“Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente?… Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!”.
Friedrich W. Nietzsche
La fotografia che uccide la fotografia
Al tempo della civiltà spettacolare, la cultura della fotografia spinge i fotografi nelle macellerie delle guerre o nei salotti dabbene dei produttori di illusioni… la fotografia consumerista è come il cadavere di Cristo che si nasconde nella Bibbia… un’immagine del desiderio, di compassione e di timore che incute riverenza e sottomissione (ma non proprio) celestiale, salvifica, mitica… la fotografia, proprio come Cristo sulla croce, è un’impostura, un distoglimento dal vero, un crimine continuato contro secoli di ribellione al sacro… a parte i soliti eretici a tutto… gente in gamba, che ad ogni pagina di storia hanno attentato a re, regine, tiranni, generali, papi, padroni, capi di Stato… che opprimevano i popoli e li costringevano a morire nelle loro guerre o a servire alle loro tavole o nelle loro fabbriche… e avevano osato pensare che l’avvento di una società più libera e più umana, potesse davvero fare a meno di questi buffoni in formato grande… l’intuizione non è stata il risultato… l’utopia però di fare una “tabula rasa” di tutta la “bella gente” che governa in questo modo e a questo prezzo, non è mai sfumata… li hanno massacrati senza pietà gli eretici, ma non vinti!… all’infuori della bellezza e della verità, tutte le mitologie sul “buon governo” sono senza valore. I crimini più raffinati si commetto sugli scranni del parlamenti e sono perpetrati contro chi vuole la libertà, tutta la libertà e nient’altro che la libertà, per raggiungere la pubblica felicità.
La fotografia uccide la fotografia… nella desertificazione della coscienza e dell’intelligenza, la verità della fotografia muore con l’innocenza… la fotografia mercatale persegue gli itinerari del brutto, dell’odio o dell’imbecille… la buona fotografia (che non ha niente a che vedere con la bella fotografia) è inafferrabile e impudica insieme… è un’effervescenza di emozioni, di sofferenze e di realtà, e si porta addosso anche il brogliaccio del contrasto contro la ragione imposta, che non merita d’essere ascoltata o solo di esistere… la buona fotografia è quella della “perduta gente”… quella che lavora per l’inatteso non per l’evento… quella che consegna le mitologie della fotografia ai manuali o alla spazzatura, quella che suscita interesse soltanto a coloro che impugnano la fotocamera come i partigiani il ferro… le belle parole sono finite, restano le immagini a interrogare (o inginocchiarsi) davanti alle convenzioni del disamore.
L’abbiamo detto da qualche parte… vogliamo ribadirlo qui… il pensiero mercantile condiziona la storiografia della fotografia… a forza di erigere miti d’occasione, la fotografia, anche la più cialtrona, diventa verità o parola di vangelo… lezioni, dispense, dossologie della fotografia passano da un mito all’altro, senza mai andare a vedere a fondo i meccanismi che lo producono… senza sapere mai che ogni fotografia implica la filosofia dell’autore che la precede. La verità deborda nella giustizia, la bellezza la mostra! “La migliore fotografia già tradisce il reale, essa nasce da una scelta e dà un limite a ciò che non ne ha” (Albert Camus, diceva). Fotografare significa rendere vitale e visibile la propria esistenza… non si tratta di seguire gli insegnamenti di quel figlio di puttana di San Paolo, ma quelli aperti alla felicità sociale di Epicuro… per Diavolo! Una fotografia senza l’autobiografia che ne consegue non merita un secondo d’attenzione! avrebbero detto di ogni filosofia Schopenhauer, Nietzsche o Kierkegaard, e anche mia nonna partigiana… il taccuino (ben scritto) di un fotografo non si riassume nel consenso delle sue opere, ma nel portolano che lega le sue fotografie ai suoi comportamenti… la fotografia è parte della vita che a sua volta mangia l’opera che diventa vita.
Una controstoria della fotografia [ leggiamo nelle annotazioni sul nostro Moleskine, scritte nei bar, treni, parchi pubblici, perfino al cinema o nel deserto… ] non solo è utile a rompere l’omertà della fotografia imperante, ma è necessaria a un’epifania del conflitto che deterge l’utilitarismo e le ragioni della consorteria liberista che la sottende… disprezzo, spregio, invettive… tutti i mezzi sono buoni per smantellare l’ordine del discorso… non c’importa nulla né della camera chiara né dell’aura artistica… tantomeno della museificazione di qualsiasi estetica piantata in codici e morali perverse… o delle insensatezze fotografiche diffuse sulla credenza che la fotografia si fa con le macchine fotografiche… la fotografia si può fare con sguardi, parole, tamburi, pugni e con qualsiasi strumento del comunicare, anche col fucile quando occorre (come è stato per le rivolte arabe affogate nel sangue)… ciò che vale è dire qualcosa su qualcosa e possibilmente contro qualcuno! Diventare franchi tiratori della menzogna e raccontare che l’estetica del mito è una truffa ben congegnata… voltiamo le spalle alla stupidità e incamminiamoci verso la fotografia e scoprire una lingua dell’immaginale capace di scompaginare e sovvertire la brutalità levigata dell’iconologia predominante.
Un fotografo è un criminale che si ignora o un poeta maledetto che si ama… solo quando la bellezza sarà vissuta, non immaginata, sarà possibile il recupero della dignità dell’uomo, da sempre calpestata… finché trionfa il mito, la fotografia è una sottosezione del mercimonio… chiedete al prete, al padrone, all’accademico o al generale… e avrete risposta, certo… il falso valore del mito è sotto ogni taglio, la scienza dell’assoggettamento… solo il nascere di una bella individualità o la soggettività radicale che infiamma l’inedito, può sostituire, il santo, l’eroe e anche il genio con la costruzione di sé e fare del bello, del giusto e del buono, i principi di distruzione della cultura sommaria, intrecciata con i gangli delle istituzioni… ogni educazione alla vita vera implica la scelta dell’uomo del no!, come diceva John Ford in Furore (1940)… e là dove il bastone del potere batte contro gli ultimi, gli sfruttati, gli oppressi… l’uomo del no! sarà accanto a loro e combatterà per una nuova vissutezza dei popoli liberati. A ciascuno le sue utopie… noi ci teniamo quella della Comune di Parigi… ha rappresentato l’ultimo afflato popolare che ha dato l’assalto al potere per la conquista di una società libertaria. Se oggi molti possono parlare di democrazia, libertà di pensiero e possono portare il cane col cappottino a pisciare nei giardini senza essere deportati ad Auschwitz… lo debbono ai comunardi trucidati sulle barricate, alla rivoluzione sociale di Spagna del ’36 e ai sessantamila morti della Resistenza che hanno sconfitto il nazifascismo. Per non dimenticare!
Cosa c’entra la fotografia con tutto questo? Molto… la fotografia è parte integrante dell’ideologia dell’irreparabile… l’equivalente di un patibolo o di un bordello… e là dove trionfa il tanfo del successo, si riproduce anche la castrazione dell’arte! Poiché non c’è altro riconoscimento se non quello del mercato, ogni fotografo è disposto ad uccidere la propria madre per avere un posto alla destra (o alla sinistra, non c’è differenza) del boia che lo incensa! Ciò che importa è la sottomissione alla mediocrità o all’indulgenza!, in cambio, certo, del salto della pulce da una mano all’altra del prestigiatore! Più di venti secoli di estetica hanno prodotto il lucido da scarpe di Andy Warhol, il water d’oro di Cattelan o le performance del cazzo di Marina Abramović, celebrati come arte. Non è un caso se l’artista delle zuppe Campbell’s (Andy Warhol), disse che “La cosa più bella di Firenze è McDonald”. In fotografia accade la stessa cosa. Se avessimo voglia e la demenza di vedere chi sono i 10 fotografi più pagati al mondo… anche meritatamente… tra questi di sicuro c’è “Terry” Richardson (dicono che è addirittura il più ricco e di conseguenza anche il più invidiato)… non ci sorprende… la povertà intellettuale di questo tempo si evidenzia nel numero esponenziale di artisti che hanno compreso come si vende l’anima a Dio (al mercato)! La povertà intellettuale e l’inesistenza etica non contano, ciò che vale è tutto nel prezzo che il mercante dà all’opera… il supporto o il dispositivo è la rimaterializzazione dell’arte in merce soltanto.
Facciamoci del male. Terrence “Terry” Richardson nasce a New York nel 1965… figlio di un importante fotografo di moda finito nella droga e in miseria… poi riprese a insegnare e fotografare, senza mai più raggiungere i fasti hollywoodiani… il figlio, in principio si era avviato verso la musica punk-rock con il gruppo The Invisible Government… poi vede nella fotografia la propria strada, fa da assistente a Tony Kent (modesto fotografo di sarti di grido) e mette su bottega… capisce subito che la provocazione vende e bene… così collabora con numerose riviste di grido, i marchi più eminenti e qualche volta si fa censurare le campagne pubblicitarie… non perché sono scandalose, sovente perché sono stupide! Ma i censori non lo sanno! Credono davvero che vadano a disturbare il pubblico pudore. Vero niente. Lo scandalo è una prerogativa del potere, più uno ruba, più è scemo, più è ritenuto importante, più è tollerato quando non idolatrato dalle masse.
I personaggi che sfilano davanti alla fotocamera di “Terry” Richardson sono tanti — Barack Obama, Leonardo Di Caprio, Sharon Stone, Caterine Denvue, Karl Lagerfeld, Lady Gaga, Mickey Rourke, Amy Winehouse, Lil’ Kim, Nicolas Cage, Madonna (quella che fa la “ribelle” per milioni di dollari, non quella di Nazareth che è rimasta incinta per colpa dello Spirito Santo, ha partorito il bambino Gesù in una grotta ed è ascesa al cielo tutt’intera, uno scherzo da preti) —… il fotografo li sublima in oggetti di largo consumo… come Nan Goldin e Wolfgang Tillmans, cerca di stupire… di affascinare… di essere trasgressivo quanto basta per suscitare i fervori delle gallerie e dei media… qualche volta fotografa qualche ragazzetta e poi ci va a letto, ma non per cattiveria, solo per far vedere loro da dove viene il suo istinto fotografico. Anche i suoi video diventato famosi… inutili ma famosi… quello che non torna in questo fotografo, forse… è l’assoluta mancanza di talento o di stile… ben camuffati con quel tanto di esaltazione del “diverso” o di superbia che lo proiettano nel pantheon dell’immaginario servile… collezionisti privati, musei importanti, la stampa specializzata se lo contendono a colpi sensazionalistici… il culto organizzato ha i suoi ritorni economici e tutti ballano insieme sul sagrato dell’industria che li foraggia… non stupisce che una grossa parte (per niente trascurabile) dell’arte fotografica è al servizio permanente della civiltà dello spettacolo, dove la merce è tutto, l’uomo niente.
La macchina commerciale ha bisogno di scimmiette ammaestrate e in buona misura le protegge in gabbiette dorate, che non perdono mai occasione per dire sciocchezze e di farne di peggio… dissertano sull’arte e la vita come davvero sapessero ciò che affermano… i loro seguaci li ascoltano, li imitano, li copiano… l’uomo tuttavia è la misura di tutte le cose ed esiste solo il reale, ed è solo questo ciò che conta: “La forma non è uno scopo; essa porta, sostiene, rivela il contenuto, perché il secondo offre l’occasione della prima. Troppo a lungo il formalismo ha prodotto effetti nefasti: la forma per se stessa, il culto della forma… la venerazione della carcassa” (Michel Onfray)1. La fotografia di “Terry” Richardson, sotto ogni lettura, risente di una logica da parrocchia rovesciata… celebrazione del vuoto a detrimento della compiutezza… confusione visiva e pochezza affabulativa si confondono… l’inconsistenza dei lavori evapora nell’astrazione verso il nulla e nel semplicistico, che è la versione più acclamata nei centri commerciali o nei salotti mondani (quanto nelle scuole di fotografia)… soltanto quando si raggiungono gli altopiani di una cartografia della verità liberata da tutti i guinzagli mercatali che la strozzano, si ha coscienza di sé, coscienza degli altri e conoscenza del mondo.
Sulla fotografia consumerista
La filosofia della fotografia autentica penetra la realtà essenziale delle cose, dal momento che la natura della fotografia più consumata non ha nulla a che fare con la realtà. L’iconografia di “Terry” Richardson, appunto, è un prontuario di immagini furbe… piuttosto brutte e nemmeno ben confezionate… c’è un’esaltazione generalizzata che investe l’intera produzione del fotografo statunitense, una sorta d’insignificanza che trascende il fotografico dal quale parte, e non è certo una ragazza nuda che lecca la cresta di un gallo nel calendario Pirelli del 2010, ha far sobbalzare gli sguardi dei suoi estimatori… è la sua disponibilità a promuovere lo spazio fotografico alla stregua di una soap-opera… è la rassegnazione della fotografia al narcisismo smodato di chi fa della fotografia solo un richiamo per iloti dell’estetismo… la fotografia così fatta è una lebbra dello spirito, una visione rivelatrice della storia come farsa o abbellimento del nulla… i ribelli hanno salvato i popoli, gli opportunisti li hanno rovinati.
“Un grande fotografo”, dichiara Richardson — “coglie il momento, per questo fotografo senza apparati e senza assistenti. La mia tecnica è l’assenza di tecnica: l’obiettivo sono i miei occhi, il mio carisma, la mia capacità di catturare attimi di verità, qualunque essa sia, i tagli delle immagini, l’uso del colore, le luci, le ambientazioni sono sempre stati i punti essenziali della mia arte fotografica” —. La “mia arte fotografica” (?!)… al “suono” di queste parole ci assalgono conati di vomito… le cazzate troppo ripetute sviliscono l’immaginario dal vero e muoiono nel mattatoio delle definizioni… figurano un dilettantismo senza splendore… alla fine delle lusinghe restano le opere e la violenza del sacro che hanno asservito… la superbia supera in grossolanità tutte le truccherie mercatali del proprio tempo. “Chiunque non accetti la propria nullità è un malato di mente” (E.M.Cioran) e nell’insania dell’adorazione e del successo trova il suo giusto lupanare.
Nell’elencario fotografico di “Terry” Richardson, l’approssimazione architetturale, l’ammiccamento sessuale, la megalomania perseguita sino all’insignificanza… evidenziano forme ingannevoli della cosa fotografata… se le idee sono surrogati dei dolori, come diceva Proust… il fotografico di “Terry” Richardson mette in scena un pensiero d’occasione che non ha niente da dire né tantomeno da insegnare… i miti che fanno finta di sparasi alla tempia (o in bocca) con una pistola, ragazzine discinte che succhiano banane insieme al fotografo, dive in mutande o seminude che fanno finta d’essere umane, finte aggressioni giovanili, nudi e autonudi (del fotografo) che figurano l’incensamento di un malessere o di un delirio e basta… restituiscono una clownerie improvvisata… una sorta di caleidoscopio d’immagini slegate da ogni fatto importante dell’esistenza umana… la fotografia di questo sbruffone da quattro soldi reca in sé una cultura da beoti che prospera nella fuga dalla realtà, che non sia quella di ciò che affoga nei fiumi d’imbecillità dell’industria culturale… solo i pesci morti vanno con la corrente!
La campagne pubblicitarie di “Terry” Richardson appaiono ai più “singolari”… si fa finta di assumere un po’ di droga insieme all’abito firmato, una ragazza in rosso apre le gambe davanti a un toro, effusioni, ammiccamenti, baci in bocca tra uomini, tra donne e anche gli animali fanno il loro gioco d’effusioni… il tutto condito sotto l’egida di “griffe” internazionali, e tutto all’insegna della folgorazione mercantile… c’è perfino Obama — il presidente nero che ha fatto sganciare bombe sui civili siriani con i droni, respinto i profughi oltre il confine del Messico o assicurato a banche e mercanti d’armi profitti mai raggiunti nella storia degli Stati
Uniti — che fa lo scemo col fotografo… c’è anche Lady Gaga che si fa succhiare il dito da un’amica (imitata dal fotografo), c’è il culo di Madonna, che non dispiace, sventolato con particolare complicità, c’è il ragazzo che mostra i muscoli ai compratori di mutande marchiate, ci sono le icone del pop (non poteva mancare il cantore della musica alla crema dei Beatles, Sir Paul McCartney) e tutto un bestiario similare… a santificare la promozione del desiderio o una gloria da stronzi, concepiti in questa mascherata da servi del superfluo… una ritualità della barbarie spettacolare che dà la sensazione di trovarci di fronte al cattivo gusto di un fotografo intraprendente o un demente realizzato. Nella fotografia del nostro disdoro tutto invecchia all’istante, perfino la felicità del mercato… e sulle vetrine delle qualificazioni l’oggetto del desiderio è già moribondo al momento della fatturazione… e lo si vede bene nella fotografia del sensazionale di “Terry” Richardson… l’inquadratura, l’empatia, il senso della luce non sembrano riguardare le iconologie del fotografo dell’entusiasmo (e, come sappiamo, non c’è forma di banalità, di proselitismo o d’intransigenza ideologica che non vesta gli abiti dell’imbecille truccato da entusiasta)… gli sguardi, le posture, i tagli espressivi delle immagini di “Terry” Richardson illustrano e accompagnano l’illusione della vita, elevano la bulimia dell’apparire nelle facezie dello spettacolare e, più ancora, contribuiscono alla costruzione di un’apparato di distruzione del fotografico, una stasi o una formula della percezione che si sottomette alla farsa eterna dell’utilitarismo.
La fotografia è il romanzo della materia, come sostenevano Cervantes, Welles, Carroll e perfino la Banda Bonnot… all’inganno di un qualsiasi fotografo da estrema unzione come “Terry” Richardson, preferiamo un hidalgo che combatte contro i mulini a vento del potere… ciò che non ci uccidere ci rende più forti, diceva il poeta senza pari che abbracciò un cavallo e pianse per le vie di Torino, smise di parlare e lo ficcarono in un manicomio con altri della sua stessa bellezza incompresa… lì se la rideva forte di tutte le epoche dissolute e corrotte in mano a piccoli uomini (politici, preti, finanzieri, artisti) destinati ad essere adorati come dèi… tutti lebbrosi del pregiudizio che andrebbero destinati alla pulitura dei cessi pubblici o passati inevitabilmente sotto il torchio della verità insorta.
Tra la fotografia e la giustizia l’incompatibilità è totale… la raffigurazione della violenza o l’apologia dei potenti (che è la medesima cosa) funzionano bene… riviste, giornali, tv, il circo dei festival, delle mostre, dei giochi a premi… fanno dell’immagine fotografica una prerogativa eroica o una tentazione monumentale della velenosità mercatale… il fatto è che la fotografia autentica non è collegata ad alcun pregio dell’esistenza che non sia il franamento delle teocrazie… il disinganno lucido è dei fotografi che fecero l’impresa, quella cioè che si sbarazza dei dogmi e delle confessioni disseminati lungo i cenacoli delle qualificazioni e al posto della santità preferiscono il dissidio o la rivolta.
Sì, in verità vi dico… è difficile parlare con i fotografi come con gli angeli… gli uni e gli altri sono sempre stati dei grandi ingannatori… la loro infatuazioni si portano dietro l’aureola della prostrazione, mai quella dell’indignazione… in qualsiasi trattato sulle malattie mentali non sono menzionati, eppure proprio tra i fotografi e gli angeli si ritrovano i piaceri più alti dell’imbecillità. Non potendo vivere se non al di qua o al di là della realtà, i fotografi e gli angeli sono esposti a molte tentazioni, sempre sospese tra la santità e l’idiozia… quello che ci spaventa è che questa perdita di coscienza implica un avvicinamento alle cosche di ogni potere che li imbriglia nella promessa di diventare santi, del mercimonio, certo. I martiri non fanno cassetta.
La fotografia è il sangue di un’alchimia visuale in cui si ricerca la verità o la falsificazione del bello, del giusto, del buono… perché solo la verità regna, il resto è trucco! La fotografia è anzitutto l’autobiografia di un corpo… l’utensile che permette di fissare l’intuizione, per non dimenticarla… disvela cecità secolari o genera dissidenze che tendono a dire, ridire, precisare, affinare, correggere, aggiungere o rompere la macchina di domesticazione sociale che pervade ogni anfratto dell’umano… i calunniatori del reale si ritrovano sul sagrato della seduzione dell’effimero o nella denigrazione del vero mondo… di contro, la fotografia autentica vive ai bordi dell’eccellenza etica, dove la poetica del disinganno si rovescia in disobbedienza sociale.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 30 volte novembre 2018
1 Michel Onfray, La potenza di esistere. Manifesto edonista, Tea, 2009