di Luigi Zoja, Einaudi, 2018, pp. 121, Euro 12,00
Questo saggio di Luigi Zoja, sul vedere il vero e il falso nella fotografia, è anche un modo di riflettere sulla verità o sulle menzogne della fotografia come specchio/memoria della storia… Zoja rilegge otto fotografie divenute celebri, il che non sempre giova al linguaggio fotografico (che qualcuno nega in quanto dice che non ha codice?!)… quattro fotografie che figurano la guerra, provengono da “messe in scena”, le altre mostrano dei bambini e la loro innocenza tradita… tutte ci aiutano ad interrogarsi sul senso della vita e sull’opportunità d’imparare a vedere e non credere fino in fondo alla comunicazione di massa.
La visione trasversale dello psicoanalista (Zoja) entra nell’immaginale di Robert Capa, Joe Rosenthal, Evgenij Chaldej, Yōsuke Yamahata, Huỳnh Công (Nick Út), Kevin Carter e del fotografo anonimo dei soldati tedeschi che abbattono la barra del confine polacco allo scoppio della seconda guerra mondiale (1939)… di là dalle verità o dalle simulazioni di questa o quella fotografia descritte da Zoja, le icone fotografiche che fuoriescono da questo saggio, perdono la loro aura mitica e rientrano nei percorsi espressivi dei diritti umani. “La foto può essere profonda verità. Ma anche tradimento della verità” (Zoja). Quindi ciò che conta in fotografia e dappertutto non è l’estetica (la poetica) di un momento ma l’etica (la giustizia) che si porta addosso. “A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento”, Eugene W. Smith, un immortale della fotografia, diceva. Quando è morto ha lasciato in eredità 18 dollari e un patrimonio di bellezza e verità all’intera umanità.
In fotografia come in ogni guerra, la prima vittima è la verità… e quando le fotografie finiscono nei francobolli (come quella dei soldati che alzano la bandiera sul monte Suribachi a Jwo Jima) lì muore nella sacralità della menzogna… la morte del miliziano di Capa, la barra spezzata del confine polacco, la bandiera rossa sul palazzo del Terzo Reich, le mani in alto del bambino ebreo del ghetto di Varsavia, il bambino con la palla di riso di Hiroshima, la bimba denudata dal Napalm in Vietnam o la bambina sfinita dalla fame e l’avvoltoio in attesa di nutrirsi… di là della loro veridicità o della loro impostura… rivelano la condizione di espropriati dall’immaginario dal vero… l’opinione pubblica viene condizionata da fotografie che spesso hanno poco a che fare con l’iconologia del giusto, del buono o del bene comune, ma molto rispecchiano il sangue della storia dei vinti e l’idolatria dei vincitori.
Vedere il vero e il falso nella fotografia (e nei mass-media) significa prestare al pensiero del pubblico una direzione e una cosmogonia d’immagini indirizzate alla formazione del “cittadino ideale”, che sono la vetrina politica, finanziaria, sapienziale dove mascherare la falsità e l’ingiustizia… intanto la devastazione dell’ambiente, la violazione dei diritti umani e l’aumento delle guerre parassitarie, continuano e producono a dismisura disuguagliane mai viste dalla nascita dell’uomo… i nuovi strumenti del comunicare hanno creato nuove falsità al sevizio dei vecchi poteri e tiranni e democrazie consumeriste fanno dell’iconografia dominante il salvacondotto di nuovi genocidi.
La forza etica di questa parabola sulla fotografia come destino della cultura di massa, nella quale Zoja disvela la “tirannide dell’apparire”… ci aiuta a comprendere che spesso dietro le fotografie più famose o deificate, si cela l’artificio e il destino dell’incuriosità con la perdita di coscienza che ne consegue, e mostra anche una condizione di posseduti o di spodestati o, peggio ancora, d’intossicati nell’universo convenuto della civiltà spettacolare… è un monito per un “cosmo formato da immagini” che rappresenta un potere senza precedenti e che forse non appartiene più nemmeno alla fotografia, come alla vita quotidiana.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 22 volte novembre, 2018