“Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza” .
Guy Debord
Un cinema che non incendi il linguaggio della società spettacolare, non merita affatto essere chiamato cinema, ma merce soltanto… a che pro frequentare Welles, Rossellini, Pasolini o Guy Debord, quando basta un imbecille qualunque a mostrare che un altro mondo è possibile? L’economia mercantile figura l’organizzazione attuale della società… le novelle generazioni costituiscono “un riassunto preciso e sufficiente di tutto ciò che ormai lo spettacolo impedisce, e anche tutto ciò che permette” (Guy Debord). Del resto, un mondo senza dèi sarebbe dozzinale quanto un parlamento senza imbecilli. I mezzi di comunicazione di massa sono parte centrale della fusione economico-statale… i partiti e i governi mantengono nella menzogna il falso indiscutibile di un eterno presente vincolato alla soggezione generalizzata. L’autorità spettacolare domina sull’opinione pubblica e là dove non arrivano gli esperti della chiacchera, interviene la polizia. Ogni specialista serve il suo padrone e mai la censura dell’immaginario è stata più perfetta! La modernizzazione della repressione continua.
Bohemian Rhapsody è uno dei massimi esempi di cinema dell’imbecillità… gli ingredienti ci sono tutti… il mito, l’omosessualità, il plauso planetario di un gruppo rock, confezionati per universi convenuti… come le puttane da marciapiede, le operazioni commerciali di questo tipo sembra non possano fare a meno di clienti un po’ grezzi… suprema felicità, massimo appagamento e beatitudine emergono da una vita tutta incensata nel riconoscimento mediatico e il conseguente ritorno economico… gli eccessi pagano, distinzione, finezza e raffinatezza sono un’altra cosa.
La filmografia bottegaia di Bryan Singer — da I soliti sospetti (1995), passando per Operazione Valchiria (2008) e la saga infinita degli X-man… fino a Bohemian Rhapsody —, è un prontuario di facezie che bene s’accorpano alle richieste del mercato… sovente premiati al botteghino, restano disancorati dalla capacità di fare-cinema (oltre gli schemi) e si dissolvono nel stesso momento in cui si mostrano… dove il mercantile esige il consenso, il cuore dello spettatore non chiede nulla. Lo schermo è il sudario di tutte le infatuazioni, qui nessuno ha il terrore di diventare profeta o bandito. La fine dello stupore muore nel marcitoio o nel clamore del simulacro.
Bohemian Rhapsody ripercorre i quindici anni dei Queen… dalla nascita della band (1970) fino al concerto Live Aid del 1985. Freddie Mercury (Farrokh Bulsara), il batterista Roger Taylor e il chitarrista Brian May fondano i Queen (ai quali si unirà il bassista John Deacon)… i successi sono molti… Bohemian Rhapsody, Crazy Little Thing Called Love, Don’t Stop Me Now, It’s a Hard Life, Killer Queen, Love of My Life, Play the Game, omebody to Love o We Are the Champions… entrano a far parte dell’immaginario giovanile dell’epoca e nell’arco di pochi anni i ragazzi inglesi (Freddie Mercury era nato però a Stone Town, nell’isola di Zanzibar) diventano ricchi e famosi… le etichette discografiche (Columbia, Polydor, EMI, Parlophone) sanno come gestire provocazioni, dismisure ed eccentricità dei Queen… qualche censura (vestirsi con abiti da donna destava un qualche scandalo per il pubblico televisivo del tempo), cocaina, amori (non solo) omosessuali in fondo facevano parte del gioco… ciò che importava a tutti era fare i soldi… in fondo essere celebri non basta a nessuno, ciò che conta è essere celebrati! A un certo grado di idolatria, ogni verità diventa indecente.
Il film di Bryan Singer (e Dexter Fletcher, non accreditato) è un biopic musicale tratto dalla sceneggiatura, piuttosto esile, di Anthony McCarten… un assemblaggio di scenette all’acqua e sapone che delimitano il personaggio di Freddie Mercury (Rami Malek) tra la macchietta e il pittoresco… Mercury e Mary Austin (Lucy Boynton) si amano, Mercury si scopre (?) omosessuale e Singer lo dipinge un po’ maledetto, un po’ irriverente… sempre tuttavia affrescato nella diversità permessa di chi (al cinema e dappertutto) voglia vendere un prodotto di largo consumo… le sequenze sono edulcorate fino all’espunzione di ogni sgradevolezza e Mercury attraversa la vita e la ribalta come un lebbroso sorridente che va incontro all’irreparabile… trova anche l’amore in un servizievole cameriere, Jim Hutton (Aaron McCusker)… ma l’incontro tra i due avvenne in un club e non nella villa di Mercury… poi la scoperta dell’AIDS nel 1987 e la morte nel 1991… anche Hutton aveva contratto l’AIDS, tuttavia morì di cancro ai polmoni nel 2010. La macchina/cinema sarebbe intollerabile senza gli incendiari dell’immaginario che la negano.
I produttori di Bohemian Rhapsody sono i veri autori del film… Jim Beach, Robert De Niro, Graham King, Brian May, Peter Oberth, Bryan Singer, Roger Taylor… hanno annusato la miniera mercatale e profuso dollari per spremerla fino al conseguimento di qualche Oscar… tutto è stato pianificato con notevole maestria… anticipazioni televisive, interviste ai Queen, recensioni nelle riviste più accreditate, i giornali, le radio… l’edizione home video del film, le riedizioni delle canzoni dei Queen, libretti, magliette e tutto il merchandise che ne consegue… innalzano le apparenze a livello di uno “stile”, quello della domesticazione sociale.
Bohemian Rhapsody è un film contro l’omofobia, un’opera esuberante sulla vita perduta di un’icona mai tramontata nel panorama musicale planetario, si è detto… sullo schermo però sfilano una serie di sciocchezze abbassate al rango di pretesti… i personaggi sembrano imbastiti tra il vizio e l’imbalsamazione, e fanno professione di grammatica, non di esistenza… ognuno si colloca a un stadio diverso nella gerarchia del successo e tutti appaiono come l’immagine di ciò che si è voluto erigere a oracolo: La fidanzata di Mercury è comprensiva, le mogli dei musicisti sono incolori, tutti esprimono al medesimo tempo un conformismo rovesciato… il pubblico, come sempre, ama i predicatori o i ribelli alla medesima maniera… sugli altari della gloria o sui patiboli dell’eresia… quando non si scredita né istituzioni né morali, nessuno corre alcun rischio… nessuna legge (figuriamoci quella del mercato!) è fatta per difendere la verità, la bellezza, la giustizia… tutti i codici puniscono la benché minima disaffezione che intacca l’ingabbiatura della speranza… il Mito sottende il boia che lo alimenta nella stupidità dell’entusiasmo.
L’interpretazione di Rami Malek (Mercury), Gwilym Lee (Brian May), Ben Hardy (Roger Taylor), Joseph Mazzello (John Deacon) e Lucy Boynton (Mary)… si amalgama bene con i toni sommessi, quasi caritatevoli, che abbracciano tutti i punti di vista… il buonismo si allarga a tutto campo, dalla famiglia di Mercury, ai manager, ai membri della band… l’educazione all’ipocrisia travalica tutte le convenzioni… per avere un posto onorevole nell’olimpo del mercato musicale bisogna essere commedianti, rispettare il gioco dei potenti e inventare una trasgressione, quanto basta, per canonizzare l’apostolo tra la tartuferia e la dissolutezza… il profitto è al fondo dell’oggetto di culto, il cui uso uniforme costituisce un intruglio di banalità.
La fotografia di Bohemian Rhapsody (Newton Thomas Sigel), insieme al montaggio (John Ottman, curatore anche per le musiche)… delineano un’atmosfera metà servile (la colorazione televisiva degli interni) e metà balorda (le caratterizzazioni-dark degli esterni)… una sommatoria di parole, canzoni, posture che puntellano soltanto l’agiografia del Mito… Bohemian Rhapsody infonde un influsso benefico su spettatori e critica, e inocula l’indulgenza celata sotto le mascherature dei Queen… siccome non siamo dei musicologi, non entriamo in merito a nessun valore autoriale della loro creatività… nemmeno c’interessano vere o false devianze di Mercury… sappiamo bene che ai padroni delle etichette discografiche interessano solo i soldi (come alle star del resto) e poco importa avere una qualche visione del mondo… ciò che conta è percorrere la gamma del successo e come nei crimini raffinati o in quelli più grossolani, il pubblico è parte dell’oggetto consumato e chiede solo d’impregnarsi nel lezzo del Mito… al Mito si perdona tutto, perfino l’assassinio, a patto che sia squisitamente commentato dall’ufficio stampa della casa discografica.
Bohemian Rhapsody ha poco a che fare con la magia del cinema… del musical principalmente… la fatalità è la linfa del mercato… lavora alla biografia o all’estrema unzione del “personaggio” e il dettaglio trionfa nell’inganno… ne consegue una sorta religiosa della leggenda, una dottrina della merce, una prostituzione dei begli ingegni dispensati a una folla di devoti… la costruzione della divinità è una demenza spesso ben dissimulata che passa dall’arroganza della merce alla preghiera dei burattini che assaltano i centri commerciali per acquistare le mutande (o che altro) firmate dai miti del momento… la megalomania dei miti supera tutto quanto abbiano mai potuto immaginare le chiese monoteiste… dietro ogni formula mercatale è stata approntata una ghigliottina dei saperi… mettete i miti al loro posto: avrete il cimitero quotidiano della bellezza, della verità e del bene comune. Con l’abbattimento degli idoli, franano anche i pregiudizi!
Va detto. Gli eroi, i santi e i martiri (come ogni star sacralizzata) sono profeti senza talento che sotto l’aureola del successo hanno eretto l’insignificanza a degradazione dall’alto… il loro pubblico è una fiumana di naufragi impersonali o entusiasti della rassegnazione… sempre pronti a sostenere l’impostura delle fedi, dei partiti o dei mercati… una massa di beati che assecondano la simulazione del “genio”… senza sapere mai che nel “falso genio” coesistono un millantatore e un cretino in attesa di essere disvelato o passato per le armi. Ci viene da ridere… folle di esaltati non s’accorgono che dietro i paraventi dell’arte si celano mitologie da supermercato e quando sono assorbite dalle folle, cresce un po’ più male nel mondo.
Motto di spirito: Con le budella dell’ultimo dei Beatles impiccheremo volentieri l’ultimo dei Rolling Stone, senza dimenticare quel coglione di David Bowie, mentre fa il saluto nazista ai fan che lo incensano a nuove mascherate… bisogna essere fuori del mondo come un idiota o un credente per integrarsi nella miseria, nella mediocrità, nella servitù di una società spetta- colare che non merita essere sostenuta ma aiutata a crollare! Gli uomini hanno adorato sol- tanto coloro che li hanno resi schiavi! Si tratta ora di rompere i rituali della stupidità e fare dell’utopia sovversiva, l’esplosivo che mette fine all’impero dei sogni.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 5 volte febbraio 2019