti), mano a mano che le annetteva al tripudio dell’utilitario… ed è facilmente prevedibile, non solo sul piano teorico, che la monopolizzazione del sapere si è mischiata a ogni realtà irradiandola di onorificenze, e mostra al contempo che il mondo dell’alienazione è anche il divenire dell’alienazione del mondo.
Va detto. Artisti, ribelli, “quasi adatti”, fuoriclasse e fuorilegge, certo, non sono mai mancati… le loro vite, come le loro opere, non sortiscono tutte lo stesso effetto, alcune durano un attimo, altre divengono eterne e frantumano il silenzio. Non si occupano dei boudoir né di grandi tirature dei loro manufatti, incommerciabili di genio non amano né scandali né lamentazioni cosmiche in televisione… tantomeno l’eloquenza eroica o l’anticonformismo volgarizzato di quelli che rispettano il potere costituito, che amano tanto quanto la mamma troia… come i grandi davvero… i Bardamu di Céline o i freaks della Arbus, i cani andalusi di Buñuel o i ragazzi che innalzano la bandiera nera dei pirati contro il cielo di Vigo, i resuscitati dello stile-argot di ogni arte… intraprendono il loro viaggio fino al termine della notte perché sanno che dopo sorge l’aurora: «Ve lo dico io, gentucola, coglioni della vita, bastonati, derubati, sudati da sempre, vi avverto, quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia… È il segnale… È infallibile. È con l’amore che comincia» (Louis-Ferdinand Cèline)3. Sterminare gli spiriti liberi è il compito della società spet tacolare e, se possibile, in nome della libertà! La schiavitù è la certezza del peggio e la giustizia è esiliata dove l’innocenza (o la rivolta) reclama i propri diritti.
Da un autore all’altro… e senza sconti! Non si tratta di raccontare la vita alla gente, che è dappertutto, meno che mai sui mass-media… bisogna cancellare dentro la testa della gente ciò che vi è stato installato da secoli di dogmi venuti giù dal cesso! Fine dell’aria falsa! Gli sbruffoni a lavoro! I capitani di sventura incastrati nelle loro stimmate da clown… il sacro è un falso, come il vero che promettono. Le belle carogne lo sanno! La mannaia dell’eloquenza è caduta su ogni cosa… i pappagalli dell’arte ne sono coscienti… l’opinione pubblica trionfa nella deferenza, maggioranza, autorità, legalità, sinistre, destre… tutte le utopie sfigurate e tutti gli animi paralizzati! La rassegnazione diventa irrespirabile! Potere e violenza sono sinonimi… l’apocalisse si adatta a meraviglia ai vagiti di una civiltà che si spegne. Esistono opere che costruiscono e opere che distruggono… le prime sono concepite da uomini integrati perfettamente nella società, le seconde da franchi tiratori che si battono per il giusto, il buono e il bello… gli inciurmati sono dispensatori del falso, i corsari seminatori di verità inaccettabili… gli ipocriti alla malora! al macero! alla gogna! L’uguaglianza prima di tutto e per tutto… né parolai della miseria, né ricamatrici di conventi! Una società alla pari, dove ognuno vive uguale a quell’altro, l’avvocato come l’operaio, l’artista come lo scaricatore di porto… “tutti col berretto e scarpe robuste, case decenti, e via. La signora moglie del ministro i piatti se li lava, e sua Eccellenza è lì che l’aiuta, grembiule e strofinaccio”, Célin diceva4, con quel più di utopia necessaria a far saltare i ponti del crimine in piena gloria… il genio è infrequentabile… Cèline più di tutti. Non ci sono cristi! né padroni né commissari del popolo… fine del servilismo al potere costituito… gli utopisti ci fanno intravedere il momento in cui gli artisti saranno dispensati dalla perfezione estetica (estetismo) e i proletari non avranno più timore di ribaltare la boria dei conquistatori… solo un certo numero di congiurati si lascia andare alla deriva delle proprie passioni e attraverso le loro opere (o colpi di mano) producono disaccordi, anomalie, attività illegali… che potranno servire un giorno a riscrivere la storia degli oppressi.
II. Sulla fotografia di resistenza e insubordinazione
Una fotografia che non contiene segni d’utopia, non vale niente. Per salvare la fotografia dalla volgarità patinata, dall’entusiasmo dell’imbecille e dal successo senza ritorno, occorre una buona dose di coraggio, un pizzico di follia e l’amarezza di sapere che la filosofia della storia ad uso quotidiano è un’indecenza prolungata e accettata tanto dagli eruditi che dai suppliziati… di fronte al dilettantismo culturale, alla consolazione del possesso e alla gloria da disadattati, occorre squinternare l’immaginario collettivo e fare dell’interpretazione del disinganno, il principio di tutte le forme di resistenza sociale. La fotografia può essere un dispositivo che rifiuta il conformismo e l’incarnazione politica, religiosa, culturale del fanatismo… ribaltare l’attualità significa provocare emorragie, strappi, rotture del pensiero istituito, disvelare le trappole della felicità indotta e, meglio ancora, farsi briganti d’una genuflessione lunga venti secoli e passare dallo scetticismo al colpo di mano contro l’insensato. Il rizomario fotografico di De Marco contiene una bellezza estetica, etica, eversiva che implica la resistenza sociale che smaschera gli imperativi della sudditanza… ad entrare a “gatto selvaggio” nelle sue fotografie, assistiamo alla denuncia di un’epoca dove lo spettacolo è tutto, l’uomo nulla… il respiro del fare-fotografia di De Marco si colloca tra l’ordinario e lo straordinario, l’individuale e l’universale, il tragico e il quotidiano… mostra che i grandi problemi si trovano nella strada e la verità — che è sempre oltre il reale — contrasta il sistema di speranze che tiene a catena interi popoli… quanto più la fotografia è parte della resistenza che contiene, tanto più denuncia l’assurdità di una cosca di saprofiti che detengono (con la forza) le sorti dell’umanità.
La fotografia dell’indignazione di De Marco figura il giusto contro l’ingiusto, il bello contro il brutto, il bene contro il male… la condivisione sparsa nelle sue fotografie degli ultimi, degli emarginati, degli offesi… è una lunga requisitoria contro una vivenza senza stupore o, meglio, una rivolta della carne o dell’inquietudine che si separa da quanto rende stupidi l’adesione a ogni forma di autorità… nella fotografia di De Marco coscienza e vita fuoriescono da una costruzione antropologica dell’immagine e vanno a modificare la percezione, nella figurazione e nella memoria, di quanti almeno si pongono come eterni ribelli contro tutto ciò che è reale… una fotografia del dissidio, dunque, mai comunque gridata o pervasa da insegnamenti eloquenti o persuasivi che, come sappiamo, sono falsi… un fotografo, come ogni uomo, è preda delle proprie menzogne o padrone delle proprie verità. Le immagini di De Marco lavorano ai bordi della vita quotidiana o s’affrancano alla rivolta dell’uomo contro l’irrimediabile e invitano a pensare… fotografare non significa unificare, né rendere domestica la realtà sotto l’aspetto di principi mercatali, fotografare è imparare nuovamente a vedere, ad essere attenti, è dirigere la nostra coscienza, fare di ogni idea e di ogni immagine — alla maniera di Hine, Sander o Arbus — il luogo privilegiato della bellezza. Dileggiare i maniaci della ragione vuol dire riconoscere il pensiero umiliato come paradosso del vissuto e cercare di mettere fine all’infanzia spaventata dell’umanità.
L’affabulazione, il corpo, l’azione, la tenerezza delle immagini di De Marco riprendono il loro posto nella nobiltà dell’umano e nel contrasto profondo tra governanti e governati, il fotografo non teme di schierarsi contro l’ingiusto: “Questa rivolta dà alla vita il suo valore. Diffusa per tutta un’esistenza, quella restituisce a questa la sua grandezza. Per un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello dell’intelligenza alle prese con una realtà che la supera” (Albert Camus)5 . Coscienza e rivolta sono il contrario della rinuncia. Si tratta di vivere o morire irreconciliati e non in pieno accordo con l’egemonia della mediocrità e del-l’abuso. Quando si loda la fotografia (e la sua intoccabilità), è per meglio distruggerla. La ritrattistica di De Marco è un portolano di volti, corpi, gesti e ciascuno è specchio/memoria dell’altro… i ritrattati guardano in macchina o sono colti in una defigurazione dell’inattuale… come nelle elegie amorose di Rilke, Keats o Pasolini, i soggetti e l’attenzione del fotografo s’intrecciano e contengono quella fierezza propria solo a chi sa ancora arrossire di felicità
o passare alla demolizione dei torturatori, degli specialisti e dei bravacci del gioco intellettuale che albergano nell’inganno dei salotti. C’è una voluttà della bellezza nelle immagini di De Marco che non accetta ortodossie… a vedere gli sguardi ravvicinati di uomini, donne, bambini… di là del momento emozionale… si coglie la sofferenza o il riscatto, il timore o il desiderio, l’intimità o la meraviglia… anche il disgusto, l’equivoco e lo sgomento, certo… quello che però più attanaglia in questa geografia umana è la visione libertaria del fotografo che procede dall’immaginale alla realtà quotidiana e nell’asciuttezza architetturale riesce a comunicare la finitezza della sua poetica. Alla rinfusa… il bambino sudamericano col cartello (dov’è scritto, “La educación es tarea de todos”), il contadino messicano che stringe il machete in una mano, la ragazza che raccoglie le alghe, la maternità di una ragazzina nera, i volti di anziani che bucano il divenire, mescolati ai ritratti di letterati, storici, critici, artisti… sono ammantati della stessa franchezza, di quel senso del bello come manifestazione del bene e riscoperta del vero… certo, fotografare a un certo grado di qualità non è cosa comune [specie per gli imbecilli che inseguono premi, workshop, portfoli, stage o piantumazioni d’accattonaggio creativo…], perché le cose belle sono difficili… nel bello riluce l’idea del giusto e del bene: — “Le cose buone non ti pare che siano anche cose belle?” —, Platone, diceva… e la bellezza è il solo valore estetico su cui si fonda l’arte di gioire.
Al fondo della scrittura fotografica di De Marco, ci sembra che il bello e il bene si fondano nella medesima realtà… la bellezza non è una specificità delle cose fotografate, ma da come vengono interpretate… la fotografia va ascoltata, non letta o vista!… come una musica di Mozart! o un quadro di Goya!, un film di Buñuel! o una canzone di Bonnot!… più la bellezza è disseminata negli echi della conoscenza sensibile, più la coscienza sensibile della bellezza sarà universale. “La bellezza di qualsiasi genere ci reca rapimento e soddisfazione; come la bruttezza produce dolore, in qualunque essere sia posta, e sia che la si percepisca in un oggetto animato o in un oggetto inanimato”(David Hume)6 . La bellezza (al di là di ogni struttura formale) si “sente”, non si dimostra… è il risultato dell’insieme e non c’è bellezza che non s’accordi con i bisogni di libertà e di giustizia dell’uomo. La bellezza eloquente delle immagini di De Marco suscita sentimenti di contrasto o di piacere… niente nelle sue fotografie è lasciato all’occasionale… la compiutezza dell’inquadratura, la distanza con i fotografati, la pulizia dello sguardo… tracimano in ogni immagine e senza darlo troppo a vedere scardinano il dizionario della fotografia corrente… quando si ama la fotografia è un disonore sopravviverle, a meno che non si faccia della fotografia un’arma di resistenza sociale… non c’è stile che non si afferma contro lo stile… non c’è cazzo che tenga… per fare una fotografia che non sia degna di uno sputo, bisogna vivere all’interno della propria opera, finché la sua indignazione non soppianti l’evanescenza dell’arte. Non si tratta di mandare in frantumi uno stile, ma fare di uno stile l’utensile di un’epoca da mandare in frantumi!
La bellezza è l’esercizio continuo della conoscenza di ciò che fa della particolarità delle cose un traccia o un percorso che non coincide con la perfezione né con le regole oggettive del gusto, “la bellezza è il frutto che copre il seme, così come il bello ricopre il suo fondamento attivo rappresentato dal caratteristico” 7, e nella realtà non può esservi nulla di bello al di fuori della singolarità, che è nel suo pieno significato il carattere di un’individualità manifestata… è la bellezza che muove il cuore, diceva… ed ha nella figura umana (unità della varietà, ordine, semplicità) il soggetto principale della rappresentazione artistica. Quando il popolo è ridotto in catene, vuol dire che anche l’arte è ridotta al silenzio! Solo chi è intransigente nei suoi diritti e non si piega davanti ad alcuna autorità, conserva la forza necessaria a contrastare tutto ciò che impedisce la solidarietà e la fraternità di tutti gli uomini. I regimi, come i partiti (di destra o di sinistra) giustificano la cattività dei loro misfatti e solo gli irriducibili si alzano in piedi, tirano fuori i pugni dalle tasche e rivendicano, tutta intera, la libertà di dire no! ai rinnegati della ragione! a spazzare via la razza di servitori, di parassiti, di sgherri agli ordini del potere. Rompere tutte le idolatrie (non solo) della fotografia, vuol dire infrangere le rappresentazioni spettacolari sulle quali si ergono… gli analfabeti colti della fotografia sono riusciti ad ingrandire soltanto il loro nulla e fingere di credere che sia qualcosa… il mercato fissa i parametri dell’immagine declassata a merce e senza mai sapere che la commedia umana di Balzac non è altro che il romanzo di un’umanità di falliti… e Balzac c’entra molto con la fotografia… come il boia di Londra, sempre… il romanziere e il boia infatti raccontano un vuoto, il loro e quello del rimpianto di non avere nulla a che fare con le vessazioni di questa società. Si perde la testa per la fotografia come per un regicidio, sapendo prima che un genere diventa popolare quando seduce intelletti che non sono affatto portati a comprendere che la libertà di un uomo, come di un popolo, si trova solo nella caduta di ogni ingiustizia. La fotografia di resistenza di De Marco, credo, diffida del definitivo e della pretesa di possedere i crismi della verità ultima… definisce bene i suoi disgusti e discopre vitalità disperate che spaccano le barriere delle certezze… i questuanti del compiacimento capiscono tutto o niente della fotografia, e tantomeno possono capire la fotografia senza guinzagli di autori che se ne ridono dei loro deplorevoli modelli… ribelli per vocazione, smodati senza misura, passatori di confine… i fotografi di resistenze vigorose o ispirate… fanno a meno della lode a credito, dell’imbalsamazione e dei monumenti allo smarrimento intellettuale… plagiano tutto, rubano da ogni parte, sovvertono tutte le mistiche della sottomissione e infrangono terreni consacrati all’instaurazione dei codici (morali, religiosi, mercantili, militari)… sono i cospiratori di sogni che si fanno distruttori delle norme apparenti, giacché sanno che solo la libertà della bellezza rende liberi. La fotografia d’insubordinazione di De Marco, sotto molti tagli, non elargisce buone intenzioni mentre ovunque gli uomini sono passati per le armi… la sua ritrattistica non urla, non grida, non divaga su collere aggressive… le sue immagini alzano il segno (o il tiro) contro le definizioni delle politiche guerrafondaie ed invita all’insubordinazione, appunto, che sta fuori del gioco… esorta a scegliere tra la bellezza degli insorti e la fucilazione delle idee… i volti, i corpi, gli sguardi dei ritrattati da De Marco (inclusi nel declino o nell’opposizione al fondo di barbarie che si mantiene attraverso secoli di dissennatezza simulacrale), rifiutano il cinismo politico, l’imperialismo mercatale e le strategie della politica, rivendicano forte l’autonomia e la libertà intellettuale in una sintesi creativa che porta alla denuncia dell’ingiustizia e al desiderio di un divenire libero dalla paura, dalla fame, dalla violenza e s’innalza verso il raggiungimento dell’emancipazione sociale.
La fotografia autentica vive di verità o muore di menzogna. Per convincersi che la storia della fotografia non è che una successione di banalità trasformate in parate mercatali, basta passare in rassegna le dossologie degli autori più importanti del-l’ultimo secolo… sono perlopiù intelligenze ammaestrate, istrioni del sottostare, commedianti di secondo ordine assurti al boccascena dello spettacolo… televisioni, giornali, riviste di moda, gallerie, affaristi, strateghi di guerre “umanitarie”… si contendono la loro “arte” che accompagna glorie per sempre tramontate sul sagrato del mercato… poi ci sono premi prestigiosi come il World Press, vinto quest’anno da Ronaldo Schemidt… si tratta di un ragazzo in fiamme (José Victor Salazar Balza) a Caracas, per l’esplosione del serbatoio di una moto della polizia, distrutta da Salazar e altri manifestanti, che lottavano contro la politica repressiva del presidente venezuelano Maduro… la fotografia è bella, molto ben colorata, quasi un’inquadratura da film di fantascienza… fa sperare che ci siano altre tragedie da fotografare e conquistare altri riconoscimenti… a ragione, il fotocrate (Michele Smargiassi) sul suo blog, rileva non tanto se il fotogiornalista doveva fare la fotografia o aiutare il ragazzo… dice giustamente che i fotografi fanno il loro mestiere (ma questa non è la sede per dissertare ora su etica e fotografia), sottolinea anche che i dirigenti del WPP tendono a premiare immagini che “non contengono ideologie e filosofie che non fanno bene al fotogiornalismo”… e una fotografia piuttosto colorata e composta nel modo classico ha buone ragioni per essere considerata… per chiudere, come per aprire, ricordiamo (da e con Smargiassi) la fotografia del monaco buddista che si dà fuoco a Saigon nel 1963, per protesta contro il regime sud-vietnamita di Ngo Dinh… il fotografo Malcom Browne (avvertito per tempo) realizzò un “classica” immagine in bianco e nero… ineccepibile per giornali, tv e fogli sinistrorsi… vinse il Pulitzer e una pioggia di premi successivi… vogliamo ricordare che l’iconizzazione dello spettacolo non è solo un insieme di immagini, ma un rapporto fra persone, mediato dalle immagini: “Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza” (Guy Debord)8.
Va detto. Il lato parvenu dell’immagine fissa i suoi tratti nello spettacolo e si conchiude nell’evidenza di un dazio pagato alla celebrità. Un’annotazione fuori margine. La fotografia non è tollerabile senza il grado di verità che vi si mette… il potere non conosce le buone maniere ed è per questo che in ogni forma di comunicazione, che altri chiamano, d’arte… o c’è l’infinità delle nostre rivolte nascoste o il lerciume della frode che affoga nelle convenienze e nell’adulazione pubblica… poiché è soltanto il rispetto della verità che ci separa dalle austere canaglie dell’arte del consenso, la malinconia del giusto ci salta addosso all’improvviso e sconfina in territori proibiti, spacca rituali e rende l’intelligenza sovrana nel regno della stupidità… l’idea degli anarchici di annientare qualsiasi autorità, resta ancora tra le più belle che mai siano state concepite e non si richiederà mai abbastanza la ricomparsa degli utopisti che la volevano attuare… e i mezzi sono tutti buoni… né vendetta, né perdono… la visione radicale dell’esistenza combatte le riforme o le ingiunzioni che la negano. La libertà sta sempre di fronte o contro i sicari di ogni libertà.
L’epoca delle disuguaglianze senza rimedio è affrancata all’epoca del terrore militarista… lo spettacolo delle ideologie, delle politiche, delle religioni, dei saperi, perfino dei terrorismi… ha riprodotto un’armonia universale della distruzione… nuove forme di schiavismo sono instaurate nel nome santificato del mercato globale… la fotografia, il cinema, la carta stampata, la telefonia, internet e anche la tomba senza croce di mia nonna partigiana… sono saccheggiati e l’illegittimità dell’ordine istituito detta sistemi di speranze tradite… l’inventario del-l’intolleranza conduce all’uccisione della verità e la clemenza e la servitù volontaria assicurano il profitto ai crimini del potere. “Finché la libertà sarà solo il prodotto ideologico del libero scambio, la giustizia si limiterà a regolare, a tutelare, a punire l’uomo, considerandolo non tanto in ragione del suo valore come essere umano quanto in ragione del suo valore commerciale. Finché continueremo a ubbidire alle leggi della predazione, il funzionamento della giustizia sarà determinato dal ciclo divieto-trasgressione” (Raoul Vaneigem) 9. L’illusione civilizzatrice dei colonizzatori estende la propria egemonia con le guerre, le arti, le tecnologie, i servizi segreti, gli espedienti di falsa pacificazione dei governi… intanto i novelli dittatori del pianeta affondano i popoli vinti o addomesticati nel sangue e nelle merci… l’umanesimo consumerista è lordo di sangue innocente e orde di delinquenti fanno eco alle gerarchie di lacchè che albergano nei parlamenti… l’onore dei padroni è sempre stato figurato con il disonore di una nazione che ha permesso l’ingiustizia, la repressione, l’intolleranza dei ricchi sugli impoveriti… a una giustizia da tribuni, da burocrati, da mestatori populisti… va contrapposta l’onda lunga, sulfurea del ritorno di fiamma della rivolta libertaria, mostrare che solo nella ribellione si dà un senso alla propria esistenza.
La fotografia può essere un grimaldello di giustizia e libertà, qualcosa che aiuta a bandire la menzogna e la violenza… una sorta di ponte tra coloro che lottano contro il destino e contro l’ingiustizia… la fotografia che impera è un catalogo di bassa consolazione che aderisce ai valori dominanti… “la morale borghese c’indigna per la sua ipocrisia e per la sua mediocre crudeltà” (Albert Camus) 10, e solo una riflessione autentica (e la creatività che ne deborda) è l’unica passione che anima l’uomo in rivolta, che è appunto il germoglio di un nuovo rinascimento del diritto di pensare. Chi non crede a niente o a tutto autorizza la storia del terrore e non capisce che non si deve adorare nessun mito, ma lavorare per distruggerlo! “Liberare l’uomo da ogni catena e poi incastrarlo praticamente in una necessità storica significa togliergli prima le ragioni di lotta e poi buttarlo nelle braccia di un partito qualunque, purché abbia come unica norma l’efficienza. Si passa così, secondo la legge del nichilismo, dalla libertà estrema alla necessità estrema; questo non significa altro che dedicarsi a fabbricare schiavi” (Albert Camus)10. Tutto vero. Nella civiltà del declino il genocidio è lo spettacolo più indicizzato nei mezzi di comunicazione di massa… la fascinazione dell’agonia offre maggiori attrattive delle buffonate televisive e nemmeno i politici nei talk show, malgrado la loro immensa imbecillità, alzano gli indici di gradimento di un bambino affogato nel Mediterraneo, specie se è fotografato o filmato con quel tanto di falsa bonomia che evoca la fatalità.
La supremazia del sistema economico si fonda sulla produzione circolare delle merci, delle idee, delle politiche, delle armi e i “grandi” gruppi finanziari hanno messo in atto la proletarizzazione del mondo… tutti i beni selezionati e diffusi dal sistema spettacolare sono anche le armi per il consolidamento costante delle condizioni d’isolamento delle folle solitarie: “L’intenzione originaria del dominio spettacolare era far sparire la conoscenza storica in generale; e in primo luogo quasi tutte le informazioni e tutti i commenti ragionevoli sul passato più recente. Un’evidenza così flagrante non bisogno di essere spiegata. Lo spettacolo organizza magistralmente l’ignoranza di ciò che succede e, subito dopo, l’oblio di ciò che siamo riusciti ugualmente a sapere. La cosa più importante è la più nascosta… [anche] la storia del terrorismo è scritta dallo Stato; quindi è educativa” (Guy Debord) 11. Le democrazie spettacolari, come i regimi comunisti, facilitano l’economia onnipotente nell’analfabetismo generalizzato… detengono le leve dell’autorità finanziaria e politica per mantenere ciò che è istituito e fanno della disinformazione (o dell’informazione protetta) il cattivo uso della verità: chi dice il vero è colpevole, chi ci crede un imbecille.
Il pane della fotografia è amaro… tutto ciò che umilia la fotografia umilia l’intelligenza… ecco perché il lavoro radicale di certi fotografi fuori gioco si definisce innanzitutto come un duplice e incessante rifiuto dell’umiliazione… tutti i pezzi di merda appartengono alla stessa famiglia, quella dello spettacolare integrato… sono i nuovi magistrati inquirenti dell’uomo impoverito… l’universo fotografico inquisitorio o assolutorio che rappresentano mantiene il calco colonialista e sotto ogni luce contribuiscono all’allargamento delle disuguaglianze sociali. “Vediamo di capirci! Io parlo come un idraulico perché mi ci trovo meglio; ma sono una persona colta, io, un raffinato, uno che se volesse entrerebbe in qualsiasi salotto. Sia chiaro! Vediamo di capirci!” (Louis-Ferdinand Céline)12. Un uomo non è sincero perché è rivoluzionario, è rivoluzionario solo se cerca di affrontare la verità. Insomma, essere proletari senza bandiere o ribelli senza causa (che non sia quella della rivoluzione sociale), significa semplicemente dare fuoco alla scuola dei tiranni e stare dalla parte del benessere del popolo.
Il disagio della civiltà, diceva, reca con sé la paura con la quale gli dèi ingabbiano la conoscenza ed è incomprensibile come ancora le interrogazioni dei popoli non facciano saltare in aria i responsabili di tanto dolore… l’idea di distruzione di qualsiasi parlamento, mi ha sempre portato un vento di sollievo, quasi una forma d’estasi, un fuoco divoratore che separa i giusti dagli ingiusti e mette fine al ballo in maschera della civiltà dello spettacolo. E la fotografia? è un’orgia di stupidità, una venerazione del fallimento, una proclamazione dell’insufficienza… una plebaglia folgorata di volgarità, rassegnazioni, vittime efficaci alla perpetuazione di una società marcia… il cretino che fotografa non può che misurarsi con lo scemo che prega un impostore o vota un imbecille che lo frega in tutto! anche nell’educazione all’indifferenza dei propri figli! La rassegnazione è obbligatoria. La dignità è uccisa nel panico o nel-l’avversione a cancellare il privilegio di pochi sui molti… l’argot dei bassifondi della fotografia di resistenza e insubordinazione, è la sola lingua sempre dalla parte dei miserabili… e l’incitamento alla sovversione (fino all’incendio) di tutti i palazzi degli eletti è la sola filosofia che le anime sensibili possono comprendere… ni dieu, ni maître, sempre.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 17 volte aprile 2018
1 Luciano Canfora, La schiavitù del capitale, il Mulino, 2017
2 E.M. Cioran, La tentazione di esistere, Adelphi, 1984
3 Louis-Ferdinand Cèline, Viaggio al termine della notte , Corbaccio, 1992
4 Louis-Ferdinand Cèline, in Il mio Céline, di Robert Poulet, Sestante, 1993
5 Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 2008
6 Maurizio Villani, Sulla bellezza, Diogene Multimedia, 2017
7 Giuseppe Spalletti, Saggio sulla bellezza (1765) a cura di Paolo D’Angelo, Aesthetica Edizioni, 1992
8 Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979
9 Raoul Vaneigem, Né vendetta né perdono. Giustizia moderna e crimini contro l’umanità, elèuthera, 2010
10 Albert Camus, La rivolta libertaria, a cura di Alessandro Bresolin, elèuthera, 1998
11 Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Sugarco Edizioni, 1990
12 Louis-Ferdinand Cèline, in Il mio Céline, di Robert Poulet, Sestante, 1993