di Pino Bertelli, 2005 (con scritti di Fernanda Pivano, Paola Grillo, Claudio Marra, Arturo Carlo Quintavalle).
… a Matteo che è andato a giocare con gli angeli, là dove finisce il mare e comincia il cielo
Pino Bertelli rende liberamente disponibile questo libro su Traccedizioni.
Pubblicazione a cura dell’Associazione Culturale Compagnia degli Angeli del Non-Dove
Edizioni: Tracce
Lettera dal Burkina Faso sulla fotografia della bellezza
Pino Bertelli, Fotografo
Davanti al dolore degli altri è difficile sorridere, com’è difficile piangere. La crudeltà della civiltà dello spettacolo è straziante e cercare una ragione per esistere al di fuori dei consumatori di violenze o mercanti d’armi è difficile quanto cercare un uomo onesto in parlamento. Crediamo ad una forma di “ecologia delle immagini” (Susan Sontag), una sorta di “fotografia randagia” che si schiera dalla parte degli oppressi e contro gli oppressori. Non ci interessano le iconografie della compassione né i sudari della povertà… sappiamo che la ricchezza di pochi implica l’indigenza di molti. E nessuno può dire che il mondo non va così. Le guerre coloniali, le guerre del petrolio, le guerre di religione… sono lì a ricordare all’umanità che ad Auschwitz, mentre si assassinavano milioni di persone, gli aguzzini si facevano suonare Schubert prima di cena e nel resto del pianeta impazzava il Boogie-Woogie di Glenn Miller. L’era atomica inaugurata da Hiroshima, annunciava nuovi presagi di bruttezza dell’umanità.
La terribilità, come l’indifferenza, sono alla base d’ogni genocidio accettato. La guerra tecnologica è entrata nelle case e l’idea di onnipotenza dei paesi ricchi è divenuta planetaria.
E Dio, dov’è il buon Dio? Si chiedeva il filosofo ebreo Elie Wiesel di fronte al bambino impiccato nel campo di sterminio di Auschwitz: “Più di una mezz’ora restò così, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”… nessun uomo è un isola e se “il ricco o è un ladro o un erede di un ladro” (diceva già nel IV secolo il vescovo Basilio), educazione liberatrice, solidarietà comunitaria e dialogo interculturale significano responsabilità di ciascuno verso l’intera rete sociale. La scrittura fotografica della bellezza non sempre è parte del giogo del mercimonio e qualche volta essere pionieri incompresi non comporta solo raccogliere gli sputi ma anche i sorrisi traditi dei bambini che muoiono per fame ai quattro venti della terra. Nessuno può comprare un sorriso. La sola epopea che ci commuove è quella dei frà Dolcino, dei Camilo Torres o dei “Che” Guevara… che hanno liberato l’utopia nel quotidiano e sognato un’umanità libera come un passero in cielo. È deplorevole per gli impoveriti della terra che le guerre sono sempre state fatte da gente che la guerra non ha ammazzato, diceva. Il pensiero dei fanatici d’ogni religione ci fa paura, quanto la cupidigia esposta nell’economia politica che sta al fondo dei mercati mondiali dell’apparenza. La società dello spettacolo imprigiona, è l’amore dell’uomo per l’uomo che ci rende liberi.
Un mondo differente è possibile.
La fotografia, quando è grande, esprime il ritratto di un’epoca. Non evoca nulla. Mostra una parte per il tutto. Questa teoria di “desacralizzazione del segno” non è nuova. Goya, Van Gogh o Caravaggio l’hanno disseminata nella pittura di corte quanto in quella plebea da bordelli… Vigo, Buñuel, Rocha o Pasolini hanno cosparso le loro opere d’insorgenze ereticali e minato alla base le mitologie di domesticazione sociale della macchina/cinema… Hine, Sander, Vishniac o la Arbus hanno magnificato la “disobbedienza civile” in fotografia e alla maniera dei “maestri carbonari” si sono fatti filosofi dell’interrogazione non sospetta. In ogni forma d’arte ciò che è importante è fare una scelta, elaborare una sintesi, escludere l’inutile e il troppo facile.
Si tratta di tagliare le fronde dell’opulenza descrittiva per lavorare nel rizoma del segno rovesciato. Dietro ogni grande fotografia c’è un criminale o un poeta.
La fotografia in forma di poesia, non registra la realtà, la interpreta. La fotografia della bellezza non corteggia la morte, anzi denuncia la cultura del disastro della quale è icona adorante e adorata. L’estetica del terrore poggia sull’ordinaria amministrazione di un esistente banalizzato. È la morale spicciola degli affari sporchi e dei terrorismi di ordinaria follia. Il ritorno alla ragione significa ritrovare l’innocenza perduta e lavorare affinché le Utopie si trasformino in “topie”, ovvero in cammini possibili per la conquista di un’umanità più giusta e più umana.
L’iconografia della bellezza si fonda sulla visione utopica della libertà. La fotografia così fatta, assume su di sé la responsabilità per l’altro. È mettere l’altro al centro della propria attenzione. La libertà, come la bellezza, non si dà, si conquista. Nessuno uomo è veramente libero di godere della bellezza se da qualche parte della terra altri esseri umani sono privati della libertà.
Dove c’è lo spirito d’amore dell’uomo per gli altri uomini, lì c’è la bellezza della libertà.
L’amore per la libertà e per la bellezza è un cammino, un segno, un sogno… la schiavitù non ha mai avuto fine (con la rivolta di Haiti nel 1791)… gli schiavi continuano a servire e ancora oggi sono una parte enorme della forza lavoro dei senza-diritti nei Sud della terra. Una società libera e aperta non calpesta i diritti più elementari dell’uomo, anzi riafferma che ciascun individuo deve avere uguale diritto e uguali libertà dell’intera comunità. Quando il filosofo impugna il coltello è consapevole di rappresentare una minaccia per l’ordine oppressivo… ma è ancora più pericoloso quando semina amore, rispetto, dignità e si fa giardiniere di anime.
La vita buona nasce dal lievito della conoscenza, diceva. Lo stupore e la meraviglia sono le stelle comete sulle quali andare a cavalluccio lungo la Via Maestra della solidarietà, della fraternità, dell’accoglienza del diverso da sé e rompere il disamore, la predazione e il genocidio di una società dello spettacolo che non merita essere difesa, ma combattuta. Chi (come noi) è di nessuna chiesa, non si ritrova nemmeno in una congrega di miscredenti e la sola bellezza e libertà che ama fino a morirne là, al limitare del bosco, è la vita sognata degli angeli del non-dove.
Gorom-Gorom 15 volte gennaio 2005 — Piombino 26 volte settembre 2005