





« — Sono venuto per farti domande, disse il discepolo.
— Da parte mia non aspettarti nessun insegnamento, rispose il maestro.
Abbiamo avuto la stessa luce da condividere: è questo il nostro povero sapere.
— Devo dunque abbandonarti così presto?, disse il discepolo.
Pazienza, rispose il maestro. Farò del mio meglio per darti una mano.
T’insegnerò poco alla volta a disimparare ».
Edmond Jabès
Sulla fotografia-madeleine. La fotografia che non possiede il proprio rogo segreto, non vale nulla… poiché chi dimostra non mostra nulla del proprio sentire… l’intuizione dell’istante getta un’immagine nel mondo e aderisce alla poetica dell’amore che la sottende… non ha bisogno di vedere per sognare… è un linguaggio prometeico/dionisiaco che ruba la sapienza agli dèi per donarla agli uomini… è un’affabulazione del disincanto che apre gli occhi sulla realtà della vita, è un atto di coscienza che alimenta o uccide l’uomo in Dio o Dio nell’uomo… la farsa crolla… la presenza e il mistero dell’Apocalisse (il libro più serio della Bibbia), del resto, contengono significati mirabili e i beati che leggeranno questa profezia e metteranno in pratica le cose che vi sono scritte, scopriranno una Terra di pace e d’amore universale (la Chiesa di Roma ascolti!)… non è un caso se qualcuno dice che bisogna risalire all’Apocalisse di S. Giovanni per comprendere il malessere dell’epoca attuale1… quando l’immagine s’illumina di poesia, risplende nella singolarità del vero e si sversa in un’estetica/etica dell’umano.
Ogni componimento poetico-fotografico di un certo lignaggio è nell’aforisma di Friedrich Nietzsche, Poeta e Uccello: «La Fenice mostrò al poeta un rotolo incandescente che si carbonizzava. “Non aver paura”, disse “è la tua opera! Essa non contiene lo spirito del tempo e ancor meno lo spirito di coloro che sono contro il tempo: di conseguenza dev’essere bruciata. Ma questo è un buon segno: Ci sono molte specie di amore»2. Occorre conoscere per immaginare e disimparare tutto ciò che s’era imparato per sognare le acque vive della passione… il canto originario del prodigio che porta in sé la malinconia di chi ama senza nulla chiedere in cambio che il medesimo amore per la vita.
La poetica dell’immagine di Mia Lecomte è sorprendente… è una ricerca di confluenze tra poesia e immagine e, in maniera esteticamente asciutta, invita il linguaggio a superarsi… lavora su istanti metaforici in cui l’immagine crea l’umano… e poiché l’inconscio si esprime per immagini, Henri Corbin, diceva3… ma a queste immagini dei miti, delle leggende, dei sogni, l’uomo alienato della società contemporanea ha guardato sempre meno… occorre ritrovare la vitalità d’una cultura del Sé e sviluppare la propria personalità oltre i fuggevoli o protervi fantasmi dei padri e delle madri, Carl Gustav Jung, sosteneva4… imparare a pensare significa capire che la fotografia è una simulazione o l’umano troppo umano che trasforma il compreso nell’incompreso, il troppo facile nel distacco da tutte le verità sino ad allora credute, Nietzsche, ancora… allora è il bello, come rivelazione del bene, del giusto, del vero… si manifesta in ogni forma del comunicare che si può chiamare, d’arte.
Mia Lecomte nasce a Milano nel 1966. Dicono le sue carte: «Poetessa e scrittrice di nazionalità francese e di lingua italiana che risiede in Svizzera. Tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano: la silloge poetica Lettere da dove (InternoPoesia, 2022) e il libro per bambini Gli spaesati/Les dépaysés (VerbaVolant, 2019). Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, pubblicate all’estero in raccolte, fra cui For the Maintenance of Landscape (Guernica, 2012) e Là où tu as ton corps (Apic, 2020. Prix Vénus Khoury Ghata 2021), e in numerose riviste e antologie. Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della letteratura transnazionale italofona, a cui ha dedicato alcune antologie e il saggio Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona. 1960-2016 (Franco Cesati, 2018). È redattrice del semestrale di poesia comparata Semicerchio, del periodico letterario indiano online The Antonym. Collabora all’edizione italiana de Le Monde Diplomatique. Nel 2017, con altri studiosi e scrittori attivi tra Francia e Italia, ha fondato l’agenzia letteraria transnazionale Linguafranca. È ideatrice e membro della Compagnia delle poete». Mia Lecomte è anche fotografa (mialecomte-ph)… lo diciamo subito… in molte delle sue immagini, bellezza e sincerità sono la medesima cosa… detto meglio… sono la coltivazione di un’idea di tenerezze evocative, dissigillate da una misura, un’armonia del gusto… a volte chiamano anche il sorriso, più spesso, infondono a riflettere sulla condizione umana.
Nello scritto autoriale di Massimiliano Damaggio su Mia Lecomte fotografa5… c’è già tutta la fecondità, la chiarezza, l’intimità del fare-fotografia di Mia… la sua fotografia, infatti, è legata alla sua scrittura e viceversa:
«In lei poesia e immagine sono entrambe risultato dello sguardo, del modo che ha di restituirlo allo sguardo del mondo […]. In Lecomte, la fotografia è ulteriore angolazione e lente d’ingrandimento. Non tanto su un “particolare”, ma su un “non particolare” di vuoto e assenza che la sua poesia spesso provoca quando la scrittura, improvvisa, brusca, si ferma, finisce, s’interrompe e chi legge sente chiaramente che dopo c’è qualcos’altro – che non è dato leggere. È la mancanza, le mancanze che la fotografia dell’autrice sembra cercare. L’inquadratura del “bianco” di cosa non è detto. Gli smottamenti di “nulla” fra i versi. Asciuttezza, assoluta assenza di foschia, nella fotografia come nella parola, per percepire tutto il detto, il non detto e il forse […]. Nelle fotografie, come nelle poesie di Lettere da dove – in particolare nella prima delle cinque sezioni in cui è suddiviso il libro – molto, se non tutto, è passato, è stato, è andato. Non è rimasto. Molto non è mai stato. Una stanza vuota piena di un letto vuoto. Una figura senza volto, a metà coperta da una tendina, dietro la finestra di una cucina. Una battaglia immobile fra soldatini a cavallo che corrono verso un nemico fuori dell’obiettivo. I segni lasciati sul muro da ciò che una volta potevano essere i gradini di una scala. La prospettiva glaciale di panni stessi su fili perfettamente paralleli, e un tavolo di fòrmica, e un grembiule viola attaccato al muro, vuoto, liscio, senza il minimo ricordo del corpo che l’ha indossato. Immobilità, “trattenersi” in un luogo e in un tempo dove ciò che non c’è più si fa “trattenere” in tutta la sua assenza […]. Poesia, fotografia, sguardo. Il momento in cui la luce penetra l’occhio e crea, ricrea, ricostruisce, mette a dimora un seme destinato a sbocciare quando sul bianco della pagina si apre e richiude l’obiettivo, e la forma si congela in un’immagine immobile, fotografica, e in una evanescente, scritta. Due pesci morti che nuotano insistentemente sul ghiaccio del bancone, gli occhi vivissimi, cristallo perfetto che ancora riflette, nella sua definitiva fissità, tutto il movimento che manca […] Come nelle immagini della Versilia a fine stagione, quando “sono andati via tutti” e regna un sentimento di sospensione a tempo determinato che solo i luoghi in “disuso” riescono a dare, dove anche il mare con le ombre dei bagnanti è già ricordo, anticipazione del ricordo. “Goloso anticipo della morte”, citando Carlo Bordini. È un’immagine bellissima, che Lecomte reitera spesso nella sua scrittura, nel suo fingere (sembra) di non essere l’unica rimasta, l’ultima a testimoniare la pensilina vuota dopo la partenza: chi desidera far parte del quadro, del ricordo, dell’assenza, e infine del vuoto che lei stessa ritrae. La voglia fortissima di non essere chi rimane […] Anche l’inquadratura fotografica, così come la parola, è rigorosa, precisa: un modo per avere sotto controllo tutta la scena, esaminarla e ricomporne le tessere sulla carta. Angolazione perfetta, geometrica, punto di fuga all’infinito, impalcatura essenziale delle cose, lessico scarno, colori algidi che tendono a sbiadire. Come il ricordo. Fotografia fredda, indagatrice, poesia frontale: un’eco di Ghirri e l’iperrealtà di una realtà imprigionata in momenti di impossibile immutabilità, poesia che non cede mai – o non vuole – alla carnalità di uno Jodice, ad esempio, dove la pietra della statua non è pietra ma altro […]».
C’è tanto vero della fotografia di Mia in ciò che dice Damaggio… non crediamo tuttavia che nelle immagini di Mia sopravviva la eco estetizzante di Ghirri e nemmeno la carnalità di Jodice… le fotoscritture di Mia non alzano lo sguardo sulla sfumatura colorata né scendono nella documentalità pittorica… sono piuttosto immagini-metafora di uno stato interiore, un’alba di coscienza che diffida dei discorsi, quanto delle immagini, e s’appoggia a canti inattuali che debordano dalle fotografie-madeleine…. un offertorio immaginale che si chiama fuori dalla tristezza della realtà: «Ciò che esiste non è mai altro che l’istante che viviamo. Non ne possiamo vivere altri. Ma in esso possiamo vivere estraneità e sorpresa, meraviglia e protesta, tutte cose che sono nello stesso tempo passato e futuro, riconoscimento e progetto» (Gaston Bachelard)6. Sì, le fotografie-madeleine di Mia evocano un colore, un sapore, un profumo del passato che si riversa nella percezione del presente, appeso a delicati filari d’istanti che ci conducono alla libertà di essere ciò che siamo.
In molta iconologia di Mia c’è il colore, il gesto, il profumo, financo il sapore delle Madeleine di Proust7 o la filosofia-libertaria di Alice che insegue Bianconiglio perché ha voglia di curiosità, di desideri, di canti d’amore… e la trova in quel Paese delle meraviglie dove incontra lo stupore dell’altro e la favola si trascolora in realtà8. La realtà sovrasta, supera, sbalordisce, ma è necessaria la fotografia per definirla. Fotografare è superare i limiti del proprio cosmo. Per conoscere l’immagine fotografica non basta aver letto qualche storia della fotografia… è necessario entrare profondamente in relazione con la cosa fotografata… la fotografia è insolente di fronte a un silenzio insolente che la degrada a merce. Non importa tanto fare la fotografia, quanto l’uso che nega la sua spettacolarità… la fotografia non pensa quel che sa… può pensare soltanto quel che ignora e la sua nudità sanguina d’ingombranti illuminazioni o di cattività indecenti. È impossibile meditare sulla fotografia da riviste di moda, senza provare nei suoi confronti una sorta di sarcastico orrore.
La rivoluzione della bellezza illuminata. “La bellezza salverà il mondo” (Fëdor Dostoevskij, diceva, con non poca salace ironia)9. Bellezza e giustizia sono la stessa cosa! E ogni forma d’arte dove non è presente la giustizia, è poca cosa o non è niente! La giustizia non è separabile dalla bellezza. La bellezza si vive, non si dimostra! È bello ciò che è rappresentato senza preclusioni e il vero è donato come piacere del disappunto. Non conosco nulla sulla Terra che abbia tanta bellezza (e possanza, e nobiltà, e amore) quanto un’immagine o una parola svincolata dalle abbacinazioni delle mode più o meno prezzolate della civiltà dello spettacolo… a volte ne faccio una di fotografie o infilo una collana di parole in sorrisi solitari e le guardo, a lungo, le immagini e le parole in libertà, lì, tra il confine della reminiscenza e l’incanto del pericolo, fino a quando non cominciano a splendere (da e con Emily Dickinson) di bellezza e di verità… e mi aiutano a respingere dappertutto l’infelicità.
Sulla fotografia in forma di poesia. La fotografia in forma di poesia “legge” ciò che è stato e “vede” quello che ha ascoltato… poiché l’immagine fotografica “scrive” ciò che la parola onora o crocifigge… ogni fotografia, come ogni poesia, è la scrittura di una vita… verità e bellezza s’abbeverano alla stessa fonte… la fotografia in forma di poesia fiorisce dietro i muri delle indifferenze, per coglierla, occorre rompere le gabbie delle convenzioni… la libertà della fotografia, tutta… vive fuori di sé… risiede nell’atto che ci fa liberi… non sei libero là dove di esponi al successo o al consenso… sei libero soltanto là dove ti opponi alle grossolalie della fotografia insegnata… per poter ghermire la poesia nella fotografia, occorre voltare le spalle al gazebo delle vanità.
Nel ventre delle fotografie di Mia ci sono graffiti del suo fare poesia… come scrive in maniera folgorante Ugo Fracassa, nella nota al libro di Mia, Lontano da dove: «al di là di ricostruzioni aneddotiche a sfondo biografico, l’indicazione è preziosa perché svela l’intima pulsione letterale della scrittura poetica di Mia Lecomte. Proprio laddove più surreale pare delinearsi lo scenario – “Il cervo sulle spalle / solca la neve con le corna / gigantesco il peso informe / non riesco a sollevarlo intero / strascica il muso una scia di sangue”–, c’è da scommettere su un’occasione, riconoscibile sebbene trasfigurata, nel vissuto dell’autrice. La stessa tendenza a orientare la scrittura verso modalità collaterali o periferiche rispetto al distillato della poesia[…] se è vero che al filo della memoria la poeta ha steso panni familiari, i panni della poesia non si lavano in famiglia. La famiglia dei lettori, infatti, si allarga ben oltre la cerchia dei congiunti. Ecco allora che poche scritture paiono esigere un lettore tanto quanto questa che, nel porgere la voce, mantiene qualcosa di puerile, una disponibilità cogente, un invito ineludibile: più incisivo del grido, più seducente del sussurro»10. Tutto vero. In seno alla sua incompiutezza, la fotografia aiuta tenere gli occhi aperti e quando è in forma di poesia ci permette di continuare a tenerli aperti.
C’è una sorta di filo rosso tra il fotografare di Mia e le sue poesie… e sembra avvertire che l’anima sta all’uomo come il dentifricio al tappo, mai perdere il tipo della propria anima: pena? La celebrità! Perché con l’anima Dio non c’entra, e nemmeno il Diavolo… come scriveva Edgar Lee Master, il poeta dei destini, sulla tomba di Fletcher McGee: «Mi prese la forza minuto per minuto,/mi prese la vita ora per ora,/mi risucchiò come una luna febbricitante/che frega il mondo nel suo gito./I giorni passarono come ombre,/i minuti rotarono come stelle./Mi prese dal cuore la pietà,/e la trasformò in sorrisi»11. Quando uno vede la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera Bellezza, mette le ali, Platone diceva… non c’è identità senza uno stile e uno stile presuppone padroneggiare il diverso… lo stile è un’unicità che frammenta, esplode e divide, Michel Onfray diceva… e porta alla creazione/scultura di sé12. La poetica dell’anima come liberazione di sé implica il dispendio e la profusione di un temperamento… una cartografia della presenza in cerca di una società prodiga.
Un luogo, una solitudine, una rêverie… possono essere momenti d’ispirazione feconda… Nietzsche, il dinamitardo di tutte le morali, diceva che in Engadina (Sils Maria) si sentiva di gran lunga meglio che in qualsiasi altro luogo sulla terra… e qui scrisse la prefazione di Al di là del bene e del male, dove afferma: «la lotta contro la secolare oppressione cristiano-ecclesiastica giacché il cristianesimo è un platonismo per il “popolo” ha creato in Europa una splendida tensione dello spirito come ancora non si era avuta sulla terra: con un arco teso a tal punto si può ormai prendere a bersaglio le mete più lontane. Indubbiamente, l’uomo europeo avverte questa tensione come una condizione penosa: e già due volte è stato fatto il tentativo in grande stile di allentare l’arco, la prima col gesuitismo, la seconda con l’illuminismo democratico come quello che, grazie all’aiuto della libertà di stampa e della lettura dei giornali, poteva arrivare realmente a far in modo che lo spirito non sentisse più così facilmente se stesso come “pena”! (I Tedeschi hanno inventato la polvere bravissimi! ma hanno anche, per altro verso, pareggiato il conto inventarono la stampa). Noi però, che non siamo né gesuiti, né democratici, e neppure abbastanza tedeschi, noi “buoni Europei”e spiriti liberi, “assai” liberi noi la sentiamo ancora, tutta la pena dello spirito e la tensione del suo arco! E forse anche la freccia, il compito, e chissà? la “meta”» (Sils-Maria, Alta Engadina, giugno 1885)13. Gli artisti contabili sono assoggettati all’approvazione… gli artisti autentici rimandano a orizzonti che non hanno ancora sconfinato nell’alburno della propria estetica trasversale… ogni pensatore del disinganno teme più di venir compreso che di venir frainteso (Nietzsche)… i Demoni di Fëdor Dostoevskij lo dicono: niente rinascimenti senza rivoluzioni dell’abisso14… Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin è il protagonista del libro di Dostoevskij, il solo tra i tanti “peccatori” che prende pienamente coscienza delle proprie azioni e si chiama fuori dalla vita… «muore impiccato, separato dal suolo, come avviene per Matrëša, perché […] nemmeno il male assoluto lo ha liberato dal suo profondissimo vuoto», scrive Dostoevskij. A ragione, il filosofo rumeno E.M. Cioran considerava I demoni «il più grande libro dell’Ottocento. Anche il più grande romanzo in assoluto. E Dostoevskij il più grande scrittore di tutti i tempi, il più profondo»15. Il senso del vuoto contiene anche quel grumo di pienezza che avvia a una sorta di liberazione… sciogliere l’individuo da tutto ciò che lo attanaglia a valori, codici, morali che gli uccidono lo spirito… quando si è veramente tagliato le catene con tutto, si è superiori a tutto. Creazione e ribellione sono un’unica e identica cosa.
Va detto. Del rizomario fotografico di Mia Lecomte… ci siamo avvicinati e affrancati a un certo numero di fotografie che crediamo importanti, in quanto vi abbiamo scorto filamenti di un linguaggio poetico/metaforico che testimonia una sottesa interrogazione della vita… immagini personali, quasi private, che dilatano i confini della parola… appunti di taccuino che inseguono lo sconcerto della fotografia come i bambini le farfalle col retino bucato… tasselli figurativi che rimandano a una filosofia dell’educazione o alla conoscenza naturale dell’essere umano come fratello/sorella in un mondo spesso sconnesso dalla persona come essere sociale, dallo spirito che conosce: «Poiché la libertà e l’essere cosciente costituiscono la personalità, il puro spirito è persona e, certamente, nella forma più elevata di personalità. — Il puro spirito è, dunque, persona, il suo modo di essere è attualità pura, in cui è racchiuso tutto ciò che troviamo negli esseri umani come “atti spirituali” limitati nel tempo e separati qualitativamente » (Edith Stein)16. La fotografia non sta là dove si glorifica, ma dove si libera dell’apparenza, della sottomissione e della confessione… bisogna amarla molto la fotografia, per volerla distruggere… la fotografia non è fotografia finché non ci ha bruciato di bellezza e di giustizia.
La scrittura fotografica di Mia è disseminata in forme, tagli, visioni “leggere”, ma ben incastonate nell’inquadratura… i richiami a un certo “realismo magico” (Chris McCaw, Harry Gruyaert, Fred Herzog o Joel Meyerowitz) espresso nei colori è presente, tuttavia lo sguardo di Mia non è mai proteso allo scoop giornalistico, anche quando fotografa un derelitto nella strada tra l’indifferenza delle gente e della polizia… il rimando all’immagine celebre di Meyerowitz non è casuale, tuttavia Mia resta più coinvolta nello scatto, non sembra badare all’inquadratura ma al soggetto fotografato… Meyerowitz coglie invece più il movimento della gente che non l’oggetto della fotografia… non si tratta che una fotografia sia più bella o riuscita dell’altra… vogliamo dire che l’immagine passa dove è passata l’idea… perché la commozione è senza difesa… là dove la fotografia è solo forma, il contenuto appassisce… il pensiero fotografico si compie sono nel pensiero che lo confuta nel suo valore d’uso. Fotografare non è convincere né costringere, né convertire né benedire… non ti stupire di aver qualche volta fotografato il sangue al bordo della strada, poiché l’universo è di vetro e il tuo cammino è disseminato di schegge che la luce riveste di mille colori riflessi… l’adulazione ha un retrogusto che mente, la riservatezza del vero è nella risonanza dei sogni disincarnati dalla realtà. Se la fotografia è Dio, la sua perfezione non può essere che nella sua negazione.
La fotografia in forma di poesia di Mia pensa, cerca, rovista in un fare-anima come immagineponte verso la conoscenza del Sé, la riscoperta dei bisogni innati, delle inclinazioni, delle vocazioni, anche se le condizioni esterne sembrano opporsi alla loro realizzazione, poiché tutti nasciamo con uno scopo: «la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta» (James Hillman)17. La fotografia imperante è protetta dalla fotografia consumerista e non va a lezioni di bellezza… la bellezza della fotografia è senza difese. La lingua degli affari che governa la fotografia non ha alcun potere sulla poesia della bellezza che non si sottopone ai suoi statuti… la fotografia della bellezza è più antica della sua legge, perché nessuno può comprare il sorriso di un bambino… il solo che la può comprendere senza i prontuari dei professori.
Nella fotografia in forma di poesia, come nel cinema in forma di poesia di Pier Paolo Pasolini, lo stile ha un valore primario… non cerca l’apparire, il clamore, l’assenso che eleva i personaggi, l’ambiente, la loro storia a marionette della sussistenza… nel cinema di poesia, il protagonista è lo stile… si sente la macchina da presa18… come John Ford, Orson Welles, Jean-Luc Godard, Luis Bunuel, Jean Vigo, Jean Renoir o John Cassavetes, ad esempio… ecco… la fotografia in forma di poesia fa a meno dell’ordinamento giudiziario… si esprime con tecniche semplici ed è in continuo contatto con tutto ciò che la circonda… la gente che passa, i loro volti, i loro gesti, i loro atti, i loro silenzi, le loro lacrime, le loro passioni, i loro sogni… come Lewis Hine, Jacob Riis, Ernest J. Bellocq, August Sander, William E. Smith, Diane Arbus, William Klein, Weegee, Brassaï… per fare qualche nome, insegnano… la fotografia in forma di poesia si rivolge al dizionario che ciascuno ha nella sua testa e, anche se imperfetto, inventa un linguaggio non convenzionale che corrisponde a una realtà visiva di un altro mondo sociale.
La fotografia graffiata dalla passionalità dei corpi, non è nei chiostri, né si lamenta dell’anonimia degli uomini o della loro caducità a volgere l’amore di sé e per l’altro fuori dalle coorti della solitudine o dell’amarezza o della dispersione collettiva… l’antologia delle passioni, dei desideri, dei sogni della fotografia passionale vive ai margini dell’esistenza (ma non è marginale) e prende coscienza di se stessa perché contiene la rara fortuna di conoscersi, conoscendo… forse è un’interrogazione, forse una curiosità o forse una naturale tendenza a un’educazione dello sguardo che diventa uno stile… è sovente un esercizio di pudore verso il debole, il folle, chi non ha voce né volto… una sorta di grazia lessicale che ritroviamo nel regesto di Pascal, di Voltaire, Saint-Simon e perfino di “Madame de Staël”19… nei loro testi, lettere o diari cercavano di passare dal salotto alla strada e asserivano che anche una preghiera, un’invettiva o una dissertazione su qualsiasi cosa, dovesse avere uno stile e contenere soprattutto la pietà del vero.
La “fulgurazione figurativa” dei corpi nel cinema di Pier Paolo Pasolini è fare del cinema una lingua interiore non religiosa ma sacrale/creaturale che sussume l’immaginario dall’antropologia visuale delle periferie, quanto dalla pittura giottesca o del Mantegna o del Masaccio, e introdurre una diversa dimensione del realismo nel lessico cinematografico20… un realismo creaturale che intreccia tenerezza e crudeltà, bellezza e figurazione della realtà spogliata d’ogni orpello figurale… la fotografia che s’innesta nel film e s’accorda con l’amore del regista per la forza del passato che s’innesta nel presente rivitalizzato nella creatività poetica dell’autobiografia, sempre… dà alle immagini quella realtà figurativa, quel realismo magico, che ha poco a che vedere (come è stato scritto) con la letteratura di Franz Kafka, Gabriel García Márquez, Luis Borges o Dino Buzzati… e ha molto a che fare col cinema di Carl Theodor Dreyer, Friedrich Wilhelm Murnau, Georg Wilhelm Pabst, Kenji Mizoguchi, Yasujirō Ozu, Luis Buñuel, Jean Vigo, Jean Renoir, il primo Visconti, il primo Fellini, il primo De Sica… la “fulgurazione figurativa” di Pasolini ha meritato l’odio che in vita gli è stato addossato dall’intero sistema politico, per poi, dopo il suo assassinio, recuperarlo agli annali dell’accademia, della politica, della chiesa… ma non hanno saputo cancellare la “fulgurazione figurativa” di Pasolini, con la quale ha disvelato le loro ipocrisie, tradimenti, infamie e tirannie a danno dei più deboli, degli indifesi, degli ultimi. L’aurora di una civiltà più giusta e più umana si vedrà soltanto quando si distruggeranno i suoi dèi.
La poetica della bellezza è un’estetica della sensibilità… una promessa di felicità, anche… poche la bellezza contiene in sé qualcosa d’incompiuto… come la grande poesia, la bellezza della fotografia non è detto che rispetti regole compositive o proporzioni scolastiche… e non implica la richiesta di acquiescenza… non si tratta di dissertare sul vero o sul falso, sul giusto o sullo sbagliato… la bellezza in ogni forma d’arte è una disposizione, una sensibilità o un’accezione o una percezione della perfettibilità… la bellezza è vera quando tace, brutta quando parla troppo di sé… la bellezza è l’insolenza e il coraggio di Capaneo che osa sfidare il potere assoluto di Zeus che lo fulmina sulle mura di Tebe… Capaneo è l’uomo che ha estrema fiducia in sé, avversa la parola dei dotti, ed è per questo che Dante lo butta nel canto XIV dell’Inferno, tra i bestemmiatori, i violenti, i superbi, i dispregiatori di Dio. La bellezza è una ferita aperta sulle certezze della storia: «In che direzione ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non precipitiamo continuamente? E all’indietro, ai lati, in avanti, da tutte le parti? C’è ancora un sopra e un sotto? Non vaghiamo come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non viene continuamente la notte e più notte? Non bisogna accendere lanterne di mattina? Non sentiamo ancora niente del chiasso dei becchini che sotterrano Dio? Non ci è giunto ancora il lezzo della putrefazione divina? – anche gli dèi si putrefanno! Dio è morto! Dio rimane morto!» (Friedrich Nietzsche)21. Di là dalle dossologie da scolarchi… Capaneo è la bellezza in azione, è una predizione di verità che denuncia la menzogna.
La fotografia in forma di poesia è un’erranza creativa che «non rimuove il suo non sapere, resta fedele alla sua inconoscenza […] è un evento. Non un fatto […] La poesia, la parola [l’immagine primigenia, anche] è la sola cosa che ci è rimasta di quando non sapevamo ancora parlare, un canto oscuro dentro la lingua, un dialetto o un idioma che non riusciamo a intendere pienamente, ma che non riusciamo a fare a meno di ascoltare [di vedere]» (Giorgio Agamben)22, i poeti, gli uomini e le donne ragguardevoli lo sanno… solo ciò che è divergente dalla lingua incensata, è poesia.
Estraiamo dal portolano iconografico di Mia, un pugno d’immagini che, a nostro avviso, contengono la fotografia in forma di poesia che ci è cara… con l’insolenza libertaria che ci è propria le titoliamo a nostro piacere e nemmeno c’importa se sono state pubblicate da Vogue o riviste d’alto lignaggio (serventi all’industria della soperchieria, protervia o cortigianeria) o libri più o meno conosciuti o se sono state del tutto lasciate alla protezione di un cassetto importante della propria vita:
Ho sempre letto, scritto nella strada, nei bar, nella mia tana, principalmente, mai nelle biblioteche… lì i libri mi sembrano morti e morti mi appaiono quelli che li leggono in compito silenzio… come in chiesa quando il prete infila nelle bocche aperte l’ostia… credono di ingoiare Dio e invece fanno indigestione di preghiere che alimentano una curiosità impersonale… ed è stata la fotografia fatta nella strada che mi ha fatto conoscere la finzione accettata della cultura dominante… un’invenzione gravida di fatalità, ineluttabilità, di destino che mi è parsa più finta delle storie dei santi… così mi sono interessato a fotografi dei Marginalia… quelli che fanno fotografie a margine della vita, ma non sono per niente marginali… spiriti inquieti o liberi che non hanno bisogno di sapere per sapere cosa fare davanti a qualcosa da fotografare… tantomeno perché quell’immagine l’hanno fatta… poiché ogni persona, come ogni tempo, si riconosce nella realtà solo grazie ai propri desideri, ai propri sogni o ai propri deliri… m’interessa sempre più non ciò che un fotografo ha fissato nella fotocamera, ma ciò che avrebbe voluto figurare… non l’atto, ma il senso della vita che vi mette dentro… sono un fervente estimatore dell’opera imperfetta, anche lasciata a mezzo o impossibile da compiere… confesso che ho bevuto molto e in allegrezza, prima di giungere a queste considerazioni sulla fotografia… essere un fotografo compreso è una vera calamità per un autore di taglia internazionale… una sorta di attentato all’intelligenza… che m’impedisce d’avere la smania di spiegarsi. Non sono mai stato a corto di utopie… nemmeno sono stato estraneo al gusto del fallimento… è un lusso che davvero pochi artisti si possono permettere… Emily Dickinson, Edgar Allan Poe o Oscar Wilde mi hanno insegnato a ragione al rovescio… come Charles Baudelaire… e mi hanno sospinto fuori dalla rassegnazione… meglio un bel suicidio privato al suono del Bolero di Ravel che far parte del monopolio della verità istituzionalizzata.
Una fotografia che lascia il lettore uguale a com’era prima è una fotografia sbagliata. La fotografia si “ascolta”, non si legge… s’entra nella sua passionalità o commozione attraverso il timbro della sua visione, la melodia delle sue forme e la biografia che ne consegue… non si capisce nulla di fotografia se non si rinnega il sistema di speranze sulle quali si fonda e da perfetti imbecilli non si rovescia o decontestualizza il linguaggio dei suoi codici e valori… sin dalla nascita della “fotografia civile”, alcuni randagi (Hine, Riis, Atget, Bellocq, Carroll…) hanno portato l’attenzione sulle diseguaglianze sociali e sull’urgenza di porvi rimedio, sottraendola a discussioni di minorati mentali… l’utopia era quella di restituire dignità, rispetto e bellezza alle genti, senza nulla chiedere in cambio che un’oncia di giustizia… sapevano che il potere è una cosa terribile ed è terribile come un fotografo riesca a diventare famoso.
L’immagine di una finestra nell’inquadratura di Mia rimanda a un mondo, quello interiore, soprattutto… i fiori neri, le cornici nere che sembrano croci, il velario dello sfondo che rimanda a un sudario… raccontano il coraggio, la paura, la rivelazione gentile di un dispaccio della vita… il respiro d’amare e d’essere amati per quello che siamo… non so… una luce dell’accoglienza unita al calore del cuore. Cè in questa fotografia il corpo e il sangue della fotografa… una nudità di emozioni che incrociano la casa come una prigione e una liberazione al contempo… ciascuno vive i timori dei padri, delle madri, degli ambienti nei quali si è trovato in sorte, e a loro volta quelli dei loro padri e delle loro madri, e così risaliamo all’inizio dei secoli… amore, disamore, cultura, ideali, sogni, speranze… tutto un florilegio di definizioni che ognuno si porta addosso… il fanciullo non sa perché trema, sa che un abbraccio, un bacio o un sorriso regalato al sorgere dell’amore protegge da tutti i domani indifesi. La finestra di una stanza è una metafora che sconfigge la paura del mondo… una forma di signoria della vita che conosce le ombre e le luci di universi convenuti, e li sradica nella fiducia di sé con l’elegia della bellezza che va alla sorgente del proprio coraggio a vivere, come a morire. Abbrancare la propria identità significa fare del desiderio d’amore, il legame che ci porta da amare e comprendere anche le asperità, le incomprensioni, le difficoltà personali, perché ciascuno è quello che desidera. La fotografia custodisce lo sguardo, come il poeta la parola… l’uno e l’altro sono depositati in lacrime di stelle. C’è un tempo per seminare l’amore e un tempo per raccoglierlo, lo stesso tempo.
La fotografia, qualsiasi fotografia, è sempre un autoritratto… non si può spiegare la fotografia, la si può vivere… con la fotografia si nomina la parola che la sottende… basta un sorriso per fermare una lacrima, basta una lacrima per infrangere, per sempre, un sorriso, Edmond Jabès, diceva… la fotografia è innocente, il fotografo, mai… è vero… ogni fotografia contiene gioie e ferite, quando è poesia precede il pensiero o lo anticipa lungo portali di cosmogonie lucenti… là dove passa la poesia dell’immagine, lì lo sguardo diviene visione di ciò che emerge e si offre alla lettura dell’inconsueto o del differito. L’istante coglie la fotografia, l’amore di sé per l’altro lo sorprende e consente a ogni speranza realizzata di fa tremare i propri limiti.
La fotografia figura non solo ciò che si è desiderato, ma l’eternamente desiderabile di ciò che contiene il desiderio… non importa tanto formulare il senso della fotografia, ma il valore d’uso che contiene… la fotografia è la culla di una stella che ci porta a conoscere l’inconosciuto, prende forma in un immagine e riceve in cambio la luna… poiché la fotografia è il frutto della sua decifrazione… affabula una lingua… sì, una lingua che è poetica di una prossimità artistica che sguscia dalle unghie… quando è grande, è sovversione dell’ordine mercatale della fotografia… sovente è una lingua ferita o un sorriso approssimato… qualche volta affida all’interrogazione i propri vocaboli/immaginari e si apre alla riscrittura d’una vita.
Mia fotografa un uccello nero in volo su un crinale di neve… altri uccelli neri (seminascosti tra il bianco e il bianco) sembrano guardare quel volo libero nel bianco… bianco della neve, bianco del cielo, contrapposti al nero degli uccelli e allo sguardo bianco della fotografa… il piccolo buco nero di una caverna al lato dell’immagine non è però un riparo dal freddo, sembra piuttosto un “buco nero” dell’oltretempo… il segno astratto di una realtà quasi sospinta fuori dall’inquadratura… Mia è a cavalluccio di quell’uccello che vola verso un non-dove, verso un sentiero del cielo che non è indicato da nessuna mappa… e non lo vuole agguantare, sembra voler fare un volo di libertà fuori dal precostituito. C’è un’udibilità del silenzio in questa immagine… un principio a vivere fuori dalla fotografia… una rottura della solitudine, un parlare a voce altra nella eco del proprio sentire. Qui Mia ferma il tempo… lo libera dalla consacrazione primigenia dello sguardo… morde la libertà e la dissemina nell’infinito… vive ciò che ha fotografato… sa che il fondo del cielo è disseminato di sogni e popolato di parole che gli ruzzolano in testa… restituisce la libertà alla sua naturale essenza. Le fotografie vere non sono soltanto fotografie… sono anche la brace sotto la cenere e divampa in un fuoco creativo che diventa il primo mattino del mondo. Diffida dell’immagine (o della parola) ch’è detta con chiarezza… perché la chiarezza altro non è il lato menzognero dell’ombra.
Non si giudica la fotografia, ma chi l’ha uccisa… quando siamo conquistati dalla sua ebbrezza narcisistica o mercatale, le togliamo la vita… i confini della fotografia sono le sponde che ci appartengono… di qua c’è il pensiero del poeta, di là l’utilitarismo del mercante… non c’è similitudine se non al prezzo d’una soggezione, d’una rinuncia, d’una confessione in pubblico… l’impensato appartiene ai poeti, il vocabolario ai servi. La sapienza creatrice non vuole rifugi… prima fotografare, di filosofare si può fare anche a meno.
Le fotoscritture interessanti abitano un’intuizione o una ricchezza della ricordanza… la scoperta dall’altro ch’è in me… rifuggono i salari dell’acconsentimento per approdare sulle rive del dialogo nascosto che esonda nell’accadere fotografico… rivendicano un’altra visione del profondo e si trascolorano in immagini-pietre dove la libertà creativa si libera di tutte le burocrazie e si rivela là dove si espone… la fotografia che vale contiene un sovraccarico di silenzi troppo a lungo sopportati o di abissi estetizzati e cola la sua verità nello splendore di un’altra era ancora da dissodare… con gli occhi levati in alto ruba le ali sgualcite degli angeli del non dove e vola verso cieli inadempienti.
Mia fotografa la testa di un pesce bianco, appoggiata su fette di pesce rosse, tagliate, ben distribuite a fiore sul banco del mercato… a una prima lettura può sembrare una semplice immagine di vita quotidiana… a ben vedere si coglie nella verticalità dell’immagine anche altro… la testa del pesce bianco è una sorta di triangolo che s’innesta nel rosso del pesce affettato… l’occhio del pesce bianco è vivo, guarda la sua morte atterrito, forse… sembra gemere ancora vivo… la simbologia che ne fuoriesce è quella di un destino accettato/subito… ma non del pesce, quanto della vita… Mia vede nel pesce, credo, una sorte di prigionia umana che riguarda tutti… una mancata libertà di scelta… non so se sono andato oltre ciò che dice la fotografia… quello che so è che quando s’avverte la dimenticanza spirituale non c’è libertà… tagliare, sezionare, lacerare non appartiene solo a quel pesce… e siccome il linguaggio è uno strumento dei nostri corpi, è il volto delle nostre radici, anche… il pesce-volto di Mia assume la forma-carattere dei dadaisti, surrealisti, situazionisti che vedono nell’arte disvelata, il superamento della vita. Il pesce-volto di Mia, dunque… è il nostro volto-pesce messo alla porta da disagi sospesi, come entità di un regno di tenebre che viola l’immagine che annuncia… quella della terra promessa o del paradiso perduto… si tratta d’immaginare la possibilità di reagire a istituzioni, chiese, stati, più o meno tirannici, che decidono della nostra vivenza. Immaginare è pericoloso… certo… perché significa dare voce e volto agli uomini che destituiscono anzitutto l’imperio dell’egoismo. Forse mi sono inventato tutto, forse è tutto vero… il campo dell’immagine fotografica o è un’esecuzione fedele alla lingua, o è piuttosto il grimaldello creativo che la dissolve, insieme ai sui guardiani. La società volgare è una frantumazione della bellezza e della giustizia, poiché l’una e l’altra hanno la stessa fame di libertà.
La dittatura della mediocrazia, del capitalismo parassitario o della società dello spettacolo23, mostrano che i mediocri hanno preso il potere e i loro fasti economici/politici sono la rappresentazione dell’ordine simbolico del terrore e dell’ordine generale della deterrenza… gli strumenti di comunicazione di massa (fotografia, cinema, carta stampata, telefonia, radio, internet)… sono responsabili della sparizione dell’arte, Jean Baudrillard, diceva… basta una banana attaccata con lo scotch a una parete, una signora che ti guarda muta in faccia per ore o un furbacchione che fa dei graffiti sui muri in maniera clandestina (ma non è vero)… e i saprofiti del sistema mercatale l’inneggiano ad artisti… c’è da ridere dal disgusto… il grado zero dell’arte ha successo… l’irruzione nella merce lo implica… la simulazione, anche… la piaggeria impera nella civiltà dello spettacolo che ne alimenta la lusinga e il servilismo. Quando tutto è arte, niente lo è più… lo sapeva persino l’asino della fattoria degli animali di George Orwell, l’unico che sapeva leggere… l’ignoranza al potere produce mostri, trasfigurati da Orwell come maiali24. Ciascuno ha il suo porcile e ci sguazza dentro foraggiato dai saprofiti vestiti Armani e il linguaggio che li unisce è quello della polizia. Sabotare lo stile della cultura asservita, attentare all’idea di un sistema che sarà stato tutto, tranne che intelligente, è un invito che ci è stato lasciato in sorte da Nietzsche, e dopo di lui si può dire tutto.
Nella fotografia di Mia, che noi, molto arbitrariamente, abbiamo chiamato La signora in rosso… ogni forma di vassallaggio è sollevata dalla sua estetizzazione, anche dalla sua museificazione… è una visione che ci libera dal reale fotografico per insinuare la surrealtà della vita. La figura in rosso di Mia è una giovane donna… attraversa un ponte… un passaggio.. un varco che viene dal nulla e porta chissà dove?… ha un cappotto rosso che si staglia fra il grigio della struttura e quello del cielo diafano… il passo è sicuro, svelto… un colpo di vento allarga il cappotto sulla gonna… l’inquadratura è decisa e intreccia la donna all’architettura modernista… quelli che parlano bene nei salotti milanesi, potrebbero dire brutalista… la bellezza dell’insieme è straniante… Mia fissa lo sguardo in un intreccio di segni… un incastro indefinito… una sparizione della realtà per catturare una realtà più sottile… quella di una bellezza franca che elimina la storia… anzi, la congela in un attimo sospeso tra l’accadere e l’accaduto… l’ombra, la luce, il movimento all’interno dell’inquadratura illumina l’inizio di qualcosa che è anche un addio… Mia qui discopre la fraternità in un sguardo, la discrezione che ascende sugli scalini del sacro… la struttura non ingoia la donna, semmai l’accompagna nella sua via… la vita scrive quel che la fotografia ha visto… cioè il senso di accoglienza che travalica il silenzio della lingua e come nel poesie di Tomas Tranströmer, trova nel mistero la parola: «Scena sulla piattaforma./Che strana quiete…/La voce interiore»25. L’effluvio di un’immagine colta ai bordi della strada è musica del puro pensiero… poiché ogni orizzonte di pena è costruito sulla sabbia, la smisurata fraternità della fotografia è un’infanzia ritrovata. La fotografia non è la fotografia, ma il “testo”… e poiché ogni storia ha bisogno di un testimone che ne comprovi la veridicità… l’involontario si fa corpotesto di un modo di vedere… soltanto la fotografia è reale, specie quando fa della surrealtà il principio di mille interrogazioni che frantumano le formule del consueto… è l’infinito altrove dell’atemporale che vive in un’immagine e afferra sul posto la vita vera.
La fotografia di strada, così come viene insegnata, esaltata o esibita come verità presa sul fatto… è un luogo abbandonato dove i gatti rovistano su cumuli di spazzatura e vengono a pisciare i cani senza padrone… anche quando è fatta su un campo di guerra, quale che sia, il fotografo — quasi sempre — ha in testa un premio internazionale, un calendario per una banca che traffica con i soldi dei mercanti d’armi o una passerella in televisione nei talk-show… che bello!… il cielo degli stupidi s’illumina d’immenso… il solo fotografo buono è quello morto!… davanti all’immagine della bellezza come giustizia, la storia della fotografia arrossisce di vergogna.
I firmamenti non hanno più nulla da schiacciare… il sistema culturale/politico della società anomica (norme, valori, tradizioni, promesse, controlli, punizioni, celebrazioni, santificazioni) ha creato più illusioni, tradimenti, violenze delle religioni e delle ideologie… qui anche il paradiso appare troppo brutale… secoli di educazione hanno glossato la stupidità erudita… c’è tristezza ovunque, specie là dove si vuole arringare le masse alle “spoglie” elettorali… nessuno conosce più la malinconia dei poeti maledetti o dei bambini curiosi o dei folli incapaci ad essere governati o governare in questo modo e a questo prezzo… come non sapere che “in un mondo senza melanconia gli usignoli si metterebbero a sputare e i gigli aprirebbero un bordello?” (Emil M. Cioran)26… l’uomo anomico è soddisfatto delle proprie miserie o esuberanze o apparenze che l’accompagnano nel crepuscolo della bellezza vissuta come merce soltanto… l’uomo anomico non ha rimorsi né avventure, né immaginazione… sguazza nella mediocrità come le papere nello stagno e vive senza accorgersi che è già morto… in questa condizione d’incompiutezza affoga nell’incoscienza del presente.
Lo stato di anomia, c’insegna Émile Durkheim… è un coacervo tra educazione, morale e società che incidono nella personalità individuale e nei comportamenti… lo stato di anomia è latente nella struttura stessa della società moderna e rivela la violenza insita nel determinismo del progresso e della produzione industriale neoliberista… una minaccia che porta alla disgregazione della solidarietà, fino alla crescita dei suicidi27… Durkheim suggerisce, infatti, a perseguire attraverso la cooperazione, la rivalutazione, rivitalizzazione della divisione del lavoro e una ricostruzione della vita sociale, per facilitare gli individui nel perseguimento della loro autorealizzazione verso un’effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali28, poiché la società ideale non è al di fuori della società reale, ma dentro il suo debutto sulla scena del mondo.
L’immagine anomica di Mia è di forte impatto visivo… neri profondi, luci tagliate, ombre-persone che si allungano nella strada… nessuno si guarda… tutti sono persi in se stessi… sulla destra dell’inquadratura una scalatura di grigi incornicia lo sguardo della fotografa verso la surrealtà… come in certe inquadrature del Neorealismo Italia, specie di Vittorio De Sica o Roberto Rossellini… i neri e i bianchi s’incrociano al movimento figurativo delle persone sparse nella strada… la fotografia sembra interrogare se stessa… non si congeda da ciò che rivela o viceversa… mostra che quando la delicatezza scompare, non resta che l’immensa violenza del proprio sparire di fronte alla vita che viene. Non è mica detto che tutto questo ci sia nella fotografia di Mia, oppure c’è molto altro ancora?… c’è forse ciò che resta del futuro in quelle ombre stagliate nello squarcio di luce… una grammatica visiva che rivela l’individuo e porta all’emozione… il presente che rotola in rovina… oppure un’estetica della verità che si occupa solo degli occhi ancora capaci di lanciare un grido di libertà… per quanto ci riguarda e con l’insolenza che ci è propria, una volta che la fotografia è fatta, si libera dell’autore e non resta che la sua veridicità o la sua sfrontata bellezza… il più delle volte la fotografia è la forma patologica dell’apparenza, l’immacolata concezione delle discariche… poiché la vita è arte, il fotografo è solo complice della mediocrità spettacolarizzata o testimone dell’agonia di una rosa nei giardini pubblici.
Non dimenticherò mai l’impareggiabile capacità di un barbone, sotto un ponte di Parigi, che si scaldava un po’ mentre bruciava una raccolta di fotografie di Casa Savoia trovate tra i rifiuti di una casa borghese… e mentre i pennacchi del re degli italiani incendiavano anche la regina avvolta in una pelliccia bianca… il barbone dette un morso al tappo di un fiasco di vino, lo sputò nel fiume e mi allungò un pezzo di pane con del formaggio giallo-giallo, e ci scolammo tutto il fiasco… era stato professore di liceo in Italia… mi disse… “poi sai com’è”… dette una pedata a un topo che usciva da una testa di bambola… e riprese: “è difficile amare i libri, le donne, le stelle rosse dei commissari politici e non odiare i fucili della polizia quando ti sparano in montagna, e sono scappato a Parigi”… posi si sdraiò sul cartone di un Telefunken di non so quanti pollici, aprì I miserabili e mi disse: «Victor Hugo diceva le stesse cose che vediamo nella società abbrutente di oggi, ma mancano i Gavroche che muoiono sulle barricate mentre cantano: “Se non sono un banchiere,/La colpa è di Voltaire,/Se casa più non ho,/La colpa è di Rousseau./ Se balzano è il mio carattere,/La colpa è di Voltaire,/Se quattrini non ho,/La colpa è di Rousseau./Se son finito in terra,/La colpa è di Voltaire,/Col naso nel canale finirò,/La colpa è di Rousseau”»29… gli detti un sigaro, “per dopo, l’accendo quando sento più freddo”, disse… non gli feci nessuna fotografia… e forse questa è senz’altro la migliore immagine che ho colto nella strada… così andai a fotografare il muro dove furono fucilati i Comunardi al cimitero di Père Lachaise… ci stetti tre giorni in quel cimitero, a fotografare tombe, sculture, nomi e uccelli strani che fischiettavano La Marsigliese… lì, sotto il cielo di Parigi, mi sembrava d’essere in buona compagnia. Mi piacciono i miserabili, mi piacciono molto… perché non amano le suppliche… sanno che non ci sono limiti alla disperazione e non ci sono limiti alla speranza… tutto è rigato di sangue e le lacrime corrono sui muri… peccato che nessuno se ne accorge… soltanto gli occhi che sono ancora capaci di gettare un sorriso ai bordi della strada, forse, si offrono all’amore di un’altra umanità.
La fotografia della surrealtà deve molto all’immaginale sulfureo di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò30… il prete anglicano Lewis Carroll, non scrisse solo una favola per bambini né un prontuario sull’infanzia indimenticata per gli adulti… ma rovesciò tutte le logiche del linguaggio, dell’educazione e dei codici che sorreggono l’edificio sociale… le immagini-testo (o viceversa), la nozione di passages, il gioco degli scacchi come strategia del conflitto sociale, i fantastici personaggi disseminati nell’inatteso della favola (Capitan Dodo, Pinco Panca e Panco Pinco, Bianconiglio, Biagio Lucertola, Brucaliffo, Stregato, Cappellaio Matto, Leprotto Bisestile, Toperchio, Regina di cuori, Re di cuori o Humpty Dumpty, specialmente31)… sono collegati al ribellismo magico di Alice o al suo magnifico viaggio dall’infanzia all’età adulta, forse… nemmeno questo è certo per Carroll: «tutti coloro che conservano un senso di ribellione riconoscono in Lewis Carroll il loro primo maestro nell’arte di marinare la scuola» (André Breton) o spaccare i vetri dei negozi, come ne Il monello (1925) di Charlie Chaplin, per sopravvivere alla fame… Alice non è certo quella della fabbrica d’animazione Disney — Alice nel paese delle meraviglie (1951) di Clyde Geronini, Hamilton Luske, Wilfred Jackson —… una dossologia di sentimenti truccati e spalmati nell’affiliazione tecnica accattivante, rotonda, spumeggiante, colorata fino all’insensatezza, spinta ad accalappiare le menti più ingenue, a spingerle nell’ebetismo infantile… e pensare che ci sono stati critici velinari che hanno visto nell’Alice disneyana un messaggio anarcoide, strampalato, e per questo amato dai figli dei fiori?… forse sarebbe stato meno bello dire dai figli di puttana… quelli che rifiutavano i cannoni, i massacri, le guerre… un’opera d’arte deve frugare nelle ferite dell’umanità e coprirle di baci al profumo di melograno, anziché allargarle.
Da Alice nel paese delle meraviglie: «“Chi essere tu?” chiede il Brucaliffo quando vede Alice. La bambina non sa più neanche lei chi è veramente: si è trasformata così tante volte! Sa solo che è stanca di essere piccina. Ma forse il Brucaliffo potrebbe aiutarla. Certo che sì! Ecco il suo consiglio: un lato del fungo la farà crescere e l’altro la farà rimpicciolire. Dovrà solo assaggiarli. “Una parte mi farà crescere… ma quale?” si domanda la bambina. Dopo tutto ciò che le è successo mangiando e bevendo cose strane, Alice dovrebbe aver imparato ad essere prudente. Ma per lei niente è peggio di essere così piccola. Un morso appena… ed ecco che Alice cresce fino a diventare alta come il più alto degli alberi. Non basta: un nido pieno di uova le è rimasto impigliato tra i capelli, e mamma uccello non è per niente contenta. Bisogna subito mangiare l’altro pezzetto di fungo per rimpicciolire!
Finalmente Alice torna della sua statura normale. Allora si mette in tasca i due pezzetti di fungo e riprende a inseguire il Bianconiglio: ma il bosco è pieno di cartelli e ognuno indica una direzione diversa. Quale sarà quella giusta? A un tratto, Alice sente qualcuno che canta nel bosco. Vede spuntare un sorriso e poi, attorno al sorriso un gatto. Anzi, uno Stregatto! Lo Stregatto può apparire, sparire, alzarsi le orecchie con la coda e fare cento altre cose strane. Così, forse, può anche dire ad Alice dov’è finito il coniglio bianco. “Se io cercassi il Bianconiglio, lo chiederei al Cappellaio Matto oppure al Leprotto Bisestile”, risponde il buffo animale. Seguendo il consiglio dello Stregatto, Alice arriva davanti al cancello di una casa. Nel giardino, in fondo a una lunga tavola, ci sono il Leprotto Bisestile e il Cappellaio Matto. Stanno cantando un’allegra canzone, accompagnati dai fischi di tante teiere. Il tè è la loro passione, e preferiscono berlo in un’occasione speciale. Oggi, per esempio, è il non-compleanno di tutti e due! Anche Alice vorrebbe partecipare alla festa, ma non riesce a capire di cosa si tratta. “Non sa cosa è il non-compleanno!” ridacchia il Leprotto Bisestile e, insieme al Cappellaio Matto, prova a spiegarglielo. “È semplice: il non-compleanno è tutti i giorni in cui non si compiono gli anni. E sono tanti, ben 364!” “Ma allora oggi è anche il mio non-compleanno!” esclama Alice, contenta»32. L’amore con congeda mai l’avvento che lo rivela.
La voglia di libertà di Alice è stata trattata con notevole bellezza estetica/etica nei film Alice’s Restaurant (1969) di Arthur Penn, Alice non abita più qui (1975) di Martin Scorsese o Alice nelle città (1980) di Wim Wenders… qui, come nel testo letterario di Carroll, si racconta un’inaderenza dell’ordinario e si passa alla scoperta di un’altra realtà, quella che infrange la scacchiera percettiva e Alice diventa corpo di un universo a parte… dove si sovrappongono strati diversi dell’esistenza e il passato e il presente sono la medesima cosa… attivano una nuova costruzione delle situazioni e partecipano alla formazione dell’identità… Alice diventa l’arcano dove il lettore si specchia e dà origine a un’altra umanità.
L’immaginale del desiderio di Alice gioca con le strutture del linguaggio… e come tutti i grandi libri, il sogno di Alice ha tante interpretazioni quanto sono i lettori che vi s’immergono… le parole-aforismi di Carroll, oltrepassano il tempo, le dimensioni, la soglia del reale… il viaggio di Alice diventa simbolo di una trasformazione interiore… luogo fantastico di destini incrociati che attraverso il paradosso, il reversibile, l’umorismo del nonsense e della non coerenza s’affaccia all’anarchia. «L’anarchia mi è sempre parsa più interessante della democrazia, ma va da sé che ciascuno è qui libero di pensare come crede» (Giorgio Agamben)33. Nell’età della religione capitalista l’arte del permesso è illusione e ignoranza… l’impostura predica solo il mercato… la rispettabilità e la fama sono i simulacri dei professori… nelle loro biblioteche ragguardevoli, spesso, non c’è posto per la lucida disperanza dell’amore piantato nel cuore come un coltello.
«La mente ama l’ignoto. Ama le immagini il cui significato è sconosciuto, poiché il significato della mente stessa è sconosciuto» (René Magritte)… l’immaginazione surrealista non si spiega… è l’accettazione dell’irrazionale, della magia, del caso, dell’assurdo, della follia… che si pongono fuori dalla razionalità. I giochi dei bambini sono rappresentazioni di pensieri, di sogni, di spaesamenti che non hanno nulla a che vedere con le logiche della ragione e attraverso l’indefinibile liberano tutte le catene dell’inconscio… qui sogno e realtà sono sinonimi e lo straniamento del pensiero è la linfa della vivezza dell’infanzia, prima che sia soffocata dall’educazione della giovinezza e dalle codificazioni dell’età adulta.
Le associazioni libere del testo di Carroll hanno ispirato poeti/artisti/registi/fotografi/illustratori come Lautréamont, Rimbaud, Pierre Alechinsky, Salvador Dalí, Victor Brauner, Wilfredo Lam, Man Ray, Hans Bellmer, Eileen Agar, Jane Graverol, Magritte, Ernst, Aragon, Dagmar Berková, Peter Blake, Roland Topor, Thomas Nast, Luis Buñuel, Jean Vigo, Pier Paolo Pasolini, Erik Johansson, Víctor Enrich, Marc Sommer, Jati Pruta Pratama, Jane Long, Victoria Siemer… finiamola qui… di là dai diversi linguaggi usati (sovraesposizioni, ritocco, manipolazioni, elaborazioni fantastiche, anche le più abusate o i virtuosismi più beceri), la fotografia della surrealtà è tesa a rovistare nell’inconscio e nel sogno… e quando intreccia eleganza e realtà, poesia e autobiografia, creatività e utopia, si riallaccia a quanto scriveva André Breton nel Manifesto del surrealismo (1924): il movimento surrealista è «automatismo psichico puro, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di qualsiasi preoccupazione estetica e morale»34. La fotografia della surrealtà è la creazione di un atto di resistenza culturale che diserta la società controllata, oppressa, punita… è uno scoppio d’imperfezione contro la forma perfetta che libera la vita condizionata, imprigionata e offesa.
La fotografia della surrealtà di Mia si colloca, certo, in questa immagine che vive al di fuori della documentazione diretta… la fotografa coglie lo smarrimento di una bambina presa di spalle che affronta il buio in quel maglioncino rosso, appena accennato, i capelli lunghi di ragazzina già grande, le braccia raccolte sul corpo (una borsetta forse gli scende di lato), la gonnellina accarezzata dal vento leggero della sera… l’ombra/doppio della bambina contorna un letto di foglie… lo sguardo è rivolto a un filo di luce appeso all’eterno… l’inquadratura mantiene una distanza di rispetto… il corpo, il paesaggio/bosco, un taglio di strada… bastano a percepire una solitudine, forse… anche un’attesa… una gioia dell’altro che non sgorga al momento… Mia accorda l’istante del bisogno con la verità del corpo che quasi s’invola nel nero che l’avvolge… è un atto poetico/figurativo fuori dalla maniera e dalla stereotipia… è un’immagine-portatrice di significato che introduce a un disvelamento… un passaggio intimo e scanzonato alla casa dell’essere.
Si tira una fotografia come si tira uno schiaffo, quasi mai per darsi un bacio sulle spiagge deserte d’inverno. L’Alice nel paese della surrealtà di Mia figura un raccoglimento, un’accoglienza, una tenerezza verso quella delizia convulsiva… sembra annunciare un atto futuro… non so… una sorta di abbraccio metafisico, credo, per qualcosa che proviene dall’ombra… una riconoscenza aristocratica della bella amabilità… anche una dolcezza villana che è riconoscenza dell’innocenza che vince su tutti i timori. «La cortesia, arte del mettere a distanza, o del mettere alla giusta distanza, è anche generatrice di sapienza: per suo tramite si impara a non saturare i primi cerchi, a preferire il minimale con cui è più facile produrre relazioni di qualità, poiché con la quantità il numero impone una mancanza di profondità e condanna alla superficie» (Michel Onfray)35. La fotografia di Alice nel paese della surrealtà di Mia, è un canto della gentilezza… dà la temperatura dell’intersoggettività e delle affinità minimali che si abbeverano alla visione ugualitaria dove tutti sono prossimo di me, di te, di noi. Nello specchio rovesciato delle contraddizioni di un’epoca, la spiritualità libertaria di Alice commuove fino alle lacrime, fino al sorriso… mostra che non si può amare un dio, un’ideologia o un popolo, ma solo i propri amici e compagni di strada.
La fotografia della surrealtà di Mia è latrice di una malinconia genitiva che coincide con la fanciullezza dell’incanto… del tempo perso, del gioco estatico… allontana tutto ciò che è sofferenza e si riannoda con tutto ciò che è speranza… l’estetica di una forza che accompagna la realizzazione dell’opera nell’intimità del decoroso, dell’armonia e all’approdo di un bel fine… e s’acciuffa all’epifania del meraviglioso… Breton sosteneva che «il meraviglioso è sempre bello, anzi solo il meraviglioso è bello»… questa Alice nel paese della surrealtà di Mia, riempie il pensiero di sbalordimento che si accompagna sempre a qualcosa di sconosciuto, forse di nuovo… una risorgenza dall’abituale che libera alla sensibilità, alla riflessione e alla conoscenza di un sé verso una coscienza della più completa libertà spirituale.
La fotografia è corpo/sogno di tutto ciò che corrisponde all’immaginale della vita… ogni fotografia passa per una scelta e ogni scelta è garante del mito che ne consegue o del suo assassinio… naturalmente noi propendiamo il per il secondo postulato… in principio è stata la parola dei profeti a cancellare le crestomazie eversive della storia degli ultimi, poi gli sguardi dei guardiani del tempio hanno anticipato l’oblìo dell’uomo per mano di sistemi più finemente oppressivi (la massificazione della cultura)… nell’attuale civiltà dello spettacolo non ci sono più scelte da fare… i dominatori decidono le necessità, i desideri, i sogni di un intero pianeta… la dittatura della comunicazione (anche dell’arte) ha spianato tutti i dissensi e i signori delle guerre e i padroni dei mercati, hanno sistemato il nichilismo del potere in ogni anfratto del genere umano… tuttavia… tuttavia, dai bassifondi della storia dell’uomo, sono sempre emersi poeti del dissenso che hanno rifiutato l’inginocchiatoio e gli scranni dei governi e, qualche volta, si sono trovati accanto alle giovani generazioni che hanno cercato, con ogni mezzo possibile, di rovesciare un mondo rovesciato e hanno fatto della propria vita un’opera d’arte.
La fotografia di Mia, che abbiamo chiamato Pasoliniana… ha radici nobili… André Kertész, Martin Munkácsi o Frank Horvat, fa lo stesso… naturalmente non parliamo di distorsioni fotografiche, fotografie di moda o ricerche metafisiche di questi autori… accostiamo l’immagine di Mia a certe fotografie che Kertész, Munkácsi o Horvat hanno in qualche modo incrociato una certa naturalezza espressiva, per meglio dire, una poetica del realismo minimo che abbiamo visto nell’immagine di Mia… quella dei ragazzi neri, nudi, che vanno incontro alle onde del mare di Munkácsi (Liberia, 1930), ad esempio… Munkácsi era uno che diceva: “pensa mentre scatti”. Non lo so se è vero o se funziona per tutti… quello che so è che una fotografia, quando è grande, figura il ritratto di un’epoca.
La fotografia dei corpi per Pasolini, come si è già detto, è l’arte di riscoprire il sacro nel luogo che li accoglie o li respinge… i corpi parlano la loro origine e contengono la lingua scritta della realtà… Pasolini, a ragione, sosteneva che il potere economico ha mercificato i corpi e attuato una vera e radicale mutazione antropologica della società… l’avanzare del nuovo fascismo è ormai radicato nella sintassi di un intero popolo e i modelli sono completamente dissociati dalla coscienza. “Vent’anni di fascismo credo che non abbiano mai fatto le vittime che ha fatto il fascismo di questi ultimi anni” (Pier Paolo Pasolini)36. La rinuncia del desiderio, la soppressione dell’identità, la supremazia della merce sull’uomo… hanno portato a una omologazione del pensiero che estromette gli uomini dall’umanità.
L’immagine pasoliniana di Mia — non c’importa dire dove è stata presa — è la realizzazione di un momento minimale… la fotografa è davanti al mare, le onde sono alte, infrangono su un certo numero di corpi… il controluce non permette di vedere le loro facce… solo corpi, volti, posture infantili che giocano tra i marosi (alcuni sembrano guardare anche in macchina)… una sorta di giocosità attraversa la fotografia… il bianco del sole si riflette sulle onde come le luci di un palcoscenico e come in una sequenza cinematografica fissata sullo schermo/mondo, la sincerità dell’immagine annulla ogni estetismo e si coniuga a quel realismo minimo che l’introduce alla scrittura immaginifica di un limite da superare. Mia non decifra il fotografato, quasi lo cancella… lascia vedere ombre, luci, figure in una visuale spontanea e conviviale che ne mostra il sorriso… anche una certa malinconia… forse… poiché ogni fotografia è la scrittura di una sensazione e ogni fotografo abita il fatato di una perdita o di una dolce utopia.
Se entriamo a capofitto nella fotografia di Mia si legge ciò che siamo stati e il tentativo di trasformare i lettori del “tuo”, “nostro”, “loro” avvenire… la scoperta dell’altro che è in me, insomma… non si bussa alla porta della fotografia… vi si entra o si esce senza capire tutto o nulla del fotografato:
“La sostanza senza la forma è un pensiero senza scopo. La forma senza la sostanza è un corpo senza pensiero.
– Sei per la forma o per la sostanza?
– È come chiedermi se sono per l’onda o per il mare
…ma è il corpo che sta sprofondando a trascinare lo spirito nel vuoto oppure è lo spirito che al colmo della sua potenza fa precipitare l’ingombro del corpo nel nulla?
Diceva: «Siamo vittime di una temerarietà eccessiva oppure di una fatale negligenza?» (Edmond Jabès)37. La fotografia spaventa quando l’amore ci dà sostegno… perché è un atto insurrezionale contro il proprio sapere… né giudica, né impone nulla al dialogo tra fotografo e il fotografato… poiché dove tutto è bianco la fotografia vede il nero che cela, aveva annotato… fotografare vuol dire dissigillare, erompere, dissotterrare il fuoco che è in ciascuno, aprire strappi, non ricucirli… l’importante non è la fotografia, ma forse, il grado di condivisione che s’è attinto, vivendola.
L’immagine Pasoliniana di Mia è un’iconografia che contiene la leggerezza dell’inchiostro sull’acqua… non la sporca, la colora e costruisce forme che solo i bambini, i folli o i poeti conoscono e apprezzano… può essere un lamento oppure un canto, non so… un dialogo col silenzio o una vertigine di coscienza all’improvviso… forse è anche e soprattutto l’immagine che fantastica un bambino che apre la finestra sulla notte stellata e gli s’illuminano gli occhi come un re… forse è il dispiegarsi di una speranza d’amore che cresce al limitare del mondo e in una società straniera non erige pregiudizi, preconcetti o discriminazioni e ti fa credere che anche tu sei della medesima casa, fatta delle medesime stelle.
La fotografia in forma di poesia è un invito a disimparare tutto della perfezione tecnica… abiurare tutto del linguaggio fotografico… capire che la fotografia è l’interrogazione che crea la fotografia che la inaugura… è l’inosservato che diventa eterno. La fotografia è come la cacciata dal Paradiso… ha il destino eccezionale che implica una caduta o anticipa una risorgenza… qualche volta muore con le ali spiegate contro i fili spinati della ragione imposta… ma non muore davvero… la sua luce/ombra diventa semenza di una storia cancellata che esonda nella bellezza e nella giustizia di domani infiniti… la fotografia autentica è la messa a fuoco di un istante lungo millenni… ogni fotografia in forma di poesia risiede nell’atto che si affranca alla libertà dell’arte come nascita della rivoluzione dell’umano nell’uomo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 9 volte marzo, 2025