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Sulla rivoluzione della gioia nel ’68

Inserito da serrilux

Sulla rivoluzione della gioia nel ’68

a Serena, perché conosce l’arte di gioire e la rabbia degli ultimi,
a Lino, guerriero di luce, di resistenze e giuste utopie,
e, infine, a Bru’, perché sa che laggiù dove finisce il mare e comincia il cielo
c’è tutto l’amore del mondo e che ogni risposta è nelle stelle!

“Io vorrei, e questo sia l’ultimo ed il più ardente dei miei desideri,
io vorrei che l’ultimo dei re fosse strangolato con le budella dell’ultimo dei preti”.
Jean Meslier, curato di campagna del ‘700

Mi ricordo sì, mi ricordo del ’681… avevo poco più di vent’anni e posso ancora dire che sono stati i più belli della mia vita. Nel ’68 i giovani avevano compreso che non bisognava più interpretare il mondo ma andava cambiato alla radice, e i mezzi erano tutti buoni. Bisognava rompere il dominio di pochi sul maggior numero (sudditi, amministrati, sindacalizzati, vittime) e lavorare alla conquista di una società aperta, libertaria, a forme di democrazie partecipate e fondatrici del bene comune. Il ’68 è stato certo un movimento generazionale che ha dato l’assalto al potere, non per possederlo, ma per meglio distruggerlo! In quell’anno formidabile anche i vini e le marmellate vennero più buoni.

Nell’ottobre 1967 Ernesto “Che” Guevara viene assassinato dagli sgherri della CIA sulle montagne della Bolivia… la figura del medico argentino, uno dei protagonisti della rivoluzione castrista, diventa un’icona intramontabile del ’68. I movimenti giovanili si riconoscono nelle sue parole – Hasta la victoria siempre! – e ovunque nel mondo danno l’assalto al cielo marcio del potere. “L’avvenire delle rivoluzioni della storia e il divenire rivoluzionario delle persone” (Gilles Deleuze) rispondevano al-l’intollerabile e nessuno si vergognava più di assaltare caserme, occupare edifici, prendere di mira i meccanismi di produzione e di conservazione del consenso… l’incontro, l’amicizia, la tenerezza, l’amore (quale che fosse) esprimevamo una fusione dell’esistenza con gli avvenimenti della storia… l’uso dei piaceri non rinnegava nulla se non la voglia di spaccare l’inverno delle ideologie e delle fedi. La vita diventava resistenza al potere e si disimparava ad obbedire… qualche volta, con un luddismo creativo di notevole efficacia, si attentava ai tabù e ai totem per mezzo dei quali la società assicurava il suo dominio e dalla loro incinerazione si vedeva nascere un nuovo umanesimo.

La rivoluzione della gioia scoppiata nel ’68 ha radici lontane… le giovani generazioni che interpretavano le turbolenze degli anni sessanta, uscivano dai – movimenti per la pace, le manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, la nascita del Black Panther Party, la rivolta di Berkeley, la Grecia dei colonnelli, lo strappo della Polonia contro il comunismo, Don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana, Rudi Dutschke e il movimento studentesco tedesco, Martin Luther King, Mao Tse-Tung, Ho Chi Min, Eldridge Cleaver e il Black Panther Party, Ernesto “Che” Guevara, Fidel Castro, Herbert Marcuse, Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, i Blousons noirs d’ogni paese, i Provos olandesi, gli Zengakuren giapponesi, la Primavera di Praga, il Maggio francese (Daniel Cohn-Bendit, Guy Debord, gli Arrabbiati, i Situazionisti), Potere Operaio, Lotta Continua, gli Uccelli in Italia (fino all’eversione in armi delle prime Brigate Rosse), la radicalità armata della RAF in Germania, gli anarchici di terre liberate o di magiche utopie -… disertavano dall’indecenza e dalla brutalità della civiltà del terrore e dell’abuso, e da “vecchie talpe” indemoniate andavano a dare il “colpo di grazia” ad un’umanità dell’apparenza che continuava a produrre infelicità e dolore nei poveri più poveri del pianeta.

Al grido di un motto anarchico di fine ‘800 – La fantasia distruggerà il potere e Una risata vi seppellirà – gli studenti del Maggio ’68 cercarono di far saltare le casematte del capitalismo, dell’imperialismo e del potere gollista… quando gli operai e i cittadini di Parigi scesero nelle strade, la contestazione divenne di eccezionale grandezza… gli studenti e gli operai non rivendicavano solo la rifondazione dell’università o aumento dei salari, ma chiedevano la messa a morte di tutti i poteri, di tutti i valori e della società burocratica che contrabbandava la modernità con la domesticazione sociale… il Movimento 22 marzo, fondato da Daniel “il rosso” (Daniel Cohn-Bendit), anarchici e “arrabbiati” (René Riesel) occuparono l’università di Nanterre… poi, il 3 maggio passarono alla Sorbonne… è l’inizio della rivolta generazionale del ’68.

I ragazzi del ’68 chiedevano la rivoluzione della vita quotidiana… volevano l’abbattimento dell’organizzazione capitalistica del lavoro e la cancellazione delle burocrazie reazionarie, comuniste, almeno i più illuminati… la sconfitta del dominio totalitario dell’economia sulla vita presente. Una filosofia della mancanza e del bisogno tracimavano nelle strade, nei sogni e nei desideri di quanti volevano rifiutare le tecniche del mandarinato a discapito dell’umano… la politica, lo Stato, l’economia stavano al di sopra della vita reale e con l’aiuto della sociologia, psicologia, l’arte e il manganello… si facevano portavoce dei popoli assoggettati… la conoscenza del reale era da un’altra parte… a partire appunto dalla critica della vita quotidiana, i ragazzi dell’eversione sessantottesca interpretavano il mondo per trasformarlo, avevano compreso che soltanto la critica radicale di tutti i valori della borghesia poteva superare e realizzare una vita quotidiana autentica.

Quel Maggio ’68 fu rivoluzione… anche i cani avevano dimenticato tutto ciò che avevano imparato… ruppero i collari e cominciavano a sognare… i cubetti di porfido andavano a scrivere una nuova grammatica e Roma, Berlino, Parigi, Varsavia, Praga… scoprivano il linguaggio del pavé… non si trattava di guerriglia urbana, ma d’insurrezione dell’immaginario… sotto le strade disselciate si scoprivano le spiagge dell’utopia… i ragazzi sulle barricate erano realisti, chiedevano l’impossibile magico che diventava possibile! I proletari della Terra si unirono alle lotte degli studenti al grido: “Coloro che fanno la rivoluzione a metà si scavano la fossa da soli!”… l’azione comune non divenne solo reazione, ma creazione… tutti presero i loro desideri per la realtà, perché credevano nella realtà dei loro desideri! “Se vogliono comprare la tua felicità, tu rubagliela”, scrivevano sui muri! “La libertà e il crimine che contiene tutti i crimini, è la nostra arma assoluta” gridavano davanti ai parlamenti… le scritte murali parlavano: “Corri compagno, che il vecchio mondo ti sta correndo dietro”… “Presto!”… e quella più importante: “Ritorneremo!”. La vera giovinezza è nell’esaltazione della vita, e sarà lei che si prenderà il diritto di affossare una volta e per tutte ogni forma di dominio dei pochi sui molti… la costrizione è una colpa, il desiderio di libertà apre l’impensato al possibile.

Mi ricordo sì, mi ricordo… di Gianfranco Faina, uno dei fondatori di Azione Rivoluzionaria, un’organizzazione armata anarchica che ha operato in Italia tra il 1976 e il 1980. Quando sotto il sole di una spiaggia di La Spezia (tra un bicchiere di rosso e la pastasciutta alla bottarga) mi parlava dell’alienazione dominante e dell’impotenza dell’uomo… e solo una lotta radicale poteva scrostare le pareti dell’ideologia e della burocrazia e creare situazioni insurrezionali contro la disumanità sprezzante del tempo… l’indifferenza, diceva, assicura il profitto ai crimini del potere. Aveva ragione. Finché la libertà sarà solo il prodotto ideologico dei partiti, delle chiese, delle banche… la giustizia si limiterà a regolare, garantire, allevare la dipendenza sociale… finché i servi dell’umanesimo consumista continueranno ad ubbidire agli schemi di abbrutimento mediale, il funzionamento delle istituzioni teatralizzate sarà determinato nel sistema di speranze dove è più comodo sopravvivere che ribellarsi.

La vera realtà è oltre il reale e sono i falsi bisogni che uccidono la gioia di vivere tra liberi e uguali.

Negli anni della contestazione dopo il ’68, le donne in rivolta hanno trasmesso un sapere che era conoscenza, malinconia, dolore, bellezza… reinventavano, ricostruivano, rifondavano l’umano nel mondo… una cultura di relazione, un incominciamento differenzialista di coappartenenza… andavano oltre la soglia dello sconosciuto che viene. Le donne abitavano il loro tempo nel linguaggio che riuscirono a edificare o détournare, ttrasgredivano le forme sociali già apprese, affermavano che non esistono verità assolute né legami garantiti dal matrimonio… stracciavano l’ipocrisia dell’invisibilità e richiedevano all’uomo un diverso modo di pensare… niente più le imbarazzava, niente più le intimidiva, annunciavano lo stile della limpidezza con il quale infrangevano le sconvenienze o i ceppi del maschilismo, piombati nel circolo vizioso del giudizio e della colpa. Scacciavano l’invidia, la gelosia, la crudeltà, la cattiveria, la perfidia con la conquista del Nuovo, del Giusto, del Bello… certo, con la bellezza non si fanno le rivoluzioni, tuttavia verrà il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza (Camus, diceva) per essere credibili… è con la Bellezza conquistata che cadono gli Imperi. La rivoluzione delle donne degli anni ’70 è stata certo un’antologia (una ritrattistica) della bellezza incandescente che ha brillato contro le fazioni, i reami e i partiti… le loro vite – anche quelle perse o uccise – sono insorte contro il dileggio, aspro, rabbioso degli uomini e si sono riversate tutt’intere nelle convulsioni della rivolta sociale della propria epoca.

Ci piace ricordare alcuni nomi del “movimento delle donne” che nel decennio delle turbolenze e della restaurazione non hanno temuto di gridare la propria identità e hanno fatto dei loro corpi, delle loro idee e della loro vita, non solo qualcosa da ricordare, ma anche una seminagione di dignità da non dimenticare… le vogliamo ricordare – come un giro di valzer – per continuare la strada che porta alla caduta della felicità di buona condotta della società spettacolare … alla rinfusa, un po’ per amore e un po’ per stima e anche un po’ per la bellezza sovversiva che hanno rappresentato (nelle loro splendide differenze) – Margherita Cagol, Barbara Balzerani, Susanna Berardi, Maria Cappello, Barbara Fabrizi, Rossella Lupo, Vincenza Vaccaro, Geraldina Colotti, Laura De Rossi, Fiorella Farinelli, Daniela Garavini, Rina Gagliardi, Maria Teresa Grasso, Delia Landi, Susanna Margotti, Carla Melazzini, Daniela Monaci, Teresa Pavanello Gonnelli, Paola Speranza, Elda Tattoli, Adachiara Zevi, Luisa Passerini… – con l’eleganza eversiva che le contraddistingueva, hanno inserito nelle loro gesta (anche le più estreme) la sensibilità ferita del loro tempo e che nessuna educazione alla passività si era impegnata a guarire… corpi di donne che schiudevano il desiderio di vivere in amore tra uguali, che s’aprivano al possibile, ovvero che gettavano passioni sconfinate nelle strade, rompevano ostacoli, spaccavano la pedagogia patriarcale e autoritaria che le confinava nella subordinazione all’uomo e, oltre ogni ragionevole dubbio, erano consapevoli di provocare l’insubordinazione e la rivolta dell’ordine costituito. Alla minaccia dello Stato che replicava la minaccia dell’uomo, rispondevano col disinganno e l’insurrezione, e si conquistavano il diritto alla vita.

Il mio corpo ti scalderà diceva Jane Russell nell’omonimo film (The Outlaw, 1940-1943) di Howard Hughes (Howard Hawks aveva iniziato le riprese del film, ma fu defenestrato dopo pochi giorni da Hughes, che ne era il produttore), e mostrava che la donna si libera delle proprie catene quando afferma che qualsiasi misfatto commesso contro le sue passioni e la sua bellezza, esige una riparazione, non una contropartita… il passaggio dal disprezzo al taglio della gola dell’oppressore è conseguente… né pentimento né cinismo, solo impedire che il crimine si ripeta. Il mio corpo ti scalderà è un film western che tratta (abbastanza male) la leggenda (o il romanzo storicizzato) di Pat Garrett (Thomas Mitchell), “Doc” Holliday (Walter Huston) e Billy the Kid (Jack Buetel)… la Russell è Rio McDonald, la donna di “Doc”… la fotografia del film è di Greeg Toland (altre fonti dicono Lucien Ballard, ma non è così), molto giocata sui bianchi accesi e neri profondi… avvolge il film in un fascino espressionista di notevole fattura… la musica di Victor Young imperversa su tutto il film, fino a scadere in siparietti da parodia… ci sono anche gli indiani (mescaleros), cattivi e stupidi, s’intende… si lasciano sfuggire i bianchi dietro una nuvola di polvere di cactus presi al lazo e trascinati da Billy e compagni… figuriamoci!… molte delle riprese sono fatte in studio e non sfugge la cartapesta degli sfondi e l’acqua di una piscina truccata… tuttavia il film funziona… e non sono poche le intuizioni registiche di Hughes, specie quando con la cinecamera tratteggia i personaggi. La bellezza sensuale, peccaminosa, trasgressiva della Russell (anche nei manifesti) non passò inosservata ai bacchettoni del Codice Hays – che dettava le linee di moralità per le pellicole cinematografiche americane -… la censura proibì il film e solo nel 1946 fu possibile vedere Il mio corpo ti scalderà nella versione ridotta di 11 minuti. I tagli attenuarono l’impudenza del film… la gelosia o gli ammiccamenti omosessuali fra Pat Garrett, “Doc” Holliday e Billy the Kid (un pistolero efebo) in qualche modo sopravvivono e insieme al seno succinto e la bocca aperta e umida della Russell che fa un pompino alla cinecamera, restano a futura memoria (dei ragazzi come noi che si facevano le prime seghe su quel corpo ammiccante e sfacciato). Hughes non si fa mancare neanche una certa dose di maschilismo e misoginia… Rio è trattata come una merce e scambiata per un cavallo… c’è anche un tentativo perverso di tortura di Billy su Rio… l’erotismo sprizza dappertutto, specie nella prima parte, Rio salva Billy dal colpo di fucile di Garrett, scaldandolo col suo corpo… Garrett uccide “Doc”, Billy e Rio lo incatenano al pilastro di una casa e fuggono verso l’amore, forse. The End. Il corpo delle donne è il desiderio che umilia verità ataviche e obbliga a riconsiderare le negazioni del femminile come oggetto soltanto… nella demolizione dei miti eterni, la donna ritrovata rigetta il proprio inaccettabile destino e nel desiderio di liberazione che mette in atto, ricrea il mondo.

L’utopia è più della vita… gli utopisti sono senza dèi né patrie… combattono tutti i sistemi di speranze… disvelano le menzogne del progresso e s’accordano alla verità universale che non promette nulla, quindi è autentica. Il disincanto degli anarchici mostra che il linguaggio liberato si situa alla fine del dialogo… quando s’inceppa la struttura del modello, quando vengono infranti segni e simboli, ruoli e scranni, valori e idee, in breve quando la lingua degli oppressi rivendica tutta intera la propria originalità a fa a pezzi i castelli di carta del potere… si tratta di minare dall’interno la società spettacolare e condurla, con tutti gli strumenti necessari, alla sua fine.

L’effervescenza creatrice di una rivoluzione sociale non fa strategie, le sconvolge. Il vissuto quotidiano emerge in un vivere più vasto… l’insubordinazione diventa una terribile verità, non si tratta più di vendetta, ma di rivolta. La rivolta rivela all’uso un principio di soddisfazione che nega ogni forma di Stato! La rivolta non è una conclusione, ma un punto di partenza! Non esiste bellezza più bella di quella dell’intelligenza alle prese con la realtà che la supera… una rivoluzione permanente che cancella tutti gli inferni, i paradisi e i palafrenieri dell’ordine costituito, diceva… Nietzsche, Stirner o Durruti (e anche il mio cane bastardo Spartaco) avevano compreso che l’indignazione è il detonatore di tutte le creatività e là dove si comincia a pensare si alzano i pugni contro il cielo… la felicità dello spirito aborrisce l’ignoranza simulata o la servitù volontaria… la rivolta dell’uomo contro l’irrimediabile è una creazione senza patria, colloca la propria lucidità in mezzo a quanto la nega. “La grandezza ha cambiato campo, e sta nella protesta e nel sacrificio senza avvenire” (Albert Camus). Ecco qual era il sogno infranto delle giovani generazioni del ’68. La rivolta è il solo omaggio dell’uomo a se stesso, una forma di azione che porta alla riscoperta della dignità con la quale ricreare la propria realtà. Non si nega la rivolta: o si vive fuori dalla consolazione della vita o ci si muore nel suo sospiro estremo.

La società spettacolare-mercantile trovava nel terrorismo un’uscita di sicurezza e i servizi deviati dello Stato, la rete di spionaggio all’interno dei gruppi extraparlamentari, i giovani e vecchi fascisti… sapevano come orchestrare bombe e linciaggi… la lotta al terrorismo coinvolge tutti… coincide con il bene comune, il bene generale… il mostro terrorista va sconfitto… la concezione poliziesca della storia prevale sulla “cospirazione” contro lo Stato… i problemi dell’ordine democratico e della sicurezza diventano il “credo” nazionale e processano le “teste calde” della sovversione, prima nei telegiornali, nella stampa nazionale o poi con le delazioni… e quando viene prodotto l’“affare Moro”, i detentori della politica, con l’intermezzo della chiesa (della CIA o di chi sa quale altro generale o testa di cazzo della strategia della tensione), lo mettono in culo a tutti… “il fatto è che questo paese, che si autoproclama libero e democratico, è in realtà diretto da poche centinaia di eroici imbecilli, i quali temono molto più le conseguenze dell’intelligenza di tutti gli altri che quelle della loro stupidità… Sparite, grottesca mascherata, saltimbanchi di mali incurabili: voi temete troppe cose per essere temuti e ne rispettate troppe per essere rispettati! Voi giudicate tutto a torto, mentre la gente comincia a giudicarvi a ragione: non vi accorgete che una metà del paese ride di voi, e che l’altra vi ignora? Sappiate almeno che davanti a questa farsa tragicomica che è la vostra stessa esistenza, la corte marziale della nostra critica sta per celebrare i suoi saturnali!” (Gianfranco Sanguinetti). Le cose però non sono andate secondo l’auspicio amorevole di Sanguinetti (e di molti della sua generazione, anche il nostro), i ricuperatori del consenso e i fanatici della legalità hanno poi annientato il nemico, abolito il proletariato e come non mai instaurato la passività servile o l’apatia diffusa nell’età dell’oblìo… hanno reso sopportabile il dispotismo in recinti della sorveglianza e del controllo… amministrato i conflitti e distrutto alla radice tutti i rapporti sociali… l’educazione al consumo viene esercitata come appannaggio del consenso e l’ineguaglianza, con la paura di nuovi terrorismi internazionali, s’allarga a dismisura… i governi regnano sull’instaurazione di burocrazie politiche e la progressiva scomparsa di tutti i valori esonda dalla più grande infelicità storica mai conosciuta sulla Terra.

A ricordo della rivoluzione della gioia nel ’68. Un anno irripetibile, forse… quando le giovani generazioni si sono fatte beffa dei ranghi e dei pretesti del potere… il vecchio detto (détournato dalle parole di un curato di campagna del ‘700, Jean Meslier, ateo, comunista e rivoluzionario) – “L’umanità sarà felice soltanto il giorno in cui l’ultimo burocrate sarà impiccato con le budella dell’ultimo capitalista” – non è stato mai dimenticato… prima o poi verrano i giorni in cui i desideri di rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato saranno anche la realtà dei desideri di molti… e attraverso la grammatica del sampietrino (e strumenti più adeguati), la gente scoprirà che sotto il pavé c’è la spiaggia dell’utopia realizzata.

I ragazzi del ’68 volevano portare l’immaginazione al potere, perché l’immaginazione il potere non l’ha mai avuta, se non quella di fucilare i ribelli d’ogni epoca… minacciavano quel che li minacciava… interrogavano secoli di dominazione dell’immaginario… la gioia, la meraviglia, lo stupore cementavano amicizie, amori, avventure… la folgorazione dell’attimo indicava da una parte la libertà, dall’altra i ceppi dell’inganno universale. Di quei giorni vissuti senza tempo e senza storia non restano ricordi innocenti… il desiderio era la misura del Tutto o del Nulla e ogni forma di sovversione portava con sé frammenti d’eternità… la trasgressione dei limiti entrava nella vita quotidiana e fuoriusciva nell’inconsueto, e ogni parola, ogni abbraccio, ogni bacio fogliante significava un’arte di vivere tra liberi e uguali… non c’era desiderio che non poteva essere tracciato col pugno chiuso e non c’era sogno che non poteva essere afferrato insieme alla coda della luna. Solo sulle rovine dello Stato – finalmente interrogato sui suoi misfatti e sulle sue macerie – si costituisce il pensiero del-l’uomo in rivolta che non sa leggere nel fuoco che appicca, ma legge bene quello che vive.

Il fondo dell’aria è disseminato di stelle rosse e gatti selvaggi in amore sui tetti… tutto è possibile immaginare dopo la fine dell’interdetto (decreto di proibizione)… tutte le verità sono spettacolari e i condannati dell’immaginario domestico non s’accorgono della brace che crepita sotto la cenere… diffida sempre di ciò che il potere dispensa dai suoi dispositivi di convincimento… perché la loro chiarezza altro non è che l’altro versante del patibolo! Niente è sacro! Tutto si può osare là dove il sacrilegio si situa prima e dopo l’incendio degli scranni. La bellezza non sopporta barriere, recinti, confini e l’indicibile finalmente realizzato denuncia l’impensato e lo affonda nei canti popolari di mattini luminosi. L’eminenza del meglio inventa ciò che è sconosciuto e l’uomo del no! (il ribelle senza causa, che non sia quella del divenire dell’Utopia) non avrà nessuna politica né alcuna economia ma la ragion di vita di se stesso, “una bussola per navigare all’eccellenza, un’arte di essere illustre con poche regole di criterio” (Baltasar Gracián) e passare oltre, al seguito di grandi cause che producono grandi effetti e portenti d’imprese da cuori prodigiosi… senza bisogno d’essere eroi, manifestare tuttavia la raffinatezza di combattere la lusinga e con la disinvoltura dei maestri carbonai tagliare la gola ai precetti e ai valori imposti… la bellezza è sempre l’altra faccia dell’eresia.

Il ’68 ha lanciato una sfida contro la tirannia dei significati e l’ordine simbolico della simulazione… ha infranto l’orizzonte santo delle apparenze e dato inizio anche allo smascheramento delle sinistre al potere… la simulazione seduttiva della politica era vista per quello che era e che è… una sommatoria di cretinismo parlamentare che difende solo i propri profitti e legifera solo a vantaggio dei propri privilegi… e ciò che li rende stupidi, profondamente stupidi, non è solo la loro svergognata violenza e patetica burocrazia… è il monopolio delle certezze con il quale detengono l’istupidimento delle masse assoggettate… c’è sempre un tempo in cui il popolo assume la voglia di rompere l’assedio costituzionale e si prende il diritto si sovvertire l’ordine sociale… combatte la minaccia della tirannia mercatale in anticipo e passa dalla cospirazione degli uguali alla distruzione pura e semplice dei parassiti dell’impero del male.

Nel ’68 le giovani generazioni compresero che non avevano “molti” nemici, i soli nemici erano quelli che esercitavano il potere e andavano abbattuti… gli affari tra politica, militari, mafie e terrorismo facevano dello Stato di diritto una reticolazione di sorveglianze e controlli sociali che innestano la formazione di nuovi legami personali di dipendenza e protezione… sotto il tallone di ferro dello spettacolo, la mafia burocratica e politica, quella dei militari e dei finanzieri, dei milionari e dei contratti fraudolenti, dei monopoli e del petrolio, dei mezzi di comunicazione e del terrorismo internazionale… mettono in scena la concezione poliziesca della storia: “Quando le nuove condizioni della società dello spettacolo integrato hanno costretto la sua critica a rimanere autenticamente clandestina, non perché si nasconde ma perché è nascosta dalla massiccia messinscena del pensiero del divertimento, coloro che sono comunque incaricati di sorvegliare tale critica, e se necessario di smentirla, possono in definitiva servirsi contro di essa delle risorse che sono tradizionali nell’ambiente della clandestinità: provocazione, infiltrazione e varie forme di eliminazione della critica autentica a vantaggio di una falsa che avrà potuto essere introdotta a tale scopo.

L’incertezza cresce ogni momento, quando l’impostura generale dello spettacolo si arricchisce della possibilità di ricorrere a mille imposture particolari. Un delitto inspiegato [Giuseppe “Pino” Pinelli, Roberto Calvi, Aldo Moro e la fine del pulcino Calimero nella pubblicità della Mira Lanza] può essere anche definito suicidio, in prigione o altrove; e la dissoluzione della logica permette inchieste e processi che decollano in verticale nell’assurdo, che spesso sono falsati fin dall’origine da stravaganti autopsie, praticate da strani esperti” (Guy Debord). Il regno autocratico dell’economia mercantile e lo spettacolo moderno che ne consegue… si consolida nell’organizzazione della società spettacolare, ed è deplorevole (perfino incredibile) che ancora non si assista all’insorgenza della plebe e al tiro a segno dei proprietari/tiranni del mondo.

L’analisi più radicale e approfondita del dominio spettacolare integrato, l’ha fornita Guy Debord… se nel 1967 si distinguevano due forme, successive a antagonistiche, del potere spettacolare, quella concentrata e quella diffusa… la prima era l’apologia dell’ideologia riassunta nella dittatura comunista… l’altra, tutta protesa alla costruzione dell’avvento del consumerismo, aveva costituito l’americanizzazione del mondo. Dopo la caduta del ’68, si è costituita una terza forma di dominio… attraverso la combinazione pianificata delle due precedenti, e sulla base generale di una vittoria di quella che si era mostrata più forte, la forma diffusa. Si tratta dello spettacolare integrato, che ormai si è imposto su scala mondiale. “Lo spettacolare integrato si manifesta al tempo stesso come concentrato e come diffuso, e dall’inizio di questa fruttuosa unificazione ha saputo sfruttare maggiormente entrambe le qualità”, diceva. L’influenza spettacolare ha contrassegnato la quasi totalità dei comportamenti, permeato ideologie e fedi, mischiato politiche e affari… la ragione mercantile prevale su tutto e i suoi possessori sono anche i produttori di sentenze sommarie… il mondo falso ha preso il posto del mondo vero e attraverso l’autorità spettacolare ha prodotto la storia universale dell’infamia.

L’immaginario del ’68 aveva cercato di realizzare la storia, facendola… a partire dalla ricostruzione della vita quotidiana… ripetendosi, continuando ad affermare pubblicamente la necessità di un cambiamento profondo dello stato delle cose… il sabotaggio o l’attentato contro il crimine costituito, s’impone… l’uso intensivo dello spettacolo va bloccato… il linguaggio dello spettacolo respinto… la distruzione del dominio spettacolare è necessaria… le democrazie spettacolari e i regimi comunisti non hanno bisogno di giustificazioni, solo di essere dissolti nell’incerinazione della loro miseria. Ciò che Feuerbach scriveva del suo tempo vale anche per il nostro: “E senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere… Ciò che per per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. Anzi il sacro s’ingigantisce ai suoi occhi via via che diminuisce la verità e l’illusione aumenta, cosicché il colmo del-l’illusione è anche per esso il colmo del sacro”. Tutto vero. Nello spettacolare integrato non ci sono leggi… il profitto detta l’accordo, e merci e guerre sono la musica stonata dell’oligarchia economica/politica che impera sulla Terra.

Il ‘68 ha colto un po’ di sorpresa la pretesa realtà di un ordine simulato… un’ondata di utopie politiche e culturali spazzava via i fantasmi della macchina/capitale e anche nell’insuccesso o nella caduta, i simulacri sui quali si ergeva il sistema del progresso, dei profitti e della produzione, venivano aboliti… il pensiero della rivoluzione era fecondo e mai ha finito l’esuberanza della sua tracimazione sugli sgherri e i guardiani della riconciliazione (specie di sinistra)… l’opinione del popolo – per una volta – s’incontrava con l’opinione del saggio, e cioè che la costruzione delle differenze può crescere soltanto nella decostruzione di ogni potere… il principio di realtà ha come compito di battere la menzogna, spaccare l’estasi del modello e mettere le belle istituzioni protettive in liquidazione. Se poi tutto ciò non è andato come doveva andare, poco importa… in quell’anno il potere appassì con l’eresia… gli insorti dell’immaginario liberato mostrarono che la bellezza, la giustizia, la fraternità non possono fon-darsi sul potere di pochi sui molti, che è nulla, bensì sulla libertà, che è tutto.

“Il ’68 è fortunatamente rimasto una metafora violenta, senza diventare mai una realtà” (Jean Baudrillard)… anche se l’immaginario in rivolta del ’68 è svanito nelle strade ed è stato sepolto nei cassetti dei servizi segreti (e in parte affogato nell’oceano della Rete)… quello che importa realmente conoscere è l’espressione di vitalità, di libertà e di indipendenza che fuoriusciva da quell’imperdonabile insolenza generazionale… il vero uccide la menzogna che solo la rivolta rende possibile! non c’è rivolta e non c’è neppure originalità senza una qualche specie d’ingenuità… i transfughi del-l’ordine, della norma, e dell’impostura sociale lo sanno… perché hanno la capacità di unire il distacco e la rabbia, l’eleganza e lo spavento, la sottigliezza e l’eccesso… la freschezza del nuovo che implica una forza, un’ascesa e una caduta… se i fermenti d’una nascita non si trasformano in rivoluzione sociale.

Guy Debord lo conoscemmo alla macchia (era stato espulso dall’Italia perché persona giudicata sovversiva), con la grappa di Torino e il Chianti di Toscana, due o tre volte (mi ricordo sì, mi ricordo), insieme ad amici comuni e compagni di sbronze, apprezzavamo come la polizia aveva gettato Giuseppe “Pino” Pinelli dalle finestre della questura di Milano… un lavoretto fatto bene… degno di altri assassinii mai archiviati dagli anarchici… ci sono sempre stati onesti commissari calabresi (per fortuna restituiti all’oblìo dei verbali dei servizi segreti e da delazioni deficienti) che, come tanti artisti, sindacalisti, politici, preti, intellettuali incapaci di vivere senza violenza, per riconoscere meglio la propria autentica ispirazione al delitto e al grande banditismo politico, si sono sistemati nei sottoscala della storia per uscirne in ogni senso, morti. Quando sul filo della lama restano i colletti ricamati e il profumo di violette fresche… l’uomo comprende la propria capacità di mutamento del reale… non c’è nulla al mondo che ci umilia e ci degrada quanto l’entusiasmo dell’imbecille che riesce a far rimpiangere il peggior boia. Specie nel momento della verità: quello in cui i padroni si pisciano addosso dalla paura e i preti sono schiacciati come serpenti velenosi dalla lingua biforcuta. I servi, intanto, sono rapiti dalla demenza sulla via del potere e dintorni. Il popolo sopporta ogni tipo di angherie, vessazioni o genocidi, purché non si smetta di adularlo!

Mi ricordo sì, mi ricordo… di padre Ernesto Balducci, Carlo Cassola (quando si lavorava al giornale Basta con le armi! e alla seminagione di quella “democrazia diretta” che era nel cuore di molti)… mi ricordo sì, mi ricordo, di Luciano Bianciardi (che sapeva di vino) sui sassi della riviera ligure, con l’editore coi baffi che voleva fare la rivoluzione e lo trovarono senza gambe, squarciato da una bomba, sotto un traliccio dell’alta tensione (su un terreno di sua proprietà, dicono i malevoli)… mi ricordo sì, mi ricordo, di alcuni ragazzi in fuga, con la stella a cinque punte in fronte che avevano freddo e piangevano per Mara lasciata lì sul prato, nel sangue… ricordo anche Pietro Bianconi, ex-partigiano, scrittore velenoso, compagno di lunghe bevute e sonore risate sull’ordine costituito, nella sua casa di legno nei boschi di Sassetta, quando ci versava il rosso di Bolgheri e cantava sdentato “Addio Lugano bella”. Mai più berremo con tanta allegrezza, mai più avremmo fatto nulla di meglio che addormentarsi al sole di maggio con il sorriso negli occhi, la rabbia nel cuore e una bocca rossa di rossetto che si stringeva al cuore.

Tenera è la notte, quando si dissotterrano le armi dell’ultima rivoluzione perduta… torneranno le cicogne a nidificare sui nostri tetti… perché le nostre bandiere rosse e nere sono intessute dei sogni estremi di giovani poeti dell’utopia, che avevano innalzato sui pennoni della storia i loro maglioni inzuppati di sangue. La mediocrità generale è al servizio dell’impero della servitù. L’ordine futuro è il legatario universale delle nostre sconfitte storiche, come delle nostre magiche utopie, e tra le rovine del progresso neocolonialista, i nuovi profeti del caos in armi dei governi ricchi chiamano a raccolta i superstiti di tutte le ciurme. Noi non partecipiamo al crollo dei secoli, ci facciamo Anarca della furia libertaria, disertori di una falsa modernità, lavoriamo al limitare del bosco e in attesa di varcare il meridiano zero di ogni eversione radicale, raccogliamo l’eredità del nichilismo romantico, metafisico, poetico… ci facciamo bracconieri di sogni che si prendono la libertà, tutta la libertà di dire no! alla teocrazia neoliberista del mercato globale.

Il testo eccellente di Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni” (come La società dello spettacolo di Guy Debord) ha permeato l’immaginario sovversivo del ’68… qui le parole si trasformano in messaggi alle rondini, cerchi nel-l’acqua, fiondate della visione ereticale dei giovani in rivolta contro le rovine della società dell’apparenza. Il détournement, per Vaneigem, è “l’arte del maneggio di tutte le armi”. La poesia della rivolta si arricchisce nella contestazione via via che la miseria si universalizza nella coscienza del rifiuto: “Il piano inclinato della rivoluzione è il progetto di costruire la vita quotidiana nella lotta e con la lotta contro la forma mercantile” (Raoul Vaneigem). Si muore sereni quando abbiamo sputato tutte le parole sui possessori della paura che ci assedia.

Sulla teoria radicale, lotta di classe e terrorismo, Vaneigem (e Wolf Woland) si erano espressi con compiutezza di idee. Vaneigem opponeva ai riformisti della sopravvivenza, gli insorti della volontà di vivere ed elaborava una visione estrema dell’esistenza, dove la violenza delle passioni si rovesciava nelle passioni di distruggere il sistema mercantile e l’umanità del profitto. Allo Stato nichilista opponeva il nichilismo Anti-stato. Poiché la rivoluzione non esiste che all’interno dello spettacolo, occorre portare la contestazione dappertutto e rifiutare anche l’ideologia gauchiste del linguaggio di partito. Nell’agorà dello spettacolo istituzionale “tutti avranno meritato la pallottola che li colpisce.

Tutto o niente ma non la sopravvivenza. La rivoluzione o il terrorismo… smettete di lasciar cadere la vita per afferrare l’ombra, di rinunciare alla noia, di militare, di lavorare, di gerarchizzare, di rinunciare, di programmare, di agire per non dire nulla, di durare il tempo che durano queste cose. Smettete di economizzare sul niente. Rilassatevi e senza sforzo riscoprirete l’avventura del sabotaggio e del distornamento, imparare a giocare, da soli o in molti, alla distruzione del sistema mercantile, con rischio e piacere” (Raoul Vaneigem). Il pensiero estremo di Vaneigem trancia l’aria marcia del vuoto burocratico e smaschera le bugie filistee (sotto formalina comunista) della sinistra istituzionale. Nell’acquasantiera rivoluzionaria vede anche il nutrimento di odi e tristezze infinite, dove l’oscurantismo della ragione tutta intera, cambia pelle e di padrone sotto le bandiere del progresso. Per Vaneigem è il piacere che crea la vita e il passaggio dalla preistoria del desiderio all’ultima preghiera funebre della nostra alienazione, non può che passare dal crollo dell’immaginale di morte che regge l’impero della sopravvivenza, al godimento dei piaceri che restituiscono al proibito la supremazia della nuova coscienza e anticipano la nascita di una società finalmente umana.

Gli appunti di Woland sui conflitti di classe e il bilancio di un’epoca sono illuminanti e si affrancano al disgusto della fatalità elaborato nei testi di Vaneigem. I riferimenti teorici al luddismo/comontismo di Cesarano-Collu, alla falsa coscienza di Gabel, al disvelamento di Camatte, alla miseria della politica di Rosenthal o alla socialità critica di Arno… sono evidenti. Le venature comunarde di Woland sono abrasive: “Finché il proletariato non si comprende come definito dalla totalità del ciclo, finché non si percepisce come classe che necessariamente implica il rinnovamento di un ulteriore ciclo e ne produce le condizioni, la sua teoria dovrà porre l’accumulazione come qualcosa di esteriore a se stesso, una condizione esterna, congiunturale, della sua prassi, delle sue vittorie e delle sue sconfitte”. Poiché dappertutto è inferno e sangue e morte, l’ebbrezza dell’oltrepassamento del limite ci restituisce la soggettività che si libera dell’essere funzione della macchina/capitale.

Attendere la colpa al varco è un inno alla gioia e il sepolcro di ogni crimine istituzionalizzato. Vi sono catene che soltanto l’uomo potrebbe spezzare. Ed egli non le spezza. L’ignoranza del sapere pensa soltanto ciò che ignora. L’amore è la mia ricchezza ed è il cammino che accompagna la mia malinconia sui crinali del dissidio… la povertà non è scritta nei cuori di nessuno e di fronte alla cupidigia dei piani governativi, l’insolenza dell’amore dell’uomo per l’uomo accende albe di rivolta. Tra il cielo e le rovine, lo spettacolo canta i suoi lamenti, ma sono lo scatenamento delle passioni che disperdono ovunque il profumo della libertà e della verità. La libertà nasce nel gesto che ci fa liberi. La verità è una rottura che custodisce il vero degli angeli.

La critica radicale libertaria di Vaneigem è forse la più intransigente risposta alla politica della miseria delle ideologie correnti. Lo spettacolo è l’oppio della macchina/ capitale e la società dei consumi legittima il rapporto tra dominio e merci. Lo spettacolo, infatti, è nel contempo il risultato e il progetto della dittatura dei bisogni indotti. La principale produzione della società attuale si identifica con l’economia di guerra che si sviluppa nella merce e ormai permea l’intera vita sociale. La bellezza dell’opposizione sovversiva, auspicata da Vaneigem, sbanca i predicati della conoscenza pubblica e scopre il negativo della coscienza che si afferma come differenza. L’azione surrealista più semplice, consisteva, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si poteva, tra la folla. Poi i reggitori d’aste, i mercanti di schiavi, i giocatori in borsa… hanno messo le opere dei surrealisti nelle casseforti delle banche, sulle pareti dei musei, nelle stampe dei supermercati… e si sono dimenticati la rivoltella nelle mutande di qualche zoccola della buona borghesia. L’arte (come l’ideologia, la fede…) è la religione degli stupidi e dei lacché… non potendo parlare del rapporto d’amore tra l’uomo e gli altri… tutto il nostro sapere è banalità! I cannoni delle democrazie precedono le opere d’arte e i discorsi dell’ordine. Gli entusiasti, i sostenitori del progresso, i democratici o i sinistrorsi a tutto campo… denunciano un’atrofia della facoltà di distinguere, non c’è rivoluzione che non faccia rimpiangere di non averla fatta prima.

La rivolta situazionista di Vaneigem, al seguito di Diderot, chiede d’impiccare la nobiltà con le budella degli ecclesiasti, per gli operai sindacalizzati bastano le farmacopee dell’ottimismo. Sono già morti e fingono di non saperlo. La vittoria non apparterrà soltanto a coloro che avranno saputo creare il disordine – a un certo grado di qualità eversiva – senza amarlo, ma di tutti i corsari della filibusta libertaria che hanno saputo bruciare i bordelli senza muri dello spettacolo. Vaneigem si richiama all’alba rossa delle sommosse e nell’attesa del prossimo maggio di scorribande sovversive dice: “Il seguito verrà ovunque. E se noi, in una certa misura, sul ritorno di questo movimento abbiamo scritto il nostro nome, non è per conservare qualche vantaggio o derivarne qualche autorità. Noi siamo ormai sicuri di un esito soddisfacente della nostra attività: l’I.S. sarà superata”. La ricchezza critica dell’Internazionale Situazionista ha attecchito ai quattro angoli della terra ma non è ancora un’orda d’oro che si arma e strozza in bocca ai burocrati dello spettacolo l’ostia delle ideologie e il pane della ragione. In principio gli eretici hanno sgozzato la nobiltà, i politici poi l’hanno abolita e i padroni infine si sono presi l’anima della storia e l’hanno infilata in un letamaio: la civiltà mercantile. Una grande bellezza, per nulla conosciuta, profuma le periferie del mondo e consegna il canto della sua dolcezza al pianto dei poeti maledetti e all’innocenza dei cani perduti senza collare.

Dell’I.S. e della signoria senza schiavi. Trasformare il mondo e cambiare la vita, sono al fondo della critica radicale dell’I.S. e attraverso la dissoluzione della società attuale, la libera ricostruzione dei comportamenti, il rovesciamento dei valori, la dissipazione delle creatività senza guinzagli ideologici o mercantili… la costruzione delle situazioni come preludio alla Festa rivoluzionaria… si potrà entrare al regno della libertà senza servi né padroni e trasformare il sogno di pochi nella realtà di molti. La rivoluzione culturale esposta dai partiti operai non c’entra nulla… è soltanto lo stupido abbecedario per milioni di coglioni che credono (ed hanno creduto) alle bandiere rosse sporche del sangue dei dissidenti… più servi dei servi della migliore aristocrazia – purtroppo ormai perduta – che sapeva frustare i domestici (per avere pisciato nella minestra dei bambini, in malo modo) con quel tanto di dignità da ucciderli con garbo, senza dimenticare mai il sorriso sprezzante del boia mentre liquida un’intera famiglia proletaria colpevole di avere rubato per fame, le mele marce dal castro del maiale… gli operai sono dei poveracci inquadrati sotto confraternite sindacali ai quali non si chiede soltanto di lavorare per uno sputo ma di consumare sempre di più qualsiasi frattaglia mercantile che è loro concessa di acquistare. I bambini degli extracomunitari li mangeranno più tardi. Quando avranno già bruciato i loro padri nel cielo volgare degli ipermercati e le loro madri saranno disseminate (dopo averle stuprate) sui marciapiedi delle metropoli.

La società anarchica (senza governo) non è impossibile… il socialismo libertario di Bakunin, Kropotkin o Chomsky sostiene, a ragione, che tutte le decisioni, a tutti i livelli, dovrebbero essere prese a maggioranza… i delegati dei consigli portare la voce del popolo e se non fanno ciò che è loro richiesto, vanno rimossi immediatamente. La rivoluzione libertaria si regge “nell’autogestione, controllo diretto dei lavoratori nella gestione dell’impresa, integrazione dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi e partecipazione e prestazioni personali nell’autogoverno” (Noam Chomsky). Non si capisce perché un fascio d’imbecilli arroccati nei parlamenti, possano fare meglio di cittadini che producono e ridistribuiscono le ricchezza fra tutti, e contribuiscono al benessere a alla libertà del mondo. Di là dall’aforisma di Jefferson, “il miglior governo è quello che governa di meno” o di quello di Thoreau, “il miglior governo è quello che non governa affatto”, la fine della società schiavista, servile o consensuale della modernità mercatale, si avrà solo quando i popoli si solleveranno contro la concentrazione del potere in poche mani, contro l’usurpazione del potere coercitivo dello Stato, contro qualsiasi forma residuale di governo dell’uomo sull’uomo.

Nella civiltà anarchica, i partiti vanno aboliti, perché rappresentano fondamentalmente interessi di classe e delle classi… la burocrazia repressiva va cancellata dalla faccia della Terra… la difesa e la libertà dei popoli, in una società decente, non sarà opera né dell’acqua benedetta né delle bombe… i talenti di ciascuno saranno rimessi allo sviluppo della comunità intera e le macchine dovranno essere al servizio della fatica dei molti, non dei profitti di pochi… i consigli dei lavoratori sono parte della democrazia partecipata e la trasformazione della mentalità libertaria condivisa, sarà anche la trasformazione sociale degli uomini. Quanta più concentrazione di potere e di autorità s’impone sulla libertà, tanta più sarà la ribellione e la sovversione che la distrugge! Prima o poi questa lotta per la libertà e la conquista di un’umanità migliore sarà coronata dal successo. Si tratta di annientare il nemico, non di giudicarlo… ci sono delle giornate rivoluzionarie che valgono secoli, diceva. Né Dio né Padrone!, sempre.

Motto di spirito – ed è comunque un auspicio -: Il solo padrone buono è quello morto! È solo l’inizio… che la festa cominci. E in ogni caso, senza nessun rimorso.

 

1 Questo è un estratto, molto succinto, del nostro pamphlet, Guy Debord. L’Internazionale Situazionista e la rivolta della gioia nel ’68, Interno4, 2018

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