“…Mai dimenticare che uccidere un padrone è un assassinio, farne fuori cento di padroni è un atto eroico!…”.
(Cantava uno straccivendolo anarchico in un’osteria di porto della mia città nel primo dopoguerra,
che tutti chiamavano Bakunin). P.B.
I. Ouverture. Sulla fotografia della stupidità
C’è più verità in un atto d’insubordinazione che in tutte le fotografie del mondo, e tutte le fotografie del mondo non valgono un caffè con un amico o un colpo di pistola preso al cuore per laconquista di una società di liberi e uguali. Se la fotografia della stupidità (digitale o analogica è la medesima cosa) non rassomigliasse perfettamente al talento, al progresso, alla speranza o all’arte fotografica per tutti… nessuno vorrebbe essere stupido. Con una fotocamera da esibire nello spettacolo infame, cialtrone, vigliacco che gli stupidi della fotografia (amatoriale o professionale) celebrano perfino al cesso… tutti si sentono artisti e mostrano ad ogni sfogliata dell’industria culturale o elettorale (sempre più penosa) che il confine tra stupidità e vanità è banalizzato per il fatto che solo gli ironici, i cinici o i liberi pensatori hanno il pudore di nasconderlo… insomma dietro un bel fotografo c’è spesso un bello stupido.
Ci sono fotografie che malgrado la loro banalità espressiva raggiungono il riconoscimento mercantile di Christie’ o con la loro ferocia acquisiscono il Premio Pulitzer… una fotografia di An dreas Gursky (Rhein II, stampata nel 1999) è stata battuta da Christie’ a New York per 4, 34 milioni di dollari… si tratta di una veduta del fiume Reno, incastonato tra due sponde verdi e il cielo piovoso… l’immagine di Gursky è di una stupidità estetica di non poco conto… il fotogramma di un qualsiasi film western di John Ford o una sola immagine (imperfetta) di donne e uomini in rivolta della Rivoluzione dei gelsomini basta a gettare tutta l’arte di Gursky nella pattumiera e restituire alla storia la verità che le compete. E dire la verità in ogni campo della comunicazione è un atto rivoluzionario.
Rhein II spodesta un’altra fotografia della stupidità celebrata, Untitled #96 dell’artista americana Cindy Sherman, battuta all’asta, sempre da Christie’s, lo scorso maggio, per 3.89 milioni di dollari. L’immagine (48”2×36”) raffigura una ragazzina con la maglietta di colore arancione, una gonna bianca e arancione appena sollevata sulle cosce (le gambe non si vedono), ha una mano quasi chiusa vicino alla testa (si notano le unghie laccate di rosso) e nell’altra, appoggiata su una gamba, tiene un pezzo di carta (una pagina strappata dall’elenco del telefono)… il pavimento è di mattoncini giallo-oro, la bocca semiaperta e le labbra dipinte con rossetto rosso, lo sguardo perso verso qualcosa lontano… quando i fotografi non hanno niente da dire, non hanno una visione autentica di ciò che fanno, non si parla che di letteratura… è difficile non trattenere il vomito di fronte a tanta stupidità applicata alla fotografia… il mercato dozzinale d’alto bordo che compra l’arte, anche la più infima, è il medesimo che ri/produce un’umanità di Bibbie e cannoni.
Anche la fotografia con la quale Kevin Carter ha vinto il Premio Pulitzer nel 1994, “Stricken child crawling towards a food camp”, scattata in Sudan e che per molti rappresenta il simbolo della carestia e dalle fame nel mondo… a noi sembra invece esprimere una visione “cannibalesca” della verità. È un giorno di marzo del 1993… Carter vede una bambina poco distante dal suo villaggio che sta morendo… un avvoltoio la segue, in attesa di farne il pasto… il fotografo aspetta il momento decisivo e dopo una ventina di minuti scatta l’immagine… poi va sotto un albero a parlare con Dio e pensare a sua figlia (racconta lui)… quando gli fu assegnato il prestigioso Pulitzer e i giornalisti chiesero che fine aveva fatto la bambina, Carter non dette nessuna risposta… il 27 luglio 1994 (scrive una lettera alla figlia e alla moglie, dalla quale si era separato) e si lascia morire con il gas nella sua auto. Aveva detto: “Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini… così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non fu necessariamente un male”. Dipende dal modo di come si fa o si evita di fare una fotografia… fotografare significa disfarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, spargere i propri segreti là dove la verità e la bellezza contiene la giustizia sociale… fotografare è una provocazione, una visione altra della realtà che si situa oltre ciò che è e denuda ciò che sembra essere. La fotografia della violenza contiene il vocabolario della stupidità.
Il calendario Lavazza (il caffè che prende san Pietro per grazia di Dio) è solo un esempio del cattivo edonismo in cui versa la fotografia del simbolico mercantile. I padroni del caffè, per festeggiare la ventesima edizione del calendario che magnifica il successo della company, hanno riunito 12 autori celeberrimi dell’immagine patinata (Erwin Olaf, Thierry Le Gouès, Miles Aldridge, Marino Parisotto, Eugenio Recuenco, Elliott Erwitt, Finlay MacKay, Mark Seliger, Annie Leibovitz, Albert Watson, David LaChapelle, Ellen von Unwerth)… The Lavazzers, appunto, firme che hanno reso grande negli anni il Calendario Lavazza.
L’entusiasmo è di quelli epocali… i fotografi si sono autocelebrati con un autoscatto e hanno stretto il loro rapporto più intimo con l’immagine pubblicitaria del caffè Lavazza, dicono. La regia accorta è dell’Agenzia Armando Testa (gente che sa cosa vuole il pubblico più abbiente e dirige i bisogni/consumi dei naufraghi da supermercato). Una messe di fotoamatori o fotografi dell’ascesa all’olimpo consumerista trasecolano di tanta sapienza estetica… tuttavia il calendario è brutto forte e le sante intelligenze della fotografia riescono far sognare l’immaginario di tutti i mondi fotografici possibili, quelli che danno diritto di cittadinanza alla sregolatezza controllata e all’educabilità del consenso nel confortorio di una continuata compiacenza foto-televisiva.
Prendiamo solo l’autoritratto di Annie Leibovitz… la fotografa ha una fotocamera al collo, è seduta in un letto di fiume con tanto di stivaloni da pescatore… tiene una tazzina di caffè Lavazza in una mano e nell’altra il cucchiaino per girare lo zucchero… si autoguarda, sembra dire (ma non ci crede nemmeno lei) che la vita è bella e una felice ignoranza prolunga l’esistenza dei consumatori di ogni merce. La Leibovitz pare non sapere, e forse non lo sa davvero, che la fotografia del presente è la sola verità possibile (come insegnano le immagini scippate alle rivolte arabe, prese dagli stessi protagonisti dell’insurrezione con telefoni cellulari, macchine usa e getta, videocamere, fatte girare nei social-network di tutto il mondo) e cogliere al momento le rose (la bellezza) della vita, Orazio diceva. Sempre lei ha celebrato le magie espressive dell’IPhone 4s (con la fotocamera incorporata da 8 megapixel): “Sto ancora imparando ad usarlo ha detto la Leibovitz (in un fuori onda sul canale statunitense della MSNBC), ma è certamente la fotocamera «punta e scatta» di oggi. È una penna, una matita, un notebook…” con il quale fotografi e principianti potranno magnificare le chimere private e pubbliche della società postmoderna. La Leibovitz non lo dice così, ma è a questo che l’insieme del suo fare-fotografia mira e fomenta sacche di cadaveri che fanno fotografie.
Tiriamo corto. La desertificazione della coscienza e dell’intelligenza fotografica passa proprio dall’adorazione di questi frequentatori di illusioni estetiche/etiche… solo i buoni poeti (in ogni forma d’arte) si fanno interpreti della bellezza autentica e restituiscono alla storia dell’uomo, della donna, ciò che li percorre, li abita e li ossessiona fuori dalla sacralità dei mercati dell’arte… i grandi fotografi prima di ogni cosa saccheggiano le corpografie del reale e attraverso l’ironia, la disobbedienza o il conflitto raggiungono la verità come formazione ideativa, depositaria di saggezze ereticali… la fotografia del vero, del buono, del bello è un tragitto ludico o abrasivo che porta alla gioia dell’immediato che s’intreccia col giusto. Ciò che non la uccide (la fotografia della bellezza), la fortifica.
II. Sulla fotografia comunarda
La macchina fotografica non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide a diventare artisti… anzi, è una macchina stupida che funzione solo nelle mani di persone intelligenti a diventare testimoni autentici della loro epoca (alla maniera di Umberto Eco). La bellezza autoriale di Mario Dondero non sempre è stata compresa… nemmeno la sua inclinazione comunarda della realtà è stata molto studiata… l’affabulazione fotografica di Dondero tuttavia lascia tracce indelebili del proprio valore di uomo impegnato nel rilevare il disagio sociale e il dolore quotidiano che buca l’ingiustizia generale… la nobiltà delle sue immagini mostra infatti che la bellezza è un aspetto della giustizia e una società dove a molti manca il pane non va sostenuta ma abbattuta… l’abbiamo detto altrove e lo grideremo sempre (con le parole di un grande filosofo/psicologo, James Hillman): “se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione” nelle strade della terra.
Un’annotazione necessaria (della quale potremmo anche farne a meno): Mario Dondero è uno dei maggiori fotogiornalisti italiani… nasce a Milano nel 1928 e nei gli anni ’50 inizia a lavorare per L’Unità, L’Avanti, Milano Sera, Le Ore… frequenta il Bar Jamaica (Milano) dove si incontra con fotografi e intellettuali non proprio intonati con la cultura dominante (Alfa Castaldi, Camilla Cederna, Luciano Bianciardi, Giulia Niccolai, Carlo Bavagnoli, Ugo Mulas, Uliano Lucas)… nel 1955 va a Parigi e le sue fotografie appaiono nelle pagine di L’Espresso, L’Illustrazione Italiana, Le Monde, Le Nouvel Observateur… conosce Roland Topor, Claude Mauriac, Daniel Pennac… fissa nel tempo l’immagine del gruppo di scrittori del Nouveau roman (Nathalie Serraute, Samuel Beckett, Alain Robbe-Grillet, Claude Muriac, Claude Simon, Jerome Lindon, Robert Pinget, Claude Ollier)… la sua ritrattistica africana è pubblicata nelle riviste Jeune Afrique, Afrique-Asie, Demain l’Afrique… fotografa con grazia Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Dacia Maraini (ma sono tanti i ritrattati dell’intellighenzia nobile, borghese, passati nel sua fotocamera)… la curiosità documentale di Dondero lo porta in giro per il mondo e il suo sguardo singolare, il gusto per la bella/scevra inquadratura, lo iscrive a pieno nella storia autentica della fotografia italiana.
Nella figurazione antropologica di Dondero e l’impeto libertario che la sostiene (le indagini del Tribunale Russell, gli scatti in Afghanistan, le torture in Algeria, fino a girare un documentario sui Griots in Africa)… si coglie l’attenzione e lo sforzo (sovente il coraggio) di comunicare la giustizia, la verità e il bene comune negato agli esclusi della terra… la visione comunarda di Dondero sembra dire che la verità abita l’uomo interiore e quando i più l’avranno scoperto, si riverserà fuori, nel mondo in rivolta. La nascita di una società libera e giusta nasce da una rinnovata resistenza che si traduce in disobbedienza civile.
Per Dondero “La fotografia è un magnifico strumento per raccontare, coglie situazioni che le parole non possono comunicare. Ciò che intendevo è che non mi interessa l’aspetto tecnico o artigianale della fotografia; che non mi interessa l’estetica ma il contenuto delle foto. Per me è sufficiente raggiungere una capacità tecnica sufficiente per raccontare delle storie. Penso che il fotogiornalismo sia l’espressione più alta della fotografia, e sono convinto che sia più importante pubblicare su un giornale che fare una mostra. Scomodare la parola arte per il reportage mi sembra eccessivo, anzi direi che troppo talento artistico nuoce al racconto”. Tutto vero. Le turbolenze generazionali che emergono ai quattro venti della terra, del resto, gli danno ragione… ribadiamolo — gli insorti del nuovo millennio che hanno fotografato se stessi, le morti dei loro cari, l’arroganza dei potenti che li tenevano a catena come schiavi… con immagini sgranate, sghembe, sfocate dei loro telefonini, videocamere, fotocamere amatoriali —… hanno mostrato (meglio dei fotoreporter blasonati della celebrata carta stampata o delle televisioni) il valore d’uso della fotografia sociale.
A leggere con attenzione le fotografie (non solo quelle d’impegno civile) di Dondero si resta affascinati di tanta bellezza e senso di giustizia che contengono.
Ci salgono agli occhi i contadini del Sud italiano, ritratti di donne di ogni-dove, operai col sorriso aperto verso nuove primavere di bellezza, bambini raffigurati in allegre speranze di vita buona… questa scrittura fotografica, sotto ogni taglio, rimanda a utopie mai dimenticate e, a ben guardare, invita a raccogliere l’azione, la resistenza, fino alla rivolta come esistenza etica, che sfocia in disobbedienza civile. Le mostre, i libri, gli incontri pubblici… confermano e rinnovano la coscienza sociale di questo fotografo anomalo… la sua opera intera lo incarna come un “maestro di civiltà” che nulla o poco ha a che fare con la superbia o l’ignoranza propria ai servi contenti della fotografia mercantile italiana… i fotografi della cultura oscurantista (dell’indifferenza) passano, i poeti dell’iconografia della bellezza popolare restano. “La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza… Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa presero le armi” (Albert Camus, diceva). La trattazione fotografica di Dondero riprende la visione libertaria di Henri CartierBresson (ma è solo un esempio) e denuda l’iconologia dell’osceno fotografico nel quale siamo immersi… mette a fuoco, con esattezza, il cuore della tragedia della società dello spettacolo e rompe la relazione tra il mercimonio dell’immagine e il successo/consenso mediatico che abbrutisce l’immaginario collettivo.
La fotografia in amore (o dell’anima bella) di Dondero ha la capacità di fissare nella quotidianità i valori e i disvalori disseminati in ogni forma di comunicazione (religiosa, politica, culturale), è un percorso esperienziale che fa buon uso dell’indignazione, per disvelare le fonti dell’ingiustizia impunita (che ciascuno dovrebbe approfondire e portare avanti per sradicare il brutto e il falso dal proprio sentire)… nessuna giustizia e nessuna bellezza può essere sovrana se non è del popolo. La bellezza è la forma compiuta della bellezza. Il divenire di una società di liberi e uguali è tutto qui.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 4 volte febbraio 2012.