“Me ne infischio di fare dell’arte. Significa rinunciare a molto. È una posizione morale e posso arrivare a dire – se mi permettete di usare questa parola – eroica. Istintivamente, ogni uomo cerca di rendersi illustre. Quanto a me, non cerco di rendermi illustre ma di diventare utile”.
Roberto Rossellini (Luglio 1963)
Primo tempo. Il baraccone circense hollywoodiano che, come sappiamo, è un’attrazione per iloti della civiltà dello spettacolo… ogni tanto ci prova a fare dei remake di successi al box-office e così, di volta in volta, rastrella film che ancora sono affastellati nell’inconscio sociale e li riproduce nella speranza che la nuova merce rinnovi i medesimi fasti economici.
Difficilmente i remake sono migliori dei film che “copiano” e non sempre i film originari sono così grandi quanto ne hanno scritto storici del cinema… come I magnifici sette (1960) di John Sturges, abile artigiano del cinema western, autore tra l’altro di Sfida all’O.K. Corral (1957), Sfida nella città morta (1958), Joe Kidd (1972)… tutta roba di una certa qualità espressiva…
I magnifici sette è il suo film più blasonato (non il migliore)… un prodotto intelligente, confezionato (liberamente ispirato, dicono quelli che scrivono bene), cioè copiato, dal grande film di Akira Kurosawa, I sette samurai (1954). Ci sono i poveri contadini che vogliono libe-rarsi delle violenze dei bandidos che li tengono a catena… ingaggiano sette magnifici pistoleri che sconfiggono i cattivi… moriranno molti peones e quattro pistoleri… dei tre superstiti due, Chris e Vin, riprenderanno il loro cammino e il più giovane di loro, Chico, mezzosangue messicano, rimarrà nel villaggio per amore di una ragazza del posto… la musica potente e ridondante di Elmer Bernstein è smielata su tutta la pellicola e il succo è: la felicità dei poveri sta nelle pistole fumanti di un gruppo di spostati dall’animo buono e che in fondo credono nell’ordine costituito.
La scelta degli interpreti de I magnifici sette impacchetta il film nel fascino dell’uomo forte e dal cuore d’oro… Yul Brynner, Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn, specialmente… Brad Dexter, Robert Vaughn e Horst Buchholz (completamente fuori ruolo) sono piuttosto marginali… Eli Wallach, nella parte di Calvera, capo dei bandidos, è come sempre attore di pregio. Brynner, impeccabilmente in nero, chiude I magnifici sette con la frase (di Akira Kurosawa): «Ancora una volta hanno vinto i contadini. Noi abbiamo perso. Noi perdiamo sempre». Che proprio non sembra far parte del sogno americano.
Naturalmente il successo planetario del film di Sturges ha provocato diversi sequel — Il ritorno dei magnifici sette (1966) di Burt Kennedy; Le pistole dei magnifici sette (1969) di Paul Wendkos; I magnifici sette cavalcano ancora (1972) di George McCowan e una sorta di rifacimento fantascientifico, I magnifici sette nello spazio (1980) di Jimmy T. Murakami (e Roger Corman, non accreditato)… la serie televisiva I magnifici sette (1998-2000) non poteva certo mancare in quest’epoca di rincitrulliti telematici —, schiude un’epopea del bene contro il male tutta hollywoodiana, il che vuol dire che la società dello spettacolo è servita! “Lo spettacolo — ci ricorda Guy Debord — non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone mediato dalle immagini”. Il cinema si presenta contemporaneamente come riproduzione spettacolare dell’intera società e strumento affinato di domesticazione sociale.
Secondo tempo. I magnifici sette (2016) di Antoine Fuqua. Siccome non vogliamo durare troppo fatica a raccontare la storietta del film, riportiamo quella canonizzata da Wikipedia: “1879, California. Il piccolo villaggio di Rose Creek è perseguitato dai sicari agli ordini di Bartholomew Bogue, un affarista spietato e senza scrupoli che intende cacciare gli abitanti della cittadina per poterne sfruttare la vicina miniera d’oro. Quando Bogue arriva ad incendiare la chiesa e massacrare alcuni abitanti per dare una lezione al resto dei coloni, minacciando di trucidarli tutti se non gli venderanno i loro appezzamenti di terreno per pochi spiccioli, gli abitanti di Rose Creek decidono infine di ribellarsi.
La giovane vedova Emma Cullen si avventura quindi negli altri villaggi della frontiera alla ricerca di pistoleros da assoldare per proteggere Rose Creek dall’esercito di Bogue, ed i suoi sforzi vengono a poco a poco premiati dal reclutamento di sette mercenari: il veterano della guerra di secessione Goodnight Robicheaux, il suo assistente cinese Billy Rocks, il ricercato messicano Vasquez, il comanche Red Harvest, l’ex cacciatore di indiani ed esploratore Jack Horne, il giocatore d’azzardo Josh Faraday e il loro leader, il cacciatore di taglie Sam Sam Chisolm, che ha un conto aperto con Bogue e aspira a vendicarsi.
Tornati a Rose Creek, i sette mercenari addestrano gli abitanti all’uso dei fucili, oltre a trasformare il villaggio in una piccola fortezza provvista di trappole, trincee e barriere improvvisate; così, quando giunge il momento della battaglia, a poco a poco l’esercito perso-nale raccolto da Bogue viene massacrato, anche se ciò costerà la vita, oltre che a molti coloni, anche a quattro dei sette pistoleros”. Le croci dei quattro pistoleros morti in difesa dei cittadini di Rose Creek (della sepoltura si era occupato il buon pastore, come aveva promesso a Chisolm) riposano sulla collina che sovrasta la città, stagliate contro un cielo rosato, sacralizzate da un frammento della musica de I magnifici sette di Sturges.
Merda! porcaccio di un boia ladro! Alle fogne tutti! ma davvero qualcuno ha potuto vedere un western in un lungo videoclip, nemmeno ben fatto, più vicino alla pubblicità della Pirelli (per la quale Fuqua ha girato The Call, con Naomi Campbell e John Malkovich) che all’epopea della frontiera americana tante volte rivisitata (non sempre con in maniera veridica o “giusta”) da autentici poeti del genere, a partire da Edwin S. Potter (1903) e passando per John Ford, Anthony Mann, Howard Hawks, Raoul Walsh, William Wellman, King Vidor, Delmer Daves, Fred Zinneman, Robert Aldrich, Nicholas Ray, Samuel Fuller, Arthur Penn, Sam Peckinpah? (lasciamo perdere gli spaghetti-western all’italiana… cosette senza garbo né valore estetico né etico)… il Western è l’uomo senza dio né patria, il vestito che indossa, la pistola, il Winchester e un cavallo. “Dio creò gli uomini diversi, Samuel Colt li rese uguali”, Calamity Jane, diceva. Tutto qui.
I magnifici sette di Fuqua si situa tra il cinema bulimico di Sergio Leone e quello raffazzonato di Quentin Tarantino (due bravi ragazzi che hanno contrabbandato l’ovvio e l’ottuso al posto del Cinematografo… il successo, il consenso o la celebrazione di ciechi e sordomuti della critica e del vasto pubblico non poteva mancare)… e qui sarebbe chiusa la lettura critica. Ma siccome ci piace il Western (fin da quando eravamo ragazzi di strada e tiravamo i sassi contro la celere di Scelba, schierati dalla parte degli operai in sciopero), vediamo di capirci qualcosa. Fuqua, consapevole che non era possibile rifare il film di Sturges… mescola un po’ le parti…(c’è il comanche, il veterano di guerra di secessione e il suo amico/assistente cinese, il cacciatore d’indiani, il giocatore d’azzardo e il cacciatore di taglie, nero)… la presenza della bella vedova che uccide lo spietato padrone delle miniere d’oro (com’è d’obbligo, in una chiesa, davanti alla croce), impacchetta il film nell’eroismo al femminile, così, tanto per un eccesso di lirismo che mette tutti d’accordo, spettatori, critica e il botteghino. Lungo i secoli i moralisti si sono sempre trovati dietro il plotone di esecuzione. I ribelli di fronte. Ma questa è un’altra storia.
I magnifici sette, dicevamo, è un prodotto mediocre… girato male e interpretato peggio… le inquadrature di Fuqua sono debordanti, le citazioni di Ford, Sturges o di Balla coi lupi (altro brutto film) inaccettabili… il regista sembra non accorgersi delle esagerazioni figurative e le pistole luccicanti sono accessori da supermercato. La sceneggiatura di Richard Wenk e Nic Pizzolatto si dilata in quadretti edificanti dei buoni e in quelli feroci dei cattivi… senza tuttavia entrare mai nelle pieghe strutturali della vita quotidiana che ne consegue. I dialoghi sono da fotoromanzo, niente più. Il montaggio di John Refoua è a tratti lento, descrittivo, altre volte (nella battaglia finale), furbescamente corto. C’entra poco con l’elegia del western. Gli interpreti, presi nel mazzo, non restano negli occhi, non bucano lo schermo, rimangono distanti dall’ironia libertaria o banditesca che avrebbero dovuto assumere… il padrone delle miniere è caricaturale, uno spauracchio da serie televisiva. La vedova con le palle (dice lei nel film) incanta tutti… usa il fucile come lo sguardo e il corpo, ma alla maniera di un’indossatrice vestita Armani (solo un po’ sporcata). La musica di James Roy Horner e Simon Franglen cerca di imitare, senza mai avvicinarsi, a quella scritta da Elmer Bernstein per il film di Sturges… ci sono dei momenti in cui è appiccicata alle sequenze solo per compiacere le anime sensibili di spettatori abituati ad ascoltare i borghesucci Beatles senza mettere i tappi nelle orecchia. The end.
A ritroso. Nel cinema (e in qualsiasi forma d’arte), i filosofi di genio (John Ford e le sue contraddizioni) ebbero il gusto della provocazione, del dissidio, dell’indignazione… anche se alla dignità dello scandalo che producevano succedeva l’anatema dei potenti o degli imbecilli… l’intensità, l’eloquenza, la passione disperse nelle loro opere delegittimavano l’ingiustizia e si assumevano il compito di figurare un’epoca del disinganno… disorientavano i detrattori e gli ammiratori, ridicolizzavano gli esteti smarriti dei governi… interrogavano la disonestà del fanatismo con la meravigliosa impertinenza affabulativa dei fuori gioco… conobbero la sventura di essere capiti o incompresi! Non erano portati per solleticare l’intimità dei salotti della sinistra né dei boccascena di ogni potere… nemmeno le formule acide delle preghiere erano considerate… i loro film hanno cantato il coraggio degli ultimi, dei forti, del singolo senza padroni né preti… che si fa cavaliere della propria utopia e impara a vivere come a morire con le armi in mano.
Non importa ricordare i personaggi-western interpretati da John Wayne, James Stewart, Clark Gable, Alan Ladd, Joel McCrea, Randolph Scott, Gary Cooper, Henry Fonda, Burt Lancaster, Kirk Douglas, William Holden, Robert Ryan, Lee Marvin, Marlon Brando, Paul Newman, Robert Redford, Clint Eastwood… per comprendere che ogni forma d’intelligenza belligerante è la qualità della sua figurazione (quando le star sono al servizio di “buone mani”, luccicano di “nuova luce”)… un uomo del West si arricchisce di tutto quanto lo rende libero e la sua avventura per l’esistenza consiste nell’esplorare, affrontare, rivelare altre possibili realtà… il suo errare è sempre al limitare della prateria o a fianco degli indiani ribelli ed entra in città per riportare la giustizia dove è stata calpestata, poi monta a cavallo e sparisce laggiù dove la prateria diventa cielo e il cielo rêverie di un’infanzia intramontabile.
La macchina/cinema non realizza la filosofia libertaria della sua poetica maledetta, filosofizza la realtà e degrada la verità nell’universo speculativo della merce soltanto… i film sono corrispondenti a una fabbricazione concreta dell’alienazione e il linguaggio spettacolare che gronda dagli schermi del mondo, modifica percezioni, comportamenti, bisogni… traduce i caratteri fondamentali dei mercati globali che escludono la realtà… è il momento in cui la merce perviene all’occupazione della vita sociale e costituisce il ponte/specchio tra l’economia dominante e la cultura del dominio… la macchina/cinema è l’illusione effettivamente “realizzata” e lo spettacolo la sua manifestazione come pseudo-uso della vita. Buona visione.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 4 volte ottobre 2016.