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Padrenostro 2020, di Claudio Noce

Inserito da serrilux

Padrenostro 2020, di Claudio Noce

“Voi siete uomini, io non sono che una donna eppure vi guardo in faccia. Poiché sembra che ogni cuore che batte per la libertà ha diritto solo a un po’ di piombo, reclamo anch’io la mia parte. Prendete la mia vita, se non siete dei vigliacchi, uccidetemi”.
Louise Michel
(una pétroleuses della Comune di Parigi, 1871)

Il cinema, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione della società mercatale… è il modello della domesticazione parcellare della vita quotidiana… è il momento storico che rifluisce nella programmazione economica privata e pubblica, che è l’autoaffermazione del potere esistente! La realtà sorge nel cinema e il cinema è reale (!?)… chi è il cretino che l’ha detto? dev’essere un docente, un critico o uno storico del cinema… Hollywood è il massimo della realtà del cinema, uno stupidario d’alto bordo, quello del box-office che orchestra la percezione di pubblici planetari sulle orme di san Paolo di Tarso… e tra un brivido di terrore è un pizzico di magia immola Wall street nel Dio che parla solo a se stesso! Diffidare dei profeti, come dei dittatori o dei capi di Stato, i loro discorsi funzionano soltanto a partire dalla repressione dei desideri e attraverso la costruzione dei bisogni riducono l’uomo a merce!

Per il cinema e le mosche cocchiere che lo sostengono, lo fanno, lo interpretano… il film non è niente, il denaro, il successo, il mito, tutto! Il cinema, sin dalla sua nascita ufficiale (1895), è storia di dominio e sfruttamento, architettura concettuale e messaggio consustanziale allo spettacolo dell’apparenza, principale organizzazione e consumo della società attuale… il pubblico è identico al sogno del cinema che lo avvolge, lo indirizza, lo codifica come falsa coscienza del tempo storico e mai (o quasi), visione separata, financo eversiva, che implica una critica radicale del dispositivo o contenitore economico-politico di un’epoca materializzata nell’ideologia delle merci… là dove domina lo spettacolare cinematografico, domina anche la violenza (Guy Debord, diceva non proprio così), e la violenza non è altro che la manifestazione celebrativa del potere.

Il cinema italiano, specialmente, è una robetta da sottosviluppo culturale… i filmetti che produce su sceneggiature banali, montaggio inesistente, fotografia destinata alla post-produzione, inquadrature sbagliate… fanno pensare che l’onesta intellettuale è difficile da restituire sullo schermo perché è incompatibile con la stupidità… poi quando si tratta di rivisitare gli anni di piombo… il prurito della cortigianeria contagia produttori, sceneggiatori, registi, attori e anche gli attrezzisti di questa o quell’opera che dice di raccontare gli errori o le utopie affogate nel sangue d’una generazione di ribelli… che — anche sbagliando — ha cercato di cambiare la vita quotidiana… e nel ’68 fino al ’78 (sugli echi della rivoluzione sociale di Spagna del ’36 e delle lotte partigiane contro il nazi-fascismo), ha provato a rovesciare il mondo alla radice… non ci sono riusciti e hanno perso… però quelle idee d’amore e libertà per il bene comune non sono mai morte… prima o poi resusciteranno dai margini del pianeta (ferito a morte) e i dannati della terra torneranno a far sentire i pugni e i tuoni contro gli artefici dell’iniquità ormai assunta come destino!

Diciamolo subito… il film di Claudio Noce, Padrenostro, è il tentativo maldestro di raccontare l’attentato subito dal vicequestore Alfonso Noce (padre del regista) il 14 dicembre 1976, da parte dei Nuclei Armati Proletari… nel corso della sparatoria restano uccisi l’agente di polizia Prisco Palumbo e il nappista Martino Zicchitella… Noce e un altro agente sono feriti… il figlio di dieci anni (Valerio) e la moglie (Gina) assistono al conflitto a fuoco… nell’estate Valerio conosce uno strano ragazzo (Christian) poco più grande di lui e diventano amici… il film prende una piega intimista e si trascolora in scenette patriarcali (quelle girate in Calabria)  che avviano il film nella sceneggiata televisiva… in ultimo tutti sono buoni e si scopre anche che Christian è il figlio del terrorista Zicchitella… il sentimentalismo populista del libro Cuore imperversa (ritorna spostato dalla parte dei ricchi e mai da quella di Franti)… gli “eroi” hanno la faccia buona e la scemenza dell’ottimismo trionfa sul qualunquismo strisciante che avvolge il film… insomma… Padrenostro è una sommatoria di luoghi comuni dove la speranza è obbligatoria e il padre d’ogni ragazzo “a modo” inciurma il figlio alla rettitudine, quella stigmatizzata dello Stato incorruttibile! (figuriamoci!)… e come il collezionista di francobolli non s’accorge che a forza di leccare francobolli ha consumato la propria esistenza con la lente in mano senza vedere la vita autentica! Il “vero fondo” della notte non è forse l’aurora, diceva Céline?… dove c’è un ragazzo che ride, lì c’è anche un pensiero, uno stile, una forma di comunicazione sovversiva che lo sottrae alla disperazione e all’imbroglio di una società fondata sull’entusiasmo, sull’autoritarismo e la sottomissione! Il resto è letteratura!

La critica italiana, sempre prona ad assecondare e rassicurare le vestigia impiumate dello Stato, anche quelle criminali, mafiose, camorriste… ha tessuto caterve di lodi per questo filmetto pretenzioso e lezioso sugli anni di piombo… l’apoteosi della cattività attualizzata con la ferocia dei terroristi e la felicità dispensata a pillole familiari, fa pensare che i “fiori del male” sono tutti piantati nelle periferie e che per estirparli occorrono uomini probi, giusti, obbedienti che fanno il loro dovere a tutto campo! Vero! Nessuno però si chiede perché nel fango delle periferie nascono quei fiori?… forse le convenzioni, gli inganni, i tradimenti della politica che tengono in piedi una tale società non sono poi anche mallevadori di tante ingiustizie? il marcio degli uomini non è anche il marcio dello Stato? quando l’amore dell’uomo per l’uomo è l’eternità della sofferenza alla portata dei cani, può anche essere che qualche cane arrabbiato si ribelli e cominci a mordere o a pisciare controvento… e mostri i soprusi scandalosi nei quali è stato tenuto da sempre! L’indignazione non ha padroni! Niente risarcisce la trasandatezza della politica! Le trame del merletto si addicono solo alle ricamatrici dei conventi o ai bordelli dei parlamenti! La verità è infrequentabile quando l’unico scopo dello Stato è difendere i privilegi di pochi! Si spara sempre a zero contro chi ha risposto — anche malamente — alla tirannide della miseria.

Il soggetto e la sceneggiatura di Noce ed Enrico Audenino è una cosetta piuttosto raffazzonata (Favino appare anche come produttore e la figlia Lea è Alice Le rose, sorella di Valerio, simpatica quanto basta)… la banalità dei dialoghi, l’eccesso d’introspezione psicologica, la sudditanza alla ricezione dello spettatore che vuole uscire dal cinema senza troppo pensare o riflettere su un frammento di storia tutt’ancora di scrivere o da riscrivere… è così semplificata che lascia basiti di tanta noncuranza lessicale… gli attori parlano la lingua dei telegiornali e le emozioni restano sul fondo della narrazione. Pierfrancesco Favino (Alfonso Le Rose), attore simpatico, certo… che imperversa nella commedia, nel dramma, nel film cappa e spada, sempre col faccione ingessato e il sorriso da pesce morto… che piace alle mamme, ai bambini, ai nonni con la maglietta della salute, premiato con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2020)… sembra girovagare nel film in cerca di una qualche soluzione magistrale che non viene… tuttavia quella seriosità antiquata lo figura per quello che non è… il grande attore che dicono che sia… a Jean Gabin bastavano le mani in tasca e imburrare un pezzo di pane nella notte di Grisbì (1954) per incendiare lo schermo di verità e restare immortale.

Barbara Ronchi (Gina Le Rose), Mattia Garaci (Valerio Le Rose), Francesco Gheghi (Christian) e tutto il circondario dei figuranti si perdono nel grigiore del racconto filmico… la moglie del vicequestore sembra risciacquare gli atteggiamenti indulgenti e comprensivi dei telefilm-rai… i ragazzi poi sono completamente fuori ruolo… Mattia non è affatto Pinocchio né Francesco Lucignolo, come scrivono in molti… la faccia, i corpi, gli atteggiamenti dei ragazzi non riflettono né i sogni spaventati né l’irrequietezza di quegli anni impietosi… non riescono nemmeno ad andare in bicicletta in due e cadere a muso duro sulla terra… la famiglia calabrese inoltre è rappresentata in maniera così edulcorata che porta a pensare a uno spot col mulino bianco.

La bruttezza estetica di Padrenostro eguaglia il cortometraggio di Gabriele Muccino (piccolo artigiano di basso cabotaggio del cinema nostrano), voluto dai parolai della politica calabrese, Terra mia (2020)… Muccino colora in maniera indecente la storietta d’amore tra Raoul Bova (il più legnoso-bersagliere degli attori italiani) e Muñoz Morales (una modella-mucchetta spagnola) sotto il sole di Calabria…. condita da mari non inquinati, cieli ingialliti dai filtri o giovani con coppola e bretelle che fanno i bravacci in maniera ridicola!… il regista sembra non conoscere né interessa filmare i volti autentici dei calabresi che si portano addosso la millenaria cultura grecanica di una terra dalla bellezza fulminante. Ci mancava di vedere qualche criminale che zappava l’orto di cipolle o andava a cavallo nei boschi della Sila col fucile in spalla a caccia di passerotti e l’abbrutimento della demenza (non solo) artistica sarebbe stato completo.

Padrenostro è confezionato piuttosto malamente… la fotografia di Michele D’Attanasio non esce dalla piattezza visiva… il montaggio di Giogiò Franchini si limita a un compitino scolastico che non ha niente a che fare col cinema… le musiche di Ratchev & Carratello sono smielate su tutto… e tutto rifluisce in un conformismo cortese che molto piace alla sinistra al caviale… bastava andare nelle prigioni, nei sobborghi, nel fango delle istituzioni per imparare qualcosa… se c’è un’età della spontaneità, quella è anche il tempo della sopraffazione!… le proteste contro l’ingiustizia hanno espresso da secoli la fine della carità, della pietà, della coercizione… sapendo sempre che “il colmo del terrore si raggiunge quando lo Stato di polizia comincia divorare i propri figli, quando i boia di ieri diventano le vittime di oggi” (Hannah Arendt). Solo l’amore dell’uomo per l’uomo può distruggere il potere… perché impedisce di ricrearlo! Si tratta di fare della propria anima ribelle, una voce per ogni dolore.

Al fondo di Padrenostro c’è solo il punto di vista della polizia… ma le radici della violenza non ingoiano solo la bava degli insorti… l’aggressività dello Stato non è mai contemplata e sempre assolta… la storia delle rivoluzioni insegna che la verità non sta da una sola parte e quando si ricorre a mezzi violenti vuol dire che macchinazioni, manipolazioni, corruzioni, ipocrisie sono state smascherate o protette! Quando la ragione è usata come una trappola non esiste altra ragione ed è qui che qualcosa si rompe o irrompe nella società saprofita! Nella violenza ciascuno perde! è vero… vecchie verità diventano false e falsità nuove vere! i sistemi economici, le filosofie politiche, i colonialismi guerrafondai affermano altre strutture sociali ma le sacche di disuguaglianza s’allargano ovunque… e dunque… che fare? la classe dominante e i processi di produzione/formazione sono anche responsabili di povertà storiche mai sconfitte… e non è mai stato vero né giusto dire che “chi spara a un europeo prende due piccioni con una fava… risultato: per un uomo morto un uomo libero!” (Jean-Paul Sartre). Ma il pane mangiato in schiavitù non è mai giusto e solo quando il risentimento o la non riconciliazione dell’uomo in rivolta ha un ampio sostegno popolare si può risolvere in una rivoluzione sociale.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 3 volte novembre, 2020

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