Sulla decostruzione sovversiva della fotografia teorizzata e messa a fuoco da un poeta dell’eresia.
Apologia terrena di un maestro dell’arte digitale, numerica o elettronica nata dall’arte. Ovvero, la poetica della trasgressione fotografica insegnata ai briganti d’ogni ceto, ai disertori d’ogni sapere, ai magnifici randagi d’ogni epoca, basta che siano belli e intelligenti, e che la loro eversione ereticale non sospetta disveli i migliori dogmi dell’ordine dell’apparenza, atti a sostenere una buona politica e una buona morale, e mostri che ogni buona politica e ogni buona morale si fondano sul cappio del boia.
I. Discorso sulla filosofia libertaria dell’ultimo situazionista
Ando Gilardi (maestro e amico fraterno, che si autodefiniva l’ultimo situazionista) è critico, storico, saggista della fotografia sociale, di quella pornografica e teorico della bellezza eversiva della fotografia digitale. Non siamo sempre d’accordo su alcune opinioni di Gilardi o forse lo siamo su tutto ciò sul quale è importante pensare, dire e fotografare. Al di là del bene e del male, amo e stimo Gilardi per la sua belligerante
intelligenza, il suo essere uomo eversivo, prima di essere qualunque altra cosa. È con lui che voglio andare a cogliere le rose nei giardini dei morti d’ogni sapere o ridere sul sentiero di stelle dei magnifici randagi (non solo) della fotografia. “Un uomo di genio è insopportabile se non possiede oltre ad esso almeno due altre qualità: riconoscenza e pulizia” (Friedrich W. Nietzsche).1 Gilardi non possiede tutto questo soltanto, ma ha in più quell’oncia di coraggio e follia libertari che rende i saggi senza altare uomini, e gli uomini senza né tetto né legge, anime grandi.
E questo basta perfino a far schiudere l’uovo di Durruti, che in quella breve estate di Anarchia2 ha mostrato che l’amore dell’uomo per l’uomo è il primo crimine che un poeta possa commettere. Ecco perché ho tenerezza per le antiche gesta del boia di Londra, aveva compreso, con dovizia d’intenti, che “lo slogamento del collo è l’ideale a cui si deve aspirare”, per far piazza pulita dei mercanti del Tempio di tutte le arti: “Chi conosce la forca non sempre sa scrivere e chi scrive non sempre conosce la forca, anche se qualche volta la meriterebbe” (Charles Duff)3. Quasi tutti i politici sono finiti bene… ogni tanto però qualcuno attenta alla loro santità e si pisciano addosso dalla paura… un gesto supplementare deposita le loro aureole nel fango e mette fine all’agonizzante mediocrità di un’epoca. Dopotutto non “esiste un santo senza un mostro” (Iosif Brodskij)4. La frequentazione dei santi, come degli stupidi, genera una specie di euforia o una fascinazione della sacralità di tutte le cose e sono in molti a fare della teatralità pubblica materia di terrore.
Per tutto questo e altro ancora, è importante conoscere la gloria eccelsa dei papi, dei generali, dei tiranni, dei presidenti, dei primi ministri che hanno inventato modi geniali per rendere grande l’intera umanità. Come le persecuzioni degli infedeli nelle crociate papaline, i roghi dell’inquisizione della Santa Romana Chiesa, le bombe atomiche degli americani, i campi di sterminio nazisti, comunisti, cinesi e delle guerre sante delle democrazie parassitarie… questi baluardi della politica, dell’ideologia o della fede hanno concimato i campi di grano col sangue dei popoli e dovunque nel mondo hanno distrutto l’età dell’innocenza negli occhi dei bambini scalzi nel sole e con la pioggia sulla faccia. Poi l’hanno fatto scrivere, fotografare, filmare nelle storie dell’uomo e della sua civiltà, tutto in maniera molto castigata, perché lo si possa leggere, vedere e tenere vicino al crocifisso in tutte le famiglie.
La politica, l’ideologia, la fede sono una parata di falsi assoluti, una successione di templi, caserme, banche… innalzati a pretesti, un avvilimento dell’intelligenza dinanzi all’inganno universale… non si uccide se non in nome di un dio, uno stato o del popolo… forche, galere, genocidi prosperano all’ombra di un seggio elettorale… ma soltanto i possessori degenerati della verità (della finanza internazionale) si divertono con i massacri e il crimine organizzato alberga nelle periferie come in parlamento… i politici stanno al gioco… si nascondono del dispotismo o in un bandiera e ciò che fanno per la gente che dà loro il consenso, è l’esatta visione della loro nullità! “Ci sono momenti in cui solo con una pistola si possono fare dei capolavori… sparate sempre prima di strisciare” (gridava il poeta sule barricate della Rivoluzione di Spagna del ’36)5. In ogni politico sonnecchia un tiranno e quando si sveglia c’è un po’ più male nel mondo.
II. Discorso ereticale sulla bellezza dell’anima
La bellezza c’entra. Nelle cose in forma di poesia. E c’entra anche l’anima. Non quella dei credenti in tutto e nemmeno a quanto dice il capo banda della Compagnia di Gesù, Martin Lutero, e cioè che “il potere della bellezza discende da Dio”6. Una sciocchezza alla quale non va incontro nemmeno Agostino, il berbero o Meister Eckart, per i quali la bellezza è “specchio dell’anima” e l’anima non ha di mira beni, né onori, né utilità, né devozione interna, né santità, né premio, né regno dei cieli, ma ha rinunciato a tutto ciò7 in cambio di un po’ di sana iracondia. Là dove più non mi cerchi io sono, diceva. Lo sappiamo, l’umanità si è emancipata con la mitragliatrice e la confessione… fuorché la povertà secolare, tutto è falso… falsa quella civiltà parassitaria sulla quale i ergono i nuovi tiranni (della finanza, della politica, della guerra), false le verità con le quali educano alla soggezione i popoli… solo la bellezza dell’uomo in rivolta restituisce agli uomini la dignità perduta. Per difendere la bellezza gli antichi greci presero le armi! “La bellezza, senza dubbio non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza” (Albert Camus)8. Le intrusioni nel cimitero dei valori e delle morali sono salutari… profanare il tanfo dei precetti è un’avventura in piena coscienza del piacere di rovesciare un mondo rovesciato.
Le idee di bellezza della fotografia emergono dalle fondamenta degli incurabili. La fotografia è specchio, camera chiara di un bordello senza muri (Roland Barthes), linguaggio della disobbedienza o non è niente. La bellezza in fotografia è rara. Anzi quasi inesistente. Attrezzandoci a fare un discorso ereticale sulla bellezza, s’intende non solo fotografica, non possiamo non ricordare Lev Tolstoj o Bendetto Croce, ma sopra ogni cosa è la visione eccelsa e l’eccelsa scrittura dell’abate Giuseppe Spalletti che più ci aggrada l’anima. Nel suo trattatello (Saggio sopra la bellezza, pubblicato anonimo nel 1765), l’abate dibatte sulla bellezza come rappresentazione estetica di qualcosa che riguarda l’interpretazione personale che identifica il bello con il caratteristico.
Il concetto è stato ampiamente dibattuto da Kant, Goethe, Schelling o Hegel, Spalletti lo esprime così: “Per accomodarmi alla costumanza, che praticasi, incomincerò questo mio ragionamento colla definizione della Bellezza; la quale a mio avviso è quella modificazione inerente all’oggetto osservato, che con infallibile caratteristica, quale il medesimo apparir deve allo intelletto che compiacersi in riguardarlo, tale
glielo presenta. Farò costare, che il diletto dalla Bellezza occasionato ha la sua radice nell’amor proprio, il quale in una tal maniera padre di quella proclività, che per la Bellezza abbiamo, possiamo chiamare; essendo che l’anima sdegna essere prodiga di encomi verso quegli oggetti, che il menomo incomodo recar le possono. Tutto ciò ch’ella a primo aspetto non percepisce adeguatamente, anzi che encomiarlo, lo vitupera.
Perché l’amor proprio è certo di andar meno al disotto pronunziando brutto”9. Erano belli per la fotografia, gli insorti ammazzati sotto gli occhi dei fotografi ambulanti alla sconfitta della Comune di Parigi. Ciascuno reclamava la propria parte di piombo in cambio del diritto di avere diritti per tutti i diseredati della terra. Le responsabilità etiche ed estetiche cominciano dai sogni.
III. Discorso sulla padronanza e la servitù dell’arte
L’arte ha i propri padroni e i propri servi. Gli artisti non c’entrano nulla. Sono sempre stati al servizio d’ogni potente e d’ogni mercante. Il genio è un’altra cosa. E questo vale anche per Picasso, che ha firmato migliaia di opere soltanto per soddisfare le richieste economiche di un paio di stupide donnette della buona borghesia e qualche pescivendola scollacciata. Il che non è affatto sconveniente. Ciascuno ha un prezzo e di solito è molto basso (specie per gli artisti che provengono dalle fogne proletarie) per entrare nella società dello spettacolo, danzando. “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” (Guy Debord).10 Il trionfo della merda d’artista non conosce frontiere. Andy Warhol è un prototipo interessante. Come Helmut Newton o Roberto Benigni in altre forme di comunicazione. Il tipo d’artista di successo è colui che si adatta a tutte le stagioni della politica e della merce: una specie di profeta dell’arte contemporanea seduto su un letamaio.
La querelles des anciens et des moderners sulla fotografia analogia o digitale che incendia (ma è soltanto una recita di marionette) le pagine delle riviste specializzate, non interessa nessuno, fuorché i dividendi delle aziende di apparecchi e materiali fotografici. Le immagini “numeriche”, contaminate, di Gilardi, si chiamano fuori dalle diatribe dell’effimero, s’involano nella decostruzione dell’arte (sotto ogni forma) per restituire alla bellezza il caratteristico e riprodurla, sconvolgerla, détournarla (senza diritti d’autore) verso una visione liberata dell’arte museale e dell’arte d’avanguardia. Che sono sempre state le puttane tollerate di ogni potere. Il plagio è l’arte della bellezza rinnovata. La grandezza del plagio è auspicabile sotto ogni cielo. E grande sarà l’epoca che erigerà ai plagiatori d’ogni arte non monumenti ma falansteri dove dispensare la propria sapienza.
I grandi plagiatori – William Shakespeare, François Villon, Lautréamont (pseudonimo di Isidore Lucien Ducasse), Walter Benjamin, E. M. Cioran o Guy Debord -… hanno demolito il cimitero delle definizioni e attraverso l’assassinio delle belle arti mostrato che con la caduta dei simulacri crollano anche i pregiudizi… evitare i lupanari della cultura dominante è un viatico che porta fuori dalle banalità idolatrate e dal destino di burattini o di profeti che per un’oncia di potere rovistano come ratti su cumuli di spazzatura! L’ingiustizia governa l’universo!
Come è noto in ogni buona scuola (specie se l’insegnanti hanno fatto il ’68), il punto più alto della creazione artistica l’ha raggiunto il nazismo, con l’invenzione delle camere a gas per i “quasi adatti” e l’eliminazione di oltre sei milioni di ebrei colpevoli di deicidio, forse. Questa bella gente non si è fermata neanche di fronte ai sovversivi, agli zingari, agli omosessuali, ai pazzi, agli storpi… li ha passati per i camini e dispersi nel cielo di mezza Europa. Anche Dio era con Hitler. Insieme alla Chiesa cattolica e le fabbriche di armi. L’arte autentica veniva bruciata nelle piazze e i poeti dell’anima bella sotterrati nelle fosse comuni (una caduta estetica di cattivo gusto). Non era Goebbels che diceva — quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola! – La ragione della violenza è una perversione senza eguali. Uno sputo ha sempre radici più profonde di qualsiasi indottrinamento. Il rifiuto dell’arte come lezione educativa l’aveva già esaminato Jean-Jacques Rousseau in Lettera sugli spettacoli (1758).11 Rousseau lancia i propri strali contro la stratificazione del pensiero senza riserve né timori reverenziali. Si muove sulle stesse affabulazioni a/convenzionali di Epicuro, Guglielmo di Ockham, Luciano di Samosata, Giordano Bruno, Tommaso Moro, Rebelais, Cervantes e respinge l’arte come pedagogia dei “buoni sentimenti”. Rousseau sostiene (a ragione) che l’arte ha la funzione politica di controllo sulle menti e sui corpi. Coglie nella filosofia politica della città e nei valori dettati dai governanti, un coacervo di regole e illusioni che intrappolano l’uomo nelle disuguaglianze e impediscono il godimento dei piaceri. Di contro, elabora un’estetica della festa (popolare), un’etica del sublime, come liberazione dei desideri che emergono da ciò che lui chiamava la “geometria delle passioni”.
La società dello spettacolo non ammette folli che con dodici candele accese su un cappellaccio vanno a dipingere paesaggi dal vero e nemmeno gente di genio che in nome di Eliogabalo (l’anarchico incoronato) finiscono in manicomio fino alla completa distruzione. Fuori dai sotterfugi della spiritualità bottegaia, la faccia di beccaio dal pelo rossiccio di Vincent van Gogh o la bellezza androgina ammazzata in una vasca da bagno dalla rivoluzione francese di Antonin Artaud12, mettono a nudo il corpo dell’uomo e l’anima del mondo. Un’umanità scimmiesca li sta a guardare e nella vertigine emozionale delle loro opere riflette tutta la propria impotenza. La stessa umanità che li ha suicidati oggi li celebra. Non ne vogliamo mangiare di questo pane. Le lune nane del giudizio universale sono state ammazzate sul sagrato della civiltà delle armi. “Sia il boia che il criminale sono stati creati anch’essi a immagine e somiglianza di Dio” (Charles Duff). Ecco perché i nostri occhi dicono di sapere tutto dell’esistenza dell’uomo e niente di quanto ci può accadere nel cuore. “Dio è una demenza accettata” (E.M. Cioran) e l’uomo la caricatura dell’ordine apparenziale del quale si è fatto profeta e bravaccio al tempo stesso. Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Fra’ Dolcino, Thomas Müntzer, Max Stirner, Friedrich W. Nietzsche e altri facinorosi del libero pensiero, sono stati oggetto di scorticamenti e case manicomiali, e questo perché lasciavano dappertutto “tracce d’una attività mentale delittuosa, piantando ad ogni passo la semente delle idee sovversive, svergognate, emancipatrici; faville che non si spensero mai, idee che mai ripresero la retta” via (Oskar Panizza, 1898)13 e sono riemerse ogni volta che l’uomo ha preso nelle mani la propria testa.
IV. Discorso sulla decostruzione dell’arte nella fotografia digitale
La fotografia digitale, numerica o elettronica è in atto. La fotografia analogica, chimica, all’argento, resta in un altro ambito. Ciò che conta è il risultato di una tecnologia in forma d’arte, che fa dell’iconografia a venire, una seconda rivoluzione della fotografia. La prima era avvenuta alla metà dell ‘800 e qualche anno dopo dette origine al Cinematografo Lumière (1895). Occorre dire subito che la fotografia digitale e la fotografia analogica sono diverse. E nemmeno si assomigliano. La fotografia digitale non ha origine da un negativo (fototipo), non si registra su pellicola, non è sviluppata né fissata con acidi, non si passa sotto un ingranditore né viene stampata su carte ai sali d’argento. L’immagine elettronica è presa con la fotocamera digitale e immagazzinata nel computer. Sul video, per mezzo di programmi avanzati, la fotografia numerica è manipolata e sottoposta alla creatività dell’operatore (che può non essere l’autore delle immagini). Le stampe (i supporti, d’ogni tipo e dimensione) sono riprodotte a costi abbordabili e con considerevoli possibilità di comunicazione (via internet). Restiamo dell’opinione che ogni rivoluzione epocale non si fa col mezzo (il valore d’uso lo lasciamo a Marx) ma con l’intelligenza.
La fotografia digitale di Ando Gilardi ci sorprende. E non poco. Senza uscire dalla propria tana sui i boschi piemontesi, Gilardi è riuscito a produrre immagini elettroniche di notevole bellezza. Sono fotografie che attraversano la storia dell’arte e la riconducono a nuovi orizzonti estetici e politici. Interrogano i fantasmi dell’esistenza quotidiana e sovente accompagnano furori iconoclasti gettati contro le banalità del male (di ogni potere). Gilardi détourna i maestri della pittura, viola i codici della prospettiva, fa di ogni donna una Gioconda coi baffi ed è soprattutto lo stupore ludico del colore improbabile che lascia il segno nelle sue opere. L’insieme del suo lavoro annuncia un viatico che si allunga tra l’utopia possibile e la grazia dell’apocalisse.
La scrittura (non solo) fotografica digitale di Gilardi è allegorica, grottesca, surreale… deriva dal sogno teurgico, qabbalico o chassidico di Mamoide (o della mistica ebraica), Martin Buber, Hannah Arendt,14 , quanto dall’insubordinazione degli utopisti libertari che hanno trapassato il cuore dei secoli in cerca di una vita che valesse la fatica di vivere. Il linguaggio della diserzione di Gilardi, annoda la surrealtà amorosa di André Breton, 15 con la crudeltà dell’amore di Antonin Artaud 16 e quel che più conta li attraversa entrambi, non per giungere ad un particolare luogo emozionale dell’anima, ma per demistificare tutto ciò che viene eretto e idolatrato a simulacro artistico. C’è nella decostruzione dell’arte digitale di Gilardi, un pensiero androgino che non bada alla perfezione del nulla ma canta l’elogio del margine. Cabalista di segni, “dagherrotipista” di colori, masnadiero di visioni controcorrente (à rebours), 17 Gilardi dispiega nelle sue opere lo stupore e l’innocenza di una lunga infanzia e dis- semina nella magia contaminata delle forme, l’immaginazione ludra 18 o poetica del sogno, 19 che rende reale tutto ciò che si trascolora in poesia.
La “poetica elettronica” di Gilardi, innesta nel regno mellifluo della fotografia il tempo del fuoco e della cenere. Gilardi prima distrugge l’immagine, la manipola o la tradisce in ogni prospettiva, poi la ricostruisce e la riproduce, demitizzandola. Taglia la gola all’aura artistica e ne fa pane quotidiano. Proprio quello che Walter Benjamin (un filosofo che di fotografia non s’intendeva molto) chiedeva alla fotografia in termi- ni di riproducibilità tecnica e fruizione popolare. Anche se non crediamo che al po- polo interessi (molto) una qualsiasi forma d’arte e tantomeno pensiamo (come Benjamin) che il lettore di un’opera d’arte è sempre pronto a diventare autore,20 tuttavia ci sovviene (alla maniera di Bertolt Brecht) che ci sono persone attente all’arte anche nei mercati delle pulci e come Brecht hanno compreso che la fotografia creativa non è solo una semplice restituzione della realtà ma dice anche qualche cosa sopra la realtà. Chi mostra troppo nasconde molto.
Il dolore causato dalla conoscenza apre le porte più difficili (Federico García Lorca), ma tutta la bellezza del mondo è nelle nostre mani. Qualsiasi opera d’arte non vale quanto un bicchiere di rosso bevuto con un buon amico! Il dominio dell’ignoranza è vasto e dove c’è ignoranza c’è soggezione, paura, discriminazione… contro la libera- zione dell’intelligenza non bastano le persecuzioni. Non ci sono governi, decreti, galere, che possono soffocare le idee di libertà che fioriscono là dove la fraternità, la dignità e la giustizia sono state cancellate… si tagliano teste, si soffocano sommosse, si sterminano popoli… ma la lingua della libertà senza steccati non tace. Coltivare la propria immaginazione è il solo mezzo di liberazione dai ceppi dei valori dominanti. Le guerre mortificano ogni forma di bellezza ed esprimono la sconfitta dell’umanità.
V. Discorso sulla fotografia della dissidenza e dell’oblìo
La fotografia in stato di grazia si avvicina alle periferie del sublime e incanta gli occhi dell’incuriosità… li rovescia in tentazioni e vertigini e li disimpara all’estasi o al di- sdegno del culto di obbedire, mostra senza mezzi termini che la verità è l’ultima paro- la di una civiltà che si società spegne… più ancora che l’arte al servizio del comando è una materia senza dignità e senza rigore… tradire il proprio tempo significa non es- sere devoti né partecipare all’instaurazione irrespirabile di un’arte senza genio che accetta e promuove la terminologia dei vincitori… a un certo grado di qualità, ogni verità diventa indecente o rivoluzionaria. L’insignificanza conosce solo il ridicolo e martirio (sovente ben retribuiti)… ogni società sarebbe intollerabile senza le rivolu- zioni (anche artistiche) che la negano.
La fotografia incline alla ricerca della felicità o alla pratica della disobbedienza civile non è cosa nuova… Hine, Riis, Zille, Sander, Vischianc, Arbus, Modotti, Lange, Evans, Smith, Cartier-Bresson, Magubane, Salgado (ma anche Mapplethorpe, Bar- bieri, Toscani)… hanno mostrato con le loro immagini che le conquiste sociali non si fanno con le bombe ma con l’amore tra le genti e il dispregio di ogni potere. Le icone di questi maestri della fotografia sociale, sono frammenti — sovente indimenticabili — di una memoria storica incompiuta. Le loro fotografie sono bruciature intime che parlano al cuore di molti. Eterni alunni della vita (senza scuole), questi viandanti della fotografia di strada (o d’arte) evocano infanzie tradite e innocenze perdute, ancora si stupiscono, si meravigliano di sognare (fantasticare) ad occhi aperti una comunità di amici (nel rispetto dello loro diversità). I loro istanti iconografici scippati all’eternità della storia, si affratellano all’umano. Bisogna sognare molto per vedere al fondo del reale preso a calci, il fuoco celeste rubato nel crogiolo degli dèi.
Gilardi è appunto un sognatore. Un passatore del disincanto. Il suo viaggio verso la bellezza lo fa attraverso la critica dell’arte per mezzo dell’arte della fotografia digitale (ma non solo). Gilardi si è spinto nei territori dell’azione innovativa e nel détourne- ment dei linguaggi fotografici elettronici ed analogici… lavora sull’immaginazione e coglie nello straordinario, la favola. La poetica in eresia di Gilardi rigetta la riduzione dell’uomo soggetto soltanto al soddisfacimento dei bisogni, deplora gli artistismi merceologici di molta accademia e s’incammina sui bordi dell’esistenza al seguito dei principi di libertà, di spirito critico e della pubblica felicità. “Una grande libertà dap- prima: quella della non sottomissione al reale a favore di una realtà incondizionata” (Edmond Jabès). Restituire la libertà alla parola, significa porgere il coltello all’insorto. La dissidenza è un prendere la distanza e annunciare il dissidio contro ciò che ovunque si dice.
Sulla fotografia della dissidenza hanno scritto (e praticato) autori fuori fila come Gi- sèle Freund, Susan Sontag, Roland Barthes, John Berger, Vilém Flusser, Claudio Marra, Ando Gilardi, noi stessi 21 … ovunque si è cercato di distinguere il giusto dal- l’ingiusto, il bello dal brutto. La bruttezza dell’esistente offende l’uomo ed è causata da spiriti insignificanti, senza talento (come si può vedere nella quasi totalità della fotografia italiana). Il desiderio della bellezza ci permette di vedere le cose sotto il loro aspetto più vero. Conoscere la bellezza significa partecipare alla costruzione del mondo che non c’è e di quello che verrà. Gilardi ha rotto le regole ferree e i punti di fuga della fotografia digitale. Il lavoro pressante, continuo, forzato di tavolino (di computer) è al fondo del suo affabulare “storie fotografiche” e la sua stanza diviene così il luogo di nessun luogo o, forse, l’officina dove l’umano della fotografia vive amorosamente l’epifania dell’eccellente che la nega! La fotografia muore di fotogra- fia (anche digitale) con la prima reliquia della storia delle immagini (la sacra sindone), versata in un pitale.
Della critica. La critica incensa o morde (si fa per dire). La critica italiana — la più stupida e vigliacca del mondo — guarda a destra e a sinistra e non vede niente di ciò che deve vedere. Però sa stare a galla nei mercati del consenso. Sa leccare bene il culo dei potenti, in cambio di un po’ di spicciola celebrità e un pugno di dollari. Ci sono i pagliacci della critica ortodossa, i buffoni augustei di quella accademica, le scimmie sapienti dell’avanguardia o i gorilla affamati di “nuova fotografia”… c’è poi chi vola, chi vola… chi vola lassù dove qualcuno lo ama e lo smercia nel più spettacolare e falso dei cieli, quello della “fotografia celebrata”… si vende bene se è sanguinolenta (morti scannati in guerra o nelle periferie metropolitane) o incipriata (bambine, donne, uo- mini nudi in posa per i proletari di tutto il mondo uniti nella mediocrità di sinistra). La storia autentica della fotografia può essere fatta soltanto da uomini liberi, clandestini d’ogni ceto, disertori d’ogni fazione… perché è la visione dell’uomo libero che dà al destino un’impronta, una traccia, la libertà di dire no!
Per noi, Gilardi è un profanatore di segni, un trovatore d’eresie, un incendiario del- l’immaginario… l’oblio della suo fare-fotografia elettronica lo porta a scardinare le verità dell’ordine e le sue iconologie, anche le più cattive o coinvolgenti, giocano sulla limpidezza del ludico e la loro trasparenza amorosa li trascolora in pietre. La filosofia della disapparenza che Gilardi butta contro il fascio del mercato delle imma- gini, porta la “fotografia digitale” fuori dalla norma e porge a ciascuno l’inclinazione o il bisogno di pensare. L’immaginazione è la più chiara delle visioni, “ci permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto, di porre a distanza tutto ciò che è troppo vi- cino in modo da comprenderlo senza parzialità né pregiudizi” (Hannah Arendt). In questo senso il lavoro di Ando Gilardi è una “teca” d’immagini che ha molti inizi e nessuna fine. Di ciò che vedi tu farai la tua scrittura e di quanti ti amano o ti odiano sarà la tua lettura, diceva. La differenza tra intelligenza e stupidità sta nel modo in cui si porta la fotocamera in spalla, come prima il ferro dei partigiani.
La fotografia è una via — una via che ho scelto verso la libertà —. È una pratica di li- bertà e di utopia possibile. Dove poso la mia macchina fotografica, è la mia casa. Nei cimiteri mercantili della scrittura fotografica (e di ogni forma espressiva destinata alla museografia delle idee), la bellezza della fotografia sarà arte in favore degli ultimi, deprededati non solo della voce ma anche della faccia, della dignità (magari sotto tor- ture massmediali), del diritto di essere uomini liberi di decidere dei propri sogni e della propria esistenza, o non sarà niente. Con la fotografia non si fanno le rivoluzio- ni, le rivoluzioni si fanno con le rivoluzioni! Ma con la fotografia si può diventare uomini e donne migliori. La libertà non si concede, ci si prende!
Riprendere dall’inizio…
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 10 volte aprile 2004 / 5 maggio 2017
1 Friedrich W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, 1968
2 Hans Magnus Enzensberger, La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, Feltrinelli, 1978
3 Charles Duff, Manuale del boia, di, Adelphi, 1980
4 Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi, 1991
5 Benjamin Péret, Sparate sempre prima di strisciare, Nautilus, 2001
6 Malachi Martin, I gesuiti. Il potere e la segreta missione della Compagnia di Gesù nel mondo in cui fede e politica si scontrano, SugarCo Edizioni, 1987
7 Meister Eckhart, I sermoni, a cura di Marco Vannini, Edizioni Paoline, 2002
8 Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 1996
9 Giuseppe Spalletti, Saggio sopra la Bellezza, Aesthetica, 1992
10 Guy Debord, La società dello spettacolo (copia pirata, battuta a macchina, prima dizione italiana, senza il nome dell’editore né dello stampatore, 1974)
11 Jean-Jaques Russeau, Lettera sugli spettacoli, Aesthetica 1995
12 Napoléon (1927) di Abel Gance. Qui Antonin Artaud interpreta come nessuno mai, Jean-Paul Marat, chiamato l’amico del popolo. In uno dei suoi libelli (Le catene della schiavitù) Marat scriverà: “Il male è nelle cose stesse ed il rimedio è violento. Dobbiamo portare la scure alla radice. Dobbiamo far conoscere al popolo i suoi diritti e quindi impegnarsi per rivendicarli; bisogna mettergli le armi in mano, assalire in tutto il regno i meschini tiranni che lo tengono oppresso, rovesciare l’edificio mostruoso del nostro governo e costruirne uno nuovo su una base equa. Le persone che credono che il resto del genere umano ha lo scopo di servirli per il loro benessere indiscutibilmente non approveranno questa soluzione, ma non sono loro che devono essere consultati; si tratta di risarcire un intero popolo dall’ingiustizia dei loro oppressori”. Non abbiamo dunque che da rompere le catene della schiavitù e utto un mondo nuovo da guadagnare.
13 Oskar Panizza, Psichopatia criminalis e Genio e follia, L’Affranchi, 1998
14 Moshé Idel, Maimonide e la mistica ebraica, il Melangolo, 2000; Martin Buber, Profezia e politica, sette saggi, Città Nuova 1996; Hannah Arendt, Ebraismo e modernità, Unicopli, 1986
15 André Breton, I vasi comunicanti, Lucarini, 1990
16 Antonin Artaud, Van Gogh, il suicidato della società, Adelphi, 1988
17 Vedi: Controcorrente (À rebours), di Joris-Karl Huismans, Garzanti 2000
18 Per immaginazione ludra, intendiamo quel pensiero ereticale, sovversivo, anarchico che — come l’olio buono di Nietzsche — fuoriesce dall’orlo dell’otre e va ad insinuarsi negli anfratti più celati del- l’ordine costituito… lì prende fuoco e di colpo illumina la caverna di Platone. La civiltà dello spettaco- lo nasce tra quelle ombre e quelle luci. La rêverie che fa divampare il fuoco blu dei cavalieri erranti della luna e la stessa rêverie che vuole spegnerlo e renderlo innocuo. Le gesta eversive (non sospette) della Compagnia del libero spirito di fra’ Dolcino, sono ancora cantate ai quattro venti della terra e insieme al mito di Prometeo ci ricordano la tentazione a disobbedire. Il fiore di rosso e nero vestito di Buenaventura Durruti si schiuderà ancora: “Noi cambieremo il mondo, perché portiamo un mondo nuovo dentro di noi. E mentre vi sto parlando, il mondo sta già cambiando”. L’obbedienza non è mai stata una virtù.
19 Gaston Bachelard, Poetica del fuoco, frammenti di un lavoro incompiuto, Red Edizioni, 1990
20 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, arte e società di massa, Einaudi, 1977
21 Gisèle Freund, Fotografia e società, Einaudi, 1976; Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, 1978; Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, 1980; Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, 2006; John Berger, Sul guardare, Bruno Mondadori, 2003; Claudio Marra, L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale, Bruno Mondadori, 2006; Ando Gilardi, La storia sociale della fotografia, Feltrinelli, 1976; Pino Bertelli, Contro la fotografia, L’Af- franchi, 1996