di E.M. Cioran, Adelphi 2007, pp. 133, Euro 14
Confessioni e anatemi è l’ultimo libro di Cioran pubblicato in vita. Com’è in uso a questo filosofo radicale, è un insieme di frammenti. Cioran è figura scomoda, difficile, con qualche passato giovanile in Romania (dov’era nato nel 1911, è scomparso a Parigi nel 1995) non proprio di sinistra. La sua vita di esule, di apolide, di eretico di tutte le eresie esce anche in questo succinto lavoro di grande pregio e gli interrogativi, le riflessioni, le diserzioni del suo pensiero buttato contro i deliri dell’umanità e le gerarchie dei saperi insorge con forza da queste pagine asciutte. C’è stupore e meraviglia a leggere Cioran e non sono pochi i momenti dove la sua acida ironia ci porta a indignarsi o a sorridere contro l’ordine costituito, la politica dell’imbroglio e il marciume delle religioni monoteiste.
L’eleganza delle metafore, il giro di parole, la bellezza dei suoi aforismi lo collocano tra quei filosofi senza nessuna chiesa e nessuna patria. Cioran, l’uomo che andava in bicicletta alla scoperta della Francia e che si è fatto buttare fuori dall’università perché era fuori corso da 14 anni (la frequentava solo per la mensa, diceva), conferma qui una spregiudicata metafisica del dolore e dice che la felicità è dei malvagi e il trionfo illimitato dell’industria conduce l’uomo ad essere servo di un mondo in declino. “I soli avvenimenti notevoli di una vita sono le rotture”, scrive. E poi: “Solo ciò che invita al collasso merita di essere ascoltato”. E infine: “Ciò che vi di è più arcaico è la rivolta, vale a dire la più vitale della nostre reazioni”. Da nessuna parte è il vero, perché ovunque ci sono simulacri, dispositivi, imposture che imbavagliano la vita quotidiana.
La pratica insolente dell’aforisma permette a Cioran di avanzare contro il deserto delle idee e di chiamarsi fuori dalla devastazione dell’intelligenza o dal cinismo solo letterario che sono propri alla cultura delle democrazie dello spettacolo. Il consenso esiste fintantoché dura la soggezione e l’ascolto delle sirene del potere. Eraclito, Swift, Schopenhauer, Nietzsche sono travasati nella sua scrittura straordinaria e la sua genialità non è quella di gridare allo scandalo ma di esprimere una sovversione non sospetta, forse romantica, di altri sentimenti struccati. Come quando annota: “L’estrema crudeltà raramente è volgare: ha sempre qualcosa di strano e di raffinato che ispira paura e rispetto”. Il libro è di quelli a cui ritornare sempre, come tutta la sua opera. S’ingoia come una fiammata di verità che brucia il cuore degli utopisti di ogni riva. L’eleganza delle sue metafore ci porta al margine dell’esistenza e applica a se medesimo il trattamento dei “poeti maledetti” e senza lettori che si richiamano all’epifania dell’uomo libero in tutte le stagioni della storia. Come tutti gli inclassificabili del disinganno evita la predica e parla la lingua delle idee, dove non è permesso a chicchessia di essere sovrano in qualsiasi campo della bellezza e della felicità.
Lo scetticismo che attraversa il libro di Cioran non è però un cammino di perdizione né una classificazione dei destini spezzati, è invece un patrimonio di osservazioni sul mondo visitate dalla grazia di un fuori gioco. Per Cioran occorre essere un po’ angeli e un po’ idioti per non cadere nel fetore delle “grandi verità” dei potenti e nulla eguaglia l’oblio di sé di fronte alla repellenza dei luoghi comuni. Per lui i farabutti da rimpiangere sono coloro che conservano l’ebbrezza degli spiriti liberi anche nella caduta. Le vittime dell’inganno universale sono tutti coloro che hanno perduto la magia di sognare.
5 volte marzo 2008