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C’è tempo (2019), di Walter Veltroni

Inserito da serrilux

C’è tempo (2019), di Walter Veltroni

“Trovo che la televisione sia uno strumento molto educativo:
ogni volta che qualcuno accende l’apparecchio
vado nell’altra stanza a leggere un libro”.
Groucho Marx

La storia della macchina/cinema è la storia della peggiore forma di domesticazione sociale che il mondo abbia mai conosciuto: quella del potente che educa il plebeo alla soggezione… è la sola tirannia dell’immaginario (accompagnata dalle bombe fabbricate dai medesimi produttori di film e dagli indici di sfruttamento delle banche) che continua a resistere nel tempo… dietro ogni film, stelle di “celluloide” o autori celebrati dal mercato, ci sono dei balordi che non resistono alla voglia di essere impalmati con qualche premio e con l’imbecillità dell’entusiasmo dissertano sulla vita, la morte, la politica, su tutto… ma non c’è niente di più ridicolo del voler essere maestri in “buoni sentimenti” (come Spielberg, Scorsese o Tarantino che fa il “cattivo” per convenienze mercatali) e finire nelle bassure dell’ingenuità, che non è sempre possibile distinguerla dalla stupidità.

L’abbiamo scritto altrove e lo ribadiamo qui… chi ha praticato l’ideologia “comunista” è sospetto di crimini di lesa umanità, perpetrati senza un filo di grazia contro la bellezza, la giustizia e il bene comune… Walter Veltroni faceva già il “comunista” quando aveva i calzoni corti e sembrava davvero credere ai filo-stalinisti che comandavano il Partito… poi come sempre succede ai “rivoluzionari da salotto”, il passaggio al Palazzo è fatale… tutti diventano le mosche cocchiere del potere in carica, s’aggrappano ai privilegi di casta e cadono in connivenze oscure, talvolta complici col malaffare… che bello! i comunisti al caviale sono la peggiore razza di serpi (gli altri li conosciamo bene) mai apparsa sugli scranni del Bel Paese. Hanno tradito i morti della Resistenza, disonorato la povertà delle genti e fatto del dispotismo la loro dottrina… c’è un tempo per seminare e un tempo per falciare (i falsi tribuni del popolo), sputeremo sulle vostre tombe.

A sguazzare nell’accessorio del cinema nostrano c’è un ex-comunista (si fa per dire), un ex a tutto… è l’uomo dal sorriso facile, ben educato, molto richiesto nelle terrazze romane e quando si tratta di pontificare sulla politica italiana, specie del lugubre partito del quale è stato tra i fondatori, ha sempre uno spazio in televisione o sui giornali… si chiama Walter Veltroni… quello con la faccia da pesce morto!… la cosa terribile è che, dopo averlo ascoltato, niente ha più senso… perché niente, ma proprio niente riesce a dire fuori dai luoghi comuni… le puttane di via delle Zoccolette a Roma, almeno sanno maneggiare la grammatica della realtà… dopo aver letto un libro, visto un documentario o un film di Veltroni, ci vuole almeno una settima per riprendersi… o si è predestinati al martirio o ci si chiama fuori dall’affettazione della banalità… un intellettuale in formato ridotto è come un nano che si crede un gigante e finisce a fare il clown nel sottoscala della Storia.

Veltroni scrive libri, fa documentari, disquisisce sul cinema in televisione e nemmeno sa di cosa parla… e ora debutta nel film attoriale con C’è tempo… tutte robe all’acqua di rose… che non mancano di squisite mediocrità… solo i suoi dissennati discepoli ne fanno oggetto di ammirazione. C’è tempo è una cosetta che il regista reputa riuscita… sembra non sapere che la peggiore delle imposture è quella del linguaggio… perché è la meno avvertibile dagli idiotic di oggi (E.M. Cioran, diceva)… basterebbe una sola sequenza di un film qualsiasi del fratelli Marx, per seppellire la sua romanzata da oratorio. C’è tempo, infatti, è una sommatoria dolcificata dell’esistenza. Dopo aver resistito alla tentazione di incendiare lo schermo e colpevole di non far parte della schiera di spettatori persi nella manualistica veltroniana… abbiamo pensato che forse sarebbe stato meglio fare del giardinaggio o andare in bicicletta sulle spiagge d’inverno che perdere tempo con questo film… poi siamo stati assaliti dalla vergogna di essere stati svegliati di soprassalto (con la bava alla bocca) e siamo rimasti fino alla fine.

Siccome non ne vogliamo mangiare di questo pane, lasciamo raccontare C’è tempo dalla scheda ufficiale: « Stefano, quarantenne immaturo e precario, vive in un paesino piemontese sovrastato da alte montagne, dove per passione fa l’osservatore di aquiloni e per guadagnare fa il manutentore di uno specchio che per sei mesi l’anno illumina la piazza. Alla morte di suo padre, la sua routine viene spezzata in quanto scopre di avere un fratellastro, Giovanni, tredicenne di Roma che vive la vita con forte senso pratico. Così sotto consiglio della moglie Stefano decide di accettarne la tutela, ma solo per ricevere in cambio un generoso lascito. Con l’intenzione di lasciare il ragazzino in un istituto francese, i due partono per un viaggio on the road. Attraverso l’Italia, con l’incontro della cantante Simona in tour con sua figlia, saranno costretti a confrontarsi e a mettere da parte i loro caratteri opposti, scoprendo la complicità di un legame fraterno, come un meraviglioso arcobaleno a due volte sovrapposte ». Gli sbadigli (come gli sputi) non sono opera del diavolo ma dell’elevazione degli uomini a santi. Se la felicità è plebea, la fede è sempre di merletto e richiede un supplemento di adesione al massacro delle eresie.

Veltroni dice di aver preso il titolo del film dalla canzone (bella) di Ivano Fossati e afferma che ha inserito nella struttura citazioni o ringraziamenti ad autori che ha amato: — “La padella sulla quale Silvia tira l’uovo all’inizio è quella de La grande guerra, l’elmo su cui Stefano batte la mano nella Corte degli Angeli è quello di Bracalone alle crociate, la notaia Lolotta viene da un nome di Zavattini in Miracolo a Milano, mentre il cognome Cortona è quello di Bruno ne Il sorpasso, i nomi dei relatori della conferenza sull’arcobaleno sono di personaggi del cinema italiano, la pistola rossa a pallini bianchi è quella di Dilinger è morto, ma ci sono anche Ettore Scola, la Corte degli Angeli di Novecento e l’albergo di Parma dove fu girato Prima della rivoluzione, c’è inoltre l’Antoine Doinel de I 400 colpi di Truffaut” (Walter Veltroni)… porca puttana ladra! Ma che cazzo dice? De Sica? Zavattini? Bertolucci? Scola? Monicelli? Ferreri? Truffaut?… bisogna essere dei citrulli per far credere che dentro C’è tempo ci sia davvero questa catenaria di frammenti filmici a volte indimenticabili? Vero niente! Ciò che vediamo in questa commedietta all’italiana è che tutte le strade conducono a un unico punto, all’illusione della bonomia come fardello spirituale o mistica di Topolino… e sono gli stessi espedienti comportamentali che usava il boia di Londra nei pubblici supplizi.

Quando i giornalisti domandano a Veltroni se il suo è un film buonista, risponde: “Sì, perché in fondo ci si porta dietro quello che si è, se dovessi fare un film splatter non sarei credibile… i buoni sentimenti come l’ascolto, il riconoscimento dell’altro, l’accoglienza, sono rivoluzionari; in un momento in cui prevale l’idea dell’odio, dei muri, dell’insulto e della negazione della legittimità dell’esistenza altrui, ciò che prima poteva apparire rassicurante è diventato addirittura rivoluzionario”. Rivoluzionario? Rassicurante? Legittimità dell’esistenza altrui? Ma questo è proprio scemo! Proprio non sa di cosa parla: “L’arte non dovrebbe mai cercare di rendersi popolare. È il pubblico che dovrebbe cercare di rendersi artistico” (Oscar Wilde). Dove non c’è stile non ci può essere arte! Quelli che non hanno niente da dire, lo dicono così bene che rischiano di essere compresi! Solo gli ottusi sono brillanti sul tappeto rosso dei festival e la filosofia del superficiale delle loro opere è destinata all’immondizia.

C’è tempo è un film semi-amatoriale… la sceneggiatura di Doriana Leondeff e Veltroni, è un ventaglio di scopiazzature filmiche (nemmeno riuscite) che si affastellano una sull’altra per cercare di raccontare una storia dove la felicità è fatta di chiacchere e la realtà rantola nei precetti dell’ottimismo… che è la scienza degli stupidi! Davanti a un tribunale degli angeli, le pretese, la prolissità, la conclusione rassicurante eretti a formule di questo film, sarebbe respinta nel girone della merda e gli autori condannati a riflettere sulla nostalgia del Diluvio… di frivolezze si può anche morire! Specie se sono erette in nome della gente comune, come dicono. La tendenza dell’imbecille persiste nella caratterizzazione di sé in rapporto al mondo, peccato che il mondo è altrove, non certo nelle farmacopee dei “buoni sentimenti” (che promuovono sempre ottimi affari) e nulla hanno a che fare con il vero, il buono e il bello.

Il montaggio (Gabriele Gallo), la fotografia (Davide Manca) e la musica (Danilo Rea) figurano un’impalcatura filmica piuttosto televisiva, e nella loro evanescenza non riescono nemmeno a fare una buona imitazione del “cinema basso” italiano… tutto è levigato, modellato, profumato in funzione dell’acquasantiera finale… falsamente verniciata di stupore.

Un dialogo tra Giovanni (Giovanni Fuoco) e Stefano (Stefano Fresi) contiene l’intero prontuario spirituale del film:

“Giovanni: Quand’è che si smette di essere bambini, c’è un giorno in cui capisci che è finita?”

Stefano: Per me un giorno ho sentito la voglia e la necessità di prendere un motorino e andarmene!

Giovanni: E come è stato?

Stefano: È stato il giorno più bello della mia vita, ma per te c’è tempo!”.

Mettete i film al loro posto: avrete il cimitero quotidiano della macchina/cinema. Bisogna amarlo molto il Cinema, per volerlo distruggere. In mancanza di meglio, il film di Veltroni oscilla fra il furbo e l’incompetenza, cioè tra la santità e la convinzione che basta frequentare i salotti televisivi per fare il cinema, vero niente… il Cinema non confonde la merce col talento! “L’abitudine a mangiare non significa prostituzione dell’arte” (Luis Buñuel, diceva)! La merce genera il marcio o l’inutile, che è la medesima cosa. La recita è la caratteristica del falso genio o dell’impostore!

L’attorialità di Stefano Fresi, Giovanni Fuoco, Francesca Zezza e Simona Molinari lascia basiti… costretti proferire dialoghi al limite del dettato scolastico e quasi straniti in posture e gestualità approssimative… veleggiano nel vuoto delle sfumature e ci sembra di assistere a una passeggiata in campagna tra amici… la didattica è quella del linguaggio corrente… una sorta d’infantilismo letterario che non troviamo nemmeno nelle confessioni di Santa Teresa d’Avila (ogni notte faceva l’amore con Dio e non moriva di vergogna!). L’invito alle lacrime è necessario per non incappare nel maneggiamento delle idee ed espellere ogni forma di dolore quotidiano… le illusioni sono accessori del vero e ciò che importa è rendere il sogno una sorta di reliquia! Un mimica simile l’abbiamo vista solo nei comizi elettorali, nei supermercati o nei confessionali… è l’esultanza della desolazione! Qualcosa di forzato che chiede solo di finire nello squallore dei vincitori. Anche il cameo di Jean-Pierre Léaud frana in questa “favolistica” d’occasione… le quantità d’imbecillità sono davvero troppe… il film si squalifica da sé… come la preghiera (o la politica) è un residuo della degradazione che corre… C’è tempo è una visione del mondo degenerata in certezza… una frode dell’intelligenza, un avvelenamento della bellezza priva di finezza che oltrepassa i limiti e una via di fuga dalla realtà… quasi da subito, ci si sente investiti nel bisogno di spaccare il muso al predicatore di tanta beata arroganza.

Il fanatismo della ragione imposta non è cosa nuova… Famiglia, Lavoro, Patria sono i cippi sui quali sono state erette epoche dissolute, funestate da farse, corruzioni, violenze inaudite… sotto ogni formula di salvezza si celano le Sacre Scritture o il plotone di esecuzione… agli artisti pensano le banche… possono affabulare magnifici deliri o passare alla dissoluzione di tutte le morali, basta che non facciano sul serio! Tutto deve essere fatto e sostenuto all’interno dell’universo convenuto! Solo la sovversione non sospetta dell’idiozia può dare inizio allo smantellamento e alla liquidazione di tutti i simulacri e quindi di tutti i pregiudizi che tengono l’uomo a catena! Certo, stimo di più un ubriaco che s’impicca di un regista cinematografico vivo.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 29 volte aprile 2019

 

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