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ACCIAIO (2012), di Stefano Mordini

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ACCIAIO (2012), di Stefano Mordini

“L’omertà sta al servilismo come la viltà sta alla prepotenza”.
Roberta De Monticelli

“Io sono passato dall’odio e dal disprezzo per gli sfruttatori a un’indifferenza che,
escludendoli dal mio campo visivo, schiarisce l’orizzonte della mia creazione quotidiana.
Quanto più sapremo costruire la nostra vita di ogni giorno a misura dei nostri desideri,

tanto più saremo in grado di ricostruire un mondo libero dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
Raoul Vaneigem

I. I FIGLI DELLA CLASSE OPERAIA VESTONO ARMANI

Di Acciaio e la città dalle rosse bandiere. Il film di Stefano Mordini, Acciaio (2012), ci ha lasciati perplessi e un po’ stupiti… sullo schermo gli operai (temprati nella fede politica di sempre, quella “comunista”) sembrano veri (figurati!), i sindacalisti appaiono dei combattenti coraggiosi e non la cinghia di trasmissione di padroni sempre più feroci… i loro figli griffati Armani (un ex-vetrinista della Rinascente, si dice a Milano) – stracci cinesi copiati anche male -, appena possibile fuggono da qualche parte in cerca di una vita diversa, forse nuova e ciò che più conta non vogliono fare la fine dei loro padri… molti dei quali, esposti all’ambiente di lavoro non proprio protetto e alla conseguente situazione ecologica/drammatica nella quale la città-fabbrica versa da decine di anni, non sono riusciti nemmeno a raggiungere la pensione. Il dolore chiede solo la fine del dolore. Il resto è menzogna.

La città dalle rosse bandiere dove si racconta Acciaio è Piombino (dove siamo nati e dove viviamo, che conosciamo bene e ci è nota la sua storia politica)… città Medaglia d’oro della Resistenza, che è stata intrecciata con la classe operaia da sempre ed ha combattuto soprusi e violenze dei poteri dominanti a viso scoperto. Non tutte le rose però sono rosse né profumano di libertà. La libertà non si concede, ci si prende! E il profumo delle rose può mutare il corso delle costellazioni.

Per non dimenticare. La classe operaia piombinese è stata anche prona al fascismo prima e al “comunismo” poi (salvo pochi libertari di ogni tempo), fino a diventare una città di stolti con due/tre auto per famiglia (c’è un suv a rate per tutti), la casetta in montagna, i figli assunti nelle società controllate dal potere centrale… chi non sta al giogo è fuori, deve emigrare o sopravvivere. Una città dove il liceo classico è quasi sparito, le fabbriche sono in crisi profonda, le pizzerie aumentano come gli artisti prezzolati… i disoccupati consumano il culo sulle panchine di piazza Bovio e i pensionati rincoglioniscono in corso Italia. I giovani invece… sono attaccati ai telefonini per non morire di noia e restano muti di fronte a qualsiasi catastrofe sociale, ecologica, politica. Si parlano o s’incensano attraverso il Web… senza capire (quasi) mai che il valore d’uso (Karl Marx, diceva) dei social-network può cambiare il corso della storia (come nelle rivolte arabe, il movimento delle occupazioni di Wall Street o gli indignados di Plaza do Sol) e perpetuano la dittatura del cretino, pensando che gente di genio come Steve Jobs, Mark Zucherberg o Bill Gates siano dei rivoluzionari e non degli abili saprofiti della Borsa internazionale. Anche se, occorre dire, che la censura della Rete non potrà mai impedire la comunicazione tra persona e persona – e il battito di ali di una farfalla telematica a New York – può provocare in Cina un’autentica rivoluzione sociale. La libertà che non si usa, marcisce.

[Un’annotazione a margine. Nella città-fabbrica tutti o quasi, votano il partito di quell’elefante con la faccia da oste ubriaco che è Bersani. Quando l’ometto triste coi baffetti germanici (D’Alema) scende in città a fare proseliti, le folle (anche solo poco tempo fa) si commuovono e lo applaudono, invece di prenderlo a calci in culo e buttarlo fuori dal parlamento (insieme al morto che cammina, Fassino, e al buon samaritano (Veltroni) dell’Africa dei resort, dove i negri fanno i negri, cioè gli schiavi dei nuovi colonizzatori del “tempo libero”. Tanto per fare qualche nome di questa dinastia “comunista” che una volta dismesso Stalin, ha eretto nuove dittature (nemmeno più soffici, anzi più ipocrite) ai tempi della civiltà dello spettacolo].

Il mondo è cambiato. Nella città-fabbrica non sembra così. La decrescita serena auspicata da Serge Latouche, Vandana Shiwa o Noam Chomsky… non pare riguardare la “città rossa” (ci viene quasi da ridere o forse è un assalto di vomito)… ai quattro angoli della terra le città industriali si ristrutturano, inventano nuove economie, scoprono altre possibilità di esistenza sociale… a Piombino no! Ancora si pensa che il “fumo è pane” e il partito il confessionale degli iloti… la stupidità e la violenza vanno insieme e dove il potere è tutto, l’uomo è niente. O servi i mandarini della partitocrazia o sei divorato dai suoi giannizzeri (piccoli analfabeti che un tempo difendevano i gulag sovietici e adesso difendono la teocrazia finanziaria). Non sentiamo di avere né perdono né vendetta per questa città, solo compassione.

Sulla soppressione dei partiti. I filosofi da osteria, i soli che hanno diritto alla parola (con i poeti e i bambini) dicono che i palazzi dei potenti sono costruiti sulle rovine dei giardini del paradiso in terra. Il solo governo buono è quello che governa meno (Jefferson), anzi, che non governa affatto (Thoreau). L’ingiustizia e l’oppressione sociale vanno abolite con ogni mezzo necessario. La democrazia partecipativa (la delega elettorale è il tradimento della democrazia diretta o consiliare) è il solo modo per impedire l’avvento di ogni tirannia. “I partiti sono organismi costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia” (Simone Weil) e per ciò vanno soppressi. Ogni nuova generazione ha il diritto di costruire la propria vita secondo le proprie concezioni comunitarie. Non basta avere un’opinione, bisogna avere anche il coraggio di difenderla, diceva. In questa società consumerista i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri più poveri… occorre interrompere l’oligarchia della macchina/capitale… la libertà, la giustizia e la bellezza saranno opera dell’emancipazione degli uomini e l’armonia tra le genti segnerà la fine della tirannia della maggioranza… la sovranità del popolo è il raggiungimento di ogni forma di democrazia autentica e non può che nascere sull’eguaglianza delle condizioni sociali.

II. ACCIAIO

Il film di Mordini, Acciaio, è tratto dal libretto fortunato (in copie vendute e premi conseguenti) di Silvia Avallone… un romanzo scritto abbastanza male e quel che più ci fa un po’ sorridere è l’interesse che una cosetta rosa-rosa come il libro della ragazza bolognese, simpatica ed estroversa, possa davvero aver sollevato un polverone di contestazioni nel popolo piombinese (gli amministratori hanno solo scaldato il brodo di frattaglie utile a non entrare troppo nel dissenso, tanto da non inimicarsi i media). Nei capitoli di Acciaio c’è tutta la Piombino peggiore, vizi e comportamenti di una città anomala, sempre tesa a un’emancipazione dei costumi e sempre raggelata nella sudditanza al potere politico. Qui perfino gli asini volano, se lo dice il Comitato Centrale!

Così la Avallone ha fatto il suo compitino liceale. C’è il giovane operaio bello, l’amicizia perduta e ritrovata tra due ragazze e l’inquinamento dell’ambiente (con moderazione) ad opera della fabbrica. Ci sono anche i morti sul lavoro (ma la faccenda è troppo seria per essere trattata come un fatto di cronaca). La classe operaia piombinese è vista in una sorta d’inferno cartolinesco e la fabbrica segna il ritmo delle giornate. Il sentimentalismo cementa tutto, anche la fantasia, quello che manca è la conoscenza delle radici sociali di una città e più ancora il coraggio degli operai che a più riprese nella storia di questa città ha cercato di rovesciare il corso dell’incatenamento politico. Anche il ’68 qui è sfiorito subito e i ragazzi extraparlamentari furono gettati nel discredito dai solerti funzionari del PCI. Molti dei quali ancora albergano nelle poltrone che contano.

Mi ricordo sì, mi ricordo… dalla rivoluzione libertaria del ’68 (dove le giovani generazioni volevano svergognare il potere per distruggerlo): “più della metà di coloro che, nel corso degli anni, ho ben conosciuto aveva soggiornato, una o varie volte, nelle prigioni di diversi Paesi: molti, certo, per ragioni politiche, la maggior parte tuttavia per reati di diritto comune. Ho quindi conosciuto soprattutto i ribelli e i poveri” (Guy Debord, filosofo situazionista, che abbiamo conosciuto nei boschi di Sassetta, ancora in clandestinità, prima di essere espulso dall’Italia per attività sovversive). Ci voleva della ribellione a pensare che ci si poteva ribellare per conquistare una vita più giusta e più umana per tutti… mai più danzeremo nelle strade, berremo così giovani e saremo così belli!… a memoria di ubriaco, nessuno aveva mai pensato che si potesse dichiarare l’ora di chiusura del parlamento e inceppare i pubblici orologi… in quell’anno formidabile anche i vini e le marmellate vennero più buoni.

La Avallone si è guardata bene di scrivere che nella città dalle rosse bandiere un sistema di rappresentanza politica si è trasformato in un sistema di relazioni di scambio fra poteri pubblici e interessi privati… i politici passano, le loro devastazioni criminali restano. Così ha scelto il fotoromanzo… la felicità o l’infelicità giovanile che tutto assolve e tutto dimentica… anche la bruttezza dei quartieri operai che fanno di Piombino una città-dormitorio è esposta in modo abbastanza forzato. Via Stalingrado c’è, ma nella testa della gente.

 

La storia che descrive evita di ricordare la distruzione della bellezza, in ogni sua forma, che questa città si porta addosso. Si è dimenticata di annotare (ma non è penna di talento passionale) che “la nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni… Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi” (Albert Camus). Senza mai considerare che ciò che non ci uccide ci fortifica (Nietzsche, diceva). La paralisi dell’immaginario spinge talora gli scrittori nelle macellerie… come non conoscere ciò che gridavano i maledetti della Beat Generation (Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassady, Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti, Norman Mailer), e cioè che l’impudore del vero muore nell’innocenza dell’amore dell’uomo per l’uomo che si fa storia? L’impero della merce fa spettacolo di sé e la luce degli altiforni è legata al senso dell’umano andato sempre a rimorchio del profitto.

Il regista di Acciaio è Stefano Mordini, autore di pregio del cinema d’impegno civile italiano… i documentari Paz ’77 (2000), L’allievo modello (2002), Il confine (2007), Come mio padre (2009)… lo fanno conoscere come attento testimone di realtà sovente non trattate o disconosciute dall’industria filmica del giovanilismo… ingiustamente sottovalutato dalla critica festivaliera di Berlino, all’uscita della sua prima opera di finzione, Provincia meccanica (2005). Un film aspro, poco incline al consenso spicciolo, costruito con inquadrature forti, buona fotogr fia e un montaggio serrato che aiuta non poco il bamboleggiamento dell’interprete (Stefano Accorsi), restituendo un ritratto di donna (Valentina Cervi) difficile da dimenticare. In Acciaio Mordini sembra prendere un’altra via, quella di piacere un po’ a tutti. Del resto, al fuoco del botteghino bisogna scaldarsi, per non bruciare.

Dalla velina dispensata alla 69a Mostra del cinema di Venezia riportiamo la sinossi di Acciaio: “Piombino l’acciaieria lavora ventiquattro ore al giorno e non si ferma mai. Di là, l’isola d’Elba, un paradiso a portata di mano eppure irraggiungibile. In mezzo, né di qua né di là, Anna e Francesca, tredici anni, bellissime, un’amicizia potente ed esclusiva quanto l’amore. Lo stesso amore che tiene in piedi Alessio, il fratello di Anna, operaio fino al midollo che si ostina a pensare all’unica ragazza che non può avere, il sogno della sua vita, Elena. Un giorno l’amore arriva, potente inaspettato per tutti e la vita prende un’accelerata improvvisa, finché si incrina, sanguina, si spezza.

Dietro al mondo dei ragazzi, vivono in lontananza, arresi e crudeli, i genitori, modelli a cui i figli giurano, nel bene e nel male, di non assomigliare mai.

E sopra ognuno di loro, genitori e figli, la violenza continua dell’acciaio, che qualsiasi cosa accada, non si può fermare mai”.

Dietro i paraventi della città rossa. La classe operaia di Mordini (e Avallone) non solo non va in paradiso ma nemmeno all’isola d’Elba. È l’ultima estate prima del liceo… le ragazzine Anna e Francesca sono in preda ai primi turbamenti sessuali, ancora indecisi. Si allontanano, poi si ritrovano. Alessio, il fratello di Anna, fa l’operaio, tira di coca e ruba il rame per far quadrare i conti. Si abbevera al falso erotismo di provincia del night club. Il posto sicuro in acciaieria lo conforta. Ama con trasporto Elena, figlia del dottore della città, che dopo aver fatto esperienze di lavoro altrove, ritorna e diventa impiegata nella stessa fabbrica di Alessio. Il rapporto delle ragazze con i genitori è difficile, forse incolmabile, tuttavia l’acciaio, a conti fatti, resta il collante a garanzia del futuro di un’intera città (fotografata, male, nella sua parte più brutta).

Il neoliberismo mette tutti d’accordo, padroni e operai. Non ci sono santi che tengono. Sfruttati e sfruttatori non guardano in faccia alla distruzione ambientale né alle morti sul lavoro… ciascuno è deresponsabilizzato e finché dura la sola cosa che conta sono le proprie convenienze in barba alla miseria montante della globalizzazione dei mercati. Le giovani generazioni di disoccupati restano nei dati Istat e nelle chiacchere televisive degli imbonitori della politica. La lezione della fabbrica di morte di Taranto insegna (dove rassegnazione e sottomissione degli operai ai padroni dello stabilimento e ai faccendieri della politica sembra toccare gli stilemi della farsa). A questo proposito ci piace riportare quanto afferma in un intervista rilasciata a Venezia Today dall’attore Michele Riondino (tarantino), che interpreta Alessio nel film Acciaio: “Quello che è cambiato ultimamente verso l’Ilva è l’attenzione dei media. Si parla di bustarelle o intercettazioni, ma in realtà sono tutte cose che a Taranto tutti sanno bene. Non c’é politica che si interessi davvero del problema. La famiglia Riva si è schierata con ogni parte politica, con la chiesa e con i giornali così non ci resta che strappare la scheda elettorale. Potrebbe sembrare un segno non costruttivo, ma secondo me è un segnale che si può dare alla mia parte politica che non è mai stata al potere”. Ricordiamolo: la salute dei cittadini fa parte dei servizi pubblici la cui protezione e gratuità dovrebbe essere garantita.

Porca puttana! Bisogna proprio essere dei coglioni o non aver niente di meglio da fare per vedere un film (o leggere un libro) che parla di queste cose come fossero la realtà… qui la filosofia da zuccherificio impera e l’acciaio è il solo responsabile dell’incomprensione tra padri e figli… l’aridità della politica istituzionale, le vessazioni dei padroni della fabbrica, l’inquinamento ambientale vero, le lotte della classe operaia (vinta ma non arresa) restano fuori… al limite dell’indecenza creativa… il confetto adolescenziale è servito.

È il desiderio di vivere tra liberi e uguali che apre le porte al possibile. È “il divenire davvero umano dell’uomo che supera la propria umanità e crea il proprio destino” (Raoul Vaneigem). Imparare a vivere superando la predazione dell’economia politica è il solo elogio di uno stile di vita da conquistare. Lo sfruttamento delle masse è planetario e le mafie degli affari attribuiscono ai cadaveri che divorano con gli indici della Borsa, il servilismo volontario. Se la corona di spine è il copricapo di un impostore o di un pagliaccio, l’aspirazione alla felicità pubblica passa dall’abbattimento di tutte le idolatrie. Quando i popoli si accorgeranno della fame di bellezza che tengono nel cuore, ci sarà la rivoluzione nelle strade della terra.

La sceneggiatura di Acciaio è di Mordini, Giulia Calenda (e Silvia Avallone)… i luoghi comuni si sprecano… le banalità figurative, anche. La fotografia di Marco Onorato è molto televisiva, da sceneggiato in prima serata… tutto è ben edulcorato, i frammenti della fabbrica poi sembrano tratti da una pubblicità del Mulino Bianco. Il montaggio di Marco Spoletini e Jacopo Quadri è inesistente, lento, accompagna le sequenze senza un’invettiva strutturale. Della scenografia di Luciano Ricceri e dei costumi di Ursula Patzak, meglio lasciar perdere (roba da centro commerciale). Riuscita invece la scelta degli attori. Michele Riondino è bravo, sostenuto da un certo fascino proletario che utilizza bene e Vittoria Puccini, una faccia bella, fin troppo malinconica, lavorano senza troppi estetismi e insieme alla la freschezza giovanile, quasi selvatica di Matilde Giannini e Anna Bellezza impediscono l’uscita dal cinema. Restiamo convinti però che una passeggiata a Cala Moresca, una birra all’osteria con gli amici a cantare “Bella ciao” o fare l’amore su una spiaggia di fronte all’isola d’Elba è senz’altro un modo migliore di occupare il proprio tempo.

[Nota a margine. Per i curiosi di storiografia cinematografica ricordiamo Acciaio (1933, B/N) Walter Ruttmann, unico film di finzione girato dal regista tedesco. Il soggetto è tratto da Giuoca Pietro! di Luigi Pirandello e Stefano Landi, suo figlio. La sceneggiatura è di Ruttmann, con la collaborazione di Emilio Cecchi e Mario Soldati (non accreditato). Montaggio di Ruttmann (assistente, Giuseppe Fatigati). Fotografia di Massimo Terzano. Musica (eccezionale) di Gian Francesco Malipiero. Si tratta della storia di due operai delle acciaierie di Terni, Mario e Pietro. Vecchi amici, amano la stessa donna (Gina). Quando Pietro muore in un incidente sul lavoro, Mario viene accusato (ingiustamente) di aver provocato la tragedia. Mario cade in una forte depressione. Dopo qualche tempo si libera di ogni senso colpa, torna a lavoro, sostenuto dall’amore di Gina.

Ruttmann lascia l’attorialità in margine al discorso filmico e descrive la vita degli operai nelle acciaierie di Terni con meticoloso realismo. Le grandi inquadrature del film di Ruttmann non tradiscono la sua vena documentaria (Berlino, sinfonia di una grande città, 1927) e insieme ad uno straordinario montaggio metaforico (l’uso del sonoro è parte integrante del tessuto filmico) riesce ad affabulare una sorta di imponente sinfonia visiva del lavoro in una fabbrica. Per essendo stato commissionato su diretta richiesta da Benito Mussolini a Pirandello, il film non è ascrivibile alle atmosfere né ai contenuti del cinema di regime. Acciaio fu rifiutato da Pirandello perché il regista aveva dato maggiore importanza alla vita degli operai in fabbrica e smussato la trama magniloquente dello scrittore in camicia nera. Il bisogno di mangiare non ha mai significato la prostituzione dell’arte].

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 5 volte settembre 2012

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