“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”
Guy Debord
Nei sommari di decomposizione del cinema parassitario s’intrecciano filosofia del mercato e prostituzione dell’arte… finanzieri, criminali e cineasti hanno diverse cose in comune… la frivolezza del gusto, la banalità del prodotto e il miscuglio indecente che intreccia superficialità e apocalisse a favore incondizionato del botteghino… il cinema delle larve predica il proprio decesso nella merce che circuita e la ricostruzione del paradiso si accompagna a contraffazioni ed eccessi espressivi riscaldati all’ombra gelida dei mercati… trasforma un film in dio o nel diavolo: i conseguenti incassi o premi saranno incalcolabili. Mettete i film al loro posto: vedrete il mattatoio delle immagini e l’epifania di rendere ancora più vergognosa la vergogna del potere.
Al tempo del capitalismo parassitario le crisi finanziarie e i gemiti delle vittime affogano nei deliri delle merci e ogni politica istituzionale riflette il genocidio del quale è stata complice ed esecutrice. Il fatto è che ogni Stato esercita una forma di terrore, tanto più spaventosa quando ne sono fautori i “puri” (specie della sinistra al caviale)… il popolo lo prende nel culo attraverso la farsa elettorale che decreta il potere in poche mani e legifera corruzioni, mafie, affari sporchi e lo stato di polizia. Nel surrogato delle schede elettorali c’è un’umanità minata alle proprie radici… i popoli hanno adorato soltanto coloro che l’hanno tenuti a catena. La vita è intollerabile se non per il grado d’indignazione e incitamento alla rivolta che vi si mette!
Il cinema parassitario (come tutte le forme di comunicazione) si erge su un universo privo di qualificazioni e il successo o il consenso che lo suscita è anche ciò che lo divora. Al tempo dell’imperialismo rampante, il cinema è parte integrante del capitalismo parassitario: “Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l’ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza” (Zygmunt Bauman)1. Sotto questo cielo (sistema fluido) si può morire strozzati da una cravatta griffata o per un cattivo film da Oscar o per rapacità finanziarie orchestrate in un paio di fragili torri di cristallo.
Uno dei più acclamati “maestri” del cinema parassitario (amato dalla critica e acclamato dal pubblico di tutto il mondo) è Quentin Tarantino… dopo una serie di film furbi, che riflettono una masseria di strutture estetiche di secondo piano… più ancora, che figurano la superba inutilità di un fare-cinema che fa dello spettacolo il risultato e il progetto della macchina delle illusioni hollywoodiana. L’immaginario fondamentalmente tautologico dello spettacolo deriva dal semplice fatto che i suoi mezzi sono al tempo stesso il suo scopo: “Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza” (Guy Debord) 2. In questo senso il cinema spettacolare di Tarantino (di Spielberg, De Palma, Scor-sese, Ferrara, per dire dei migliori…) invita a sognare nei mari convertiti del mercantilismo, dove nessuno annega e tutti sono complici dei traboccamenti economici che investono le guerre o il cinema alla medesima maniera: il successo tormenta soltanto i santi, gli assassini e i poeti senza talento… nelle farmacie dell’infelicità si respira il clima astratto di quanto ha guadagnato l’ultimo film… il cinema parassitario è l’ultima immagine di una civiltà che si spegne.
Di The Hateful Eight . Del film di Tarantino qualcuno scrive che è una “pièce western che concilia autorialità e blockbuster e prosegue il processo di politicizzazione del grande cinema di Tarantino” (Grazia Gandolfi). Una cazzata! di quelle grosse! Puttana la miseria! nemmeno un cretino può vedere in un film quello che non c’è! Tarantino non concilia un cazzo di nulla! Non sa nemmeno cosa voglia dire “processo di politicizzazione” dentro e oltre il cinema (alla maniera di Jean Vigo, Luis Buñuel, Glauber Rocha, Jean-Luc Godard, Jean-Marie Straub, Derek Jarman, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi o Tariq Teguia)… in The Hateful Eight (e nel suo cinema fatto e quello da fare) mira al consenso degli dèi (non solo) della celluloide… giacché non vi è nulla di più banale e di più terribile del fatto che un film non è solo un film ma la costruzione forzata di una felicità deposta in formalismi inutili. Nel fasto cinismo a buon mercato di The Hateful Eight la filosofia da mattatoio di Tarantino è concepita altrettanto male della fabbrica dei sogni che la suscita. L’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della sua stessa attività incosciente) si riconosce nei parametri della domesticazione sociale e rappresenta un mondo ed è del tutto estraneo al mondo.
The Hateful Eight si dipana in sei capitoli e si apre con una diligenza che corre nelle nevi sconfinate dello Wyoming (Ombre rosse di John Ford è solo una disperata imitazione). La diligenza ospita poco a poco quattro persone: un cacciatore di taglie, ex maggiore nero dell’esercito unionista, Marquis Warren (Samuel L. Jackson), John Ruth (Kurt Russell), “il boia”, che porta l’assassina Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) a Red Rock per essere impiccata, un rinnegato sudista che dice di essere il nuovo sceriffo di Red Rock, Chris Mannix (Walton Goggins). I dialoghi tra Mannix e Warren sono a dire poco senza inventiva, prolissi e perfino stupidi… alcune sequenze degli spazi nevosi, insieme alla musica aggraziata di Ennio Morricone, smielata dall’inizio alla fine del film, lasciano sospettare (per poco) che siamo capitati in un western e non in un horror truccato da western.
La seconda parte di The Hateful Eight è raccontata nello spazio dell’emporio di Minnie (Dana Gourrier)… la diligenza si ferma per sfuggire a una tempesta di neve e nel rifugio ci sono altre quattro persone… un messicano, Bob (Demián Bichir), un ex generale confederato, Sanford Smithers (Bruce Dern), un cowboy, Joe Gage (Michael Madsen) e il boia di Red Rock, Oswaldo Mobray (Tim Roth). Il film si tinge di giallo (Agatha Christie c’entra nulla)… su moduli architetturali piuttosto maldestri… interrogazioni, documenti, mandati, lettere… passano di mano in mano insieme alle tazze di caffè e bicchieri di cognac… sceriffi, cacciatori di taglie, burocrati dalla parola facile, ex soldati smarriti, bianchi, neri, messicani, confederati e unionisti si sparano gli uni contro gli altri… e il piatto è servito. Anche la vendetta non tarda a venire, naturalmente servita sempre in maniera del tutto spettacolare.
Tutto si svolge attorno a Samuel J. Jackson, che domina la parola come le pistole. L’intrigo assume l’atmosfera di un’istruttoria, di un tribunale evanescente dove si parla di impiccagioni, omicidi legali, legittime difese, legiferazione della violenza come giustizia del più forte… al cospetto del Cristo seppellito nella neve, sul quale Tarantino apre il film e indugia fino alla noia abissale, nessuno di questi ceffi da galera merita la vita. La messa in scena tarantiniana è stupefacente, quanto artificiosa, per non dire cretina! Gli otto squilibrati sono parte di un gioco giocato sul filo del paradosso che sfocia nel risibile. Il notevole stuolo di attori, alcuni al loro meglio (Tim Roth, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Bruce Dern), eccetto Samuel L. Jackson, che gigioneggia come non mai e porta il film nel caricaturale, si mescolano alle sparatorie e ai morti che schizzano dappertutto, la barbarie dell’impiccagione chiude il film in maniera macabra, quasi a ricordare che nessuno può correggere l’ingiustizia di Dio e della Colt.
Tarantino firma il soggetto, la sceneggiatura e la regia di The Hateful Eight… le autocitazioni, le ripetizioni, le ossessività sanguinolente sono copiose… spesso a sproposito… nemmeno efficaci da mostrare la decadenza di dèi, miti o simulacri che dice di deporre… il senso dell’assurdo sposta il film nel verminaio del risibile, dove ogni franchezza autoriale diventa indecente. Tarantino sembra non sapere che la psicologia della violenza è la tomba degli eroi. I martiri sono stati inventati per dare lustro al fondo di barbarie che si mantiene attraverso i secoli, per coprire le inclinazioni omicide di santi che vogliono ergersi a memoria delle future generazioni.
La fotografia di Robert Richardson affabula una colorazione spenta, marrone/verde (in interni) e opposta al biancore della neve (in esterni) da un forte segno figurativo al film… insieme alla scenografia di Yohei Taneda e ai costumi di Courtney Hoffman ci sembrano essere la parte più riuscita di The Hateful Eight. Incensano la retorica della frontiera americana dalla parte del peggio, ma in qualche modo restituiscono le aggettivazioni e il disinganno di uomini che non avevano nessun bisogno di credere a una verità per sostenerla, né amare un tempo di belle carogne per giustificarlo.
La macchina da presa di Tarantino indugia molto sul carnaio di morti ammazzati, lascia trasparire una scrittura cinematografica che affonda nell’insignificanza e con la musica di Morricone (insignita con il Premio Oscar 2016) concorrono alla caduta di una voluttà espressiva da circo a tre piste. Lo schermo di The Hateful Eight si riempie di qualificazioni, l’oggetto diventa nudo, impuro e scemo tanto da sprofondare nel marcitoio delle certezze… l’irrompere dell’entusiasmo estetico suscita ciò che lo ingoia e, come sappiamo, l’entusiasmo è la filosofia degli stolti.
Di là dall’attorialità degli interpreti principali, al limite dello snobismo, gli otto bastardi di Tarantino seguono il cammino inverso della cosmogonia del caos che aspirano a figurare… i 167 minuti in digitale (nella versione 70mm sono 187) incastrano una catenaria di siparietti elementari che poco o nulla hanno a che vedere con il western più autorevole, non diciamo dei grandi (John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh, William Wellman, King Vidor), ma nemmeno con i solidi autori di western come Budd Boetticher, Antony Mann, Burt Kennedy, Allan Dwan, Delmer Daves, John Sturges, fino alle nuove rivisitazioni del western di Robert Aldrich, Nicholas Ray, Samuel Fuller o Sam Peckinpah. Va detto. Il western è un genere di profonda contraddizione… molti film hanno giustificato malamente il genocidio degli india-ni d’America, altri la corruzione dei governi e la speculazione degli affaristi della civiltà mo-derna, tuttavia in ciascuno si riflette la forza del singolo, della comunità, dell’amore di fronte al sopruso e, più ancora, l’incessante ricerca della felicità.
I piccoli artigiani compiano, i grandi poeti rubano, diceva… Tarantino non sa rubare e copia anche male… tutto il suo fare-cinema è deposto nel cinema del passato con l’ambizione di rifare la storia del cinema… tutto falso… il cinismo non s’impara al cinema e nemmeno la fierezza, s’impara nella strada e sotto l’impostura del genio compreso si cela sempre un millantatore o un demente. Solo i politici, i preti e i criminali rilasciano certificati di inesistenza… ogni profeta promette tutto, specie quando la mancanza di genialità nell’arte corrisponde la totale banalizzazione della vita. All’infuori della distruzione del cinema parassitario (come del sistema che lo produce), tutte le iniziative sono egualmente senza valore… tutte le verità del cinema cominciano con un conflitto contro l’autorità e finiscono col farsi sostenere da essa: la bellezza, non solo del cinema, fiorisce soltanto nelle epoche in cui ogni forma d’arte non può che essere critica radicale della società. Alla maniera del Bardo: “Ho gentiluomini, la vita è breve… Se viviamo, viviamo per camminare sulla testa dei re”. La falsità calpesta la conoscenza, la conoscenza ridestata uccide l’alienazione che l’aveva relegata nell’arroganza di ogni potere.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 2 volte maggio, 2016
1 Zygmunt Bauman, Il capitalismo parassitario, Laterza 2001
2 Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979