“Il governo è sempre stato questo: un creatore e difensore dei privilegi, un’istituzione di oppressione e vendetta.
Sperare che possa diventare qualcos’altro è la più vana delle illusioni.
Vi dicono che l’anarchia, il sogno di un ordine sociale senza un governo, sia una folle fantasia.
Ben venga allora il sogno più folle che sia mai entrato nel cuore dell’uomo”.
Voltairine De Cleyre
Il cinema italiano soffre d’imbecillità cronica… un disturbo della personalità che si manifesta nella maggior parte dei film che si producono per l’assoggettamento alla fatalità, alla banalità e alla rassegnazione di un pubblico sempre più assuefatto alla civiltà dello spettacolo nella quale si sente protagonista… più o meno consapevolmente… è il risultato di un’analfabetizzazione filmica senza autori né poeti che ormai ha cancellato la grande storia del cinema italiano come memoria e si è rifugiato nello snobismo di sinistra — si fa per dire, poiché la sinistra è da tempo ancorata a tutti gli sfruttamenti, oppressioni e corruzioni del neoliberismo — o nella marcescenza di prodotti più stupidi dei suoi consumatori.
Il suicidio dell’immaginario collettivo è in atto da tempo e tutte le forme di comunicazione (social-network, inclusi, fatti salvi i soliti “fuori gioco” d’ogni tempo), sono al servizio della merce e i clienti non sono solo spettatori complici di questo abisso culturale-politico ma veri e propri connettori con l’ordine stabilito… le banche sono i feudatari della macchina/cinema e consacrano il film in una sorta di idiozia sulla felicità umana. Il valore generale dei film è quello della carne in scatola per cani e vanno bene per tutte le piattaforme televisive… capolavori universali della stupidità dove non puoi vedere nulla che non sia inganno, cialtroneria o messianesimo provinciale che parla degli ultimi come persone ammazzate alla maniera delle bestie… il fanatismo della merce, del resto, è un dolcificante della coscienza contro tutte le asperità e anche la guerra, l’amore, la creatività sono relegate nell’atrofia delle passioni, dei sentimenti, del pensiero libertario e fanno di un artista il vassallo della società parassitaria… i pastori della conoscenza lo sanno… fai tutto quello che vuoi, in arte come nella vita, basta che tu non faccia sul serio.
A riscattare i giorni della Tenebra infiniti… Qohélet, diceva… sono poeti del cinema che por-
tano lo sguardo dove va il cuore, come Roberto Faenza, uno dei pochi notevoli cineasti (come Giorgio Diritti, Pietro Marcello o Alice Rohrwacher) che ha continuato la sua politica d’autore fin dai suoi esordi (Escalation, 1968; H2S, 1069; Forza Italia, 1977; Si salvi chi vuole, 1980), e attraverso opere come Jona che visse nella balena, 1993; Prendimi l’anima, 2002, I viceré, 2007; Un giorno questo dolore ti sarà utile, 2011; Anita B., 2014; La verità sta in cielo, 2016 o Hill of Vision), ha mostrato il male senza fine fatto sotto il sole d’ogni potere… dove la menzogna è diritto e il tempo delle pietre scagliate contro gli ultimi della Terra, un serraglio di abomini che la cultura dominante tende a cancellare, se non ha riprodurre in grande formato. Faenza ha incrinato ogni eccesso di sofferenza e di crimine e lo ha svergognato di fronte a se stesso. Le lacrime secolari degli oppressi non hanno bisogno di consolazione, semmai d’indignazione che disperda l’inerte e il falso e, quando occorra, insorgere per conquistare il diritto di avere diritti.
Hill of Vision racconta la storia formidabile di un ragazzo analfabeta che ha affrontato l’arroganza del fascismo, le crudeltà della seconda guerra mondiale e l’emarginazione della migrazione, al quale è stato riconosciuto il Premio Nobel per la medicina nel 2007 (insieme ai colleghi Martin Evans e Oliver Smithies), si chiama Mario Capecchi. Nasce in Italia nel 1937 da una breve relazione tra un militare, fanatico fascista, Luciano Capecchi, e l’americana Lucy Ramberg, poetessa e militante nella resistenza in Alto Adige. Il padre di Mario viene inviato a combattere in Libia e nel 1941, la madre, poco prima di essere arrestata e rinchiusa in un campo di concentramento nazista, affida il bambino a una famiglia di contadini, una volta finiti i soldi e il timore che Mario venisse scoperto dai fascisti perché ebreo, lo lasciano andare per le strade infestate dalla guerra… qui incontra altri ragazzini sbandati e vive di piccoli furti… quando ruba un pezzo di carne da una macelleria bombardata, viene preso e affidato a orfanotrofio di preti. A guerra finita si ricongiunge alla madre ed emigrano negli Stati Uniti, in una comunità di quaccheri, Hill of Vision. Il ragazzo si trova ad affrontare i problemi d’inserimento nella scuola, in quanto “italiano”. L’internamento del campo nazista ha minato la salute della madre, ma grazie all’amore della famiglia dello zio fisico che trasmette a Mario la passione per la scienza, oggi è Distinguished Professor presso la School of Medicine dell’Università dello Utah.
Per Roberto Faenza, il messaggio del film è chiaro: “Se ce l’ha fatta Mario, partendo da una condizione così estrema, allora possiamo farcela anche tutti noi. Basta saper essere ‘resilienti’, ovvero non darsi per vinti, mai”. La condivisione, la fraternità l’accoglienza non si possono vendere né comprare… poiché raggiungere il fondo per molti può essere anche l’inizio… la fioritura di un uomo si accompagna all’amore che incontra nella vita e all’eternità del giusto che l’annoda al destino oltraggiato di molti rifugiati che cercano riparo, accoglienza, ascolto nella nuova comunità.
Ancora oggi, dalle periferie planetarie della desolazione provocate dalle guerre — dagli Stati nazionali, dalla finanza internazionale, dai mercanti d’armi, dalle persecuzioni dei militari e dei politici —, il “popolo dei rifugiati” inonda le frontiere dell’ordine mondiale che sono diventate valichi dell’emarginazione forzata… l’“ospitalità universale” chiesta da Immanuel Kant (1795) o attualizzata da Emond Jabès, Hannah Arendt, Dietrich Bonhoeffer, Jacques Derrida, Giorgio Agamben, Donatella Di Cesare e dalla filosofia della fraternità del pensiero libertario… è un miraggio o un abbaglio pianificato, visto chi i diritti degli apolidi, dei rifugiati, dei migranti, degli stranieri sono calpestati dalla sovranità poliziesca degli Stati.
La sceneggiatura di Hill of Vision, scritta da Faenza con David Gleeson, poggia su una partitura filmica solida, asciutta e le inquadrature del regista descrivono i momenti storici senza orpelli né infiltrazioni spettacolari… un’essenzialità estetica che segue il linguaggio del bambino prima e del ragazzo poi… il regista lavora sul respiro dell’infanzia turbata e ne esce un ritratto di vita che s’interroga sulla cattività della guerra. I giorni passati nelle strade del bambino sono attraversati dalla solitudine, dalla tenerezza, dall’abbandono, ma visti fuori da ogni sorta di vittimismo… l’amore del bambino per la madre è al fondo della sua rinascita e del risveglio del ragazzo che si farà uomo in America e diventerà uno scienziato. La fotografia di Giuseppe Pignone è di pregevole fattura… lavora sui marroni, sui verdi, sui gialli-rossi e depone il film una visione liberata da ogni eccesso descrittivo… avvolge gli attori nel guscio della storia che interpretano e li accompagna nel profumo di realtà di un’esistenza sognata che non è degli angeli ma della vita quotidiana dei semplici di spirito… uno sguardo amorevole che trasluce sul pozzo d’infanzie difficili, lasciando aperta, ma non vinta, la ferita del dolore. Il montaggio armonico di Walter Fasano dà al film un’andatura emozionale, incrocia forme e contenuti in uno stile sempre addosso alla materia trattata… con la musica di Andrea Guerra coniuga l’immagine al suono, il gesto alla parola, la tragedia alla speranza e, più ancora, insieme vanno a comporre un’espressione poetica che irrobustisce la magnifica narrazione filmica di Faenza.
L’attorialità si dispiega nella regalità contenuta di Laura Haddock (Lucy Ramberg, madre di Mario), Edward Holcroft (Edward Ramberg, lo zio), Elisa Lasowski (Sara Sargent Ramberg, la zia), Francesco Montanari (Luciano Capecchi, il padre di Mario), Jake Donald – Crookes, (Mario da ragazzo), Lorenzo Ciamei (Mario da bambino), Rosa Diletta Rossi (Anna, l’amica e l’amore di Mario bambino). Il volto, il corpo, l’atteggiamento di Mario bambino ricorda non poco e bene, Jackie Coogan ne Il monello (The Kid, 1921) di Charlie Chaplin, ma senza la maliziosa inclinazione alle lacrime abituale a Charlot… quasi a dire che l’amore non è là dove si staglia, ma dove si libera dal peso delle costrizioni, delle sottomissioni, delle brutture inflitte all’innocenza. Ci appare piuttosto strano che certi critici-cinefili abbiano riscontrato nel film di Faenza la dolcificazione cartolinesca o l’interpretazione marionettisica dei personaggi o una scarsa consistenza di carattere di tutto il film… sono gli stessi velinari che poi si sbucciano le mani per applaudire i film provinciali dell’italietta mondana ai festival con divucci, divetti e puttanelle da tappeto rosso… i medesimi che frequentano i funzionari della politica che li tiene a libro paga ed hanno molto studiato il cinema, tanto da non capire proprio nulla del Cinema e tutto della macchina/cinema, forse! Le università, le riviste, i giornali, internet… sono pieni di questi ciarlatani a corto di trucchi che hanno fatto del marcitoio delle certezze la tomba dell’intelligenza mai avuta.
In quanto a noi, Hill of Vision è parso una lezione limpida di pedagogia della libertà dove il sentimento si mescola alla grazia e denuncia l’imbecillità a tutti i livelli… c’è un criminale in ogni santo del fanatismo e un martire in ogni cretino incapace di comprendere che la secolarizzazione delle lacrime non è un’eredità ma un’imposizione del pensiero dominante… i retroscena delle guerre non interessano a nessuno, meno che mai ai fautori dell’ordine ossessionati da ideologie e fedi che portano al macello degli indifesi. Non capiranno mai la storiella di quel filosofo (o era un ubriaco di porto, non ricordo bene?) che diceva: — Ebbe l’orgoglio la forza e la dignità di non comandare mai, di non disporre di niente e di nessuno, di non possedere nulla di ciò che era dell’altro e di mettere anche ciò che aveva in comune… chiedeva di vivere senza padroni né servi, non diede né ricevette ordini… diceva che in una società altamente organizzata non ci sono classi, né sfruttati né sfruttatori, né oppressori né criminali… tutto è messo a servizio della comunità e i bambini, prima di ogni cosa imparano a non obbedire sul sangue versato dai grandi —. L’amore dell’uomo per l’uomo passa ovunque c’è il senso di bellezza, di giustizia e del bene comune, e poco importa essere quaccheri o libertari o di qualsiasi credo si voglia, per mostrare che tutti gli autoritarismi sono illegittimi e vanno sconfitti. Il pozzo dell’infanzia non contiene imposture, conformismi, ignoranze, eroismi, religioni, volgarità, crimini di Stato… e nei giochi dei bambini c’è già tutto l’amore calpestato a venire o il suo incendio, poiché il grande amore per la vita porta in sé anche il suo lutto. Con il crollo dei pregiudizi, cadono anche gli Stati, e senza nessun rimpianto.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte gennaio 2023