“Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone
senza diventare quel padrone” .
Pier Paolo Pasolini
I. Sulla fotografia del pane amaro
Francesco MazzaDal taccuino (Moleskine) di un fotografo di strada. La fotografia, quando è grande, esprime il ritratto di un’epoca. Non evoca nulla. Mostra una parte per il tutto. In ogni forma d’arte ciò che è importante è fare una scelta, elaborare una sintesi, escludere l’inutile e il troppo facile.
Si tratta di tagliare le fronde dell’opulenza descrittiva per lavorare nel rizoma del segno rovesciato.
Dietro ogni grande fotografia c’è un criminale o un poeta dell’anima bella, sempre.
Chi conosce la forca non sempre sa fotografare e chi fotografa non conosce la forca, anche se spesso la meriterebbe!
L’ho conosciuto Francesco mazza, l’ho conosciuto bene… in Calabria, la sua terra… ci siamo incontrati per una mia piccola mostra sull’Etiopia che aveva ospitato nel suo megastore/galleria dove si mangia fotografia, pane amaro (tra compagni di strada il pane si spezza non si taglia…) e utopie su un buon governo. Francesco è fotografo, imprenditore, film-maker, pedagogo del linguaggio fotografico… o forse è solo un uomo del Sud che porta addosso una cultura millenaria mai prona al malaffare e alla servitù volontaria… un uomo in utopia morso dalla libertà del pensiero meridiano e dalla bellezza misterica, magica, dionisiaca del Mediterraneo.
Il nostro incontro (con Anna Maria, Paola, Alessandro, Iside…) ha suscitato un progetto di fotografia sociale, Genti di Calabria… e così ci siamo imbarcati sul battello ebbro di
Rimbaud e siamo partiti alla ricerca di un atlante fotografico di geografia umana della Calabria… un portolano di bellezza e verità sui corpi, i gesti, gli sguardi, le posture dei calabresi e la loro capacità di accogliere lo straniero, il diverso, lo svantaggiato, l’umile ci ha portati a conoscere l’importanza di un popolo cantato dai grandi poeti dell’antichità e spesso dimenticato dalla politica e dalla religione della società moderna. Ogni potere si regge con il consenso di coloro sui quali si esercita.
La fotografia del pane amaro che facciamo nella strada (non per la strada) con Francesco si accosta alla gente, racconta le piccole cose che si celano o si riversano nel comune sentire… è un’iconografia del reale che attraverso la conoscenza del dolore o della gioia si trasforma in coscienza sociale. La ritrattistica del pane amaro è legata al pudore, al rispetto, alla dignità dei volti, dei corpi, delle situazioni che fuoriescono nell’istante preso ai fotografati e, secondo una visione antropologica dell’immagine, dove la persona è interprete di una memoria storica/politica di profonda importanza per un intero Paese. Il fotografo può essere innocente, la fotografia mai!
La fotografia del pane amaro coniuga l’uomo e il mondo in punta di fotocamera e ricostruisce la vita quotidiana del proprio tempo. La fotografia così fatta mette a nudo il cuore suo e
quello dei ritrattati e riporta la loro presenza all’innocenza di un esistere sovente faticoso o maltrattato, tuttavia è un frammento di realtà che si fa storia. È di questo che parliamo con
Francesco, mentre ci aggiriamo nei monti della Sila… lì incontriamo angeli e briganti, anche streghe che danzano intorno al fuoco e cantano canzoni popolari calabresi… non siamo avversi alle cattive reputazioni… così, tra la fotografia di un pastore, quella di un contadino ritornato da Boston o una ragazzina che con gli occhi afferra per la coda la luna… discutiamo di soggezione e disobbedienza civile… mi salta in mente quello che diceva un mio amico filosofo su ogni forma di malvagità… di fronte ad ogni abuso di potere pensate a Gulliver, il gigante… nell’isola di Liliput voleva fare il despota… i piccoli abitanti dell’isola accesero una moltiplicazione di legami sottili, una proliferazione di piccole azioni congiunte, una tela di ragno libertaria e inchiodarono il gigante a terra… la libertà non si concede, ci si prende.
Il lavoro culturale di Francesco travalica l’immediato e il conforme… le sue idee sulla fotografia non sono “fisse” (non sono le certezze che servono alla fotografia come coscienza di sé)… i suoi discorsi, anche quelli “educativi”, elaborano uno smontaggio teorico del “tutto a fuoco”, della “sezione aurea”, del “punctum” e/o di ogni altra diavoleria dell’abbecedario fotografico… la fotografia, come la fierezza, non s’impara a scuola, ma nella strada… non lo dice così ma è a questo che tende il suo pensiero, credo… per fare le fotografie basta sfogliare il libretto delle istruzioni della fotocamera e in un paio di giorni ciascuno è in grado di fotografare… per imparare il senso della luce non basta una vita. Fino a vent’anni tutti fanno fotografie o scrivono poesie, poi restano gli imbecilli e i poeti. La bellezza della fotografia del pane amaro è il punto più vicino fra il genere umano e l’eternità.
II. Sulla fotografia della bellezza
La fotografia della bellezza o del pensiero meridiano della quale discutiamo con Francesco sulla via delle stelle… è una filosofia della migrazione, dell’accoglienza, della fraternità, della condivisione e figura percorsi della contraddizione, della tenerezza, della grazia nel “mare in mezzo alle terre” e nel mondo… è una cartografia di corpi in amore che cercano qualcuno che li accetti, porga loro vestimenti, spezzi il pane con i loro bambini e più di ogni cosa che apra le porte della convivenza reale, pacifica tra gli uomini e le donne della terra. La fotografia meridiana fuoriesce da un’etica del comportamento, da un’estetica antropologica dei sentimenti struccati e (fuori da ideologie, dottrine, mercati dei saperi) restituisce dignità e bellezza ai “ritrattati” che rifiutano la miseria (della storia) vissuta come destino… nella bellezza c’è anche la giustizia, dicevano gli antichi greci… il diritto della forza va combattuto con la forza del diritto.
Maestri del pensiero meridiano come Platone, Nietzsche, Jünger, Braudel, Bourdieu, Matvejević, Camus, Pasolini o Cassano ci hanno insegnato la geografia umana della prossimità, il senso di cordialità dovuto allo straniero che viene in cerca di un’esistenza meno feroce, più giusta, più umana… ci hanno insegnato che lo stupore del diverso da sé che diviene storia
comune è un messaggio di pace e di scambio, aiuta a valicare la soglia, la frontiera, il limite e l’accettazione si trascolora in casa della meraviglia… ci hanno insegnato che da sempre l’erranza (migranti, profughi, sopravvissuti a guerre e povertà ataviche) culmina nel principio di ospitalità. Le cicogne, come il sorriso dei bambini, non conoscono frontiere, confini,
divieti… la sola patria che ha valore universale è quella dell’umanità intera. Francesco è un film-maker ed ha conoscenze profonde della grande cultura calabrese… i suoi
docu-film su Tommaso Campanella, Mattia Preti, San Francesco di Paola, Gioacchino da Fiore, Corrado Alvaro, Fortunato Seminara… sono anomali… mai agiografici, sempre protesi a raccontare la storia dell’uomo e non la mitologia del personaggio… rivolti a una politica etica che si preoccupa della maggiore felicità per il maggior numero… l’architettura filmica dei suoi lavori è asciutta, sobria, diretta e porta a riflettere sulla brutalità dei poteri costituiti… la bella fotografia, il commento pulito, la forza delle inquadrature delle sue opere esprimono una poetica di passioni identitarie e nel florilegio figurale che ne consegue ammiccano al progresso dello spirito umano.
L’imprenditore/artista calabrese sa che il Mediterraneo è storia di conflitti e rivoluzioni e la fotografia meridiana che cerchiamo di fare è una sorta di cavalcata attraverso i millenni in Calabria… abbiamo bevuto l’acqua fresca che ci ha offerto un pastore e mangiato pane nero, salami, funghi e dolci di una famiglia calabrese… tutto era scomparso… l’autorità, l’ordine, la gerarchia, i poteri, i malavitosi… una signora “svantaggiata” ci ha regalato uno sorriso sdentato commovente, come poche volte mi è capitato di vedere… l’apparenza non è la verità, ma l’ombra del patibolo che la sostiene. C’è più verità in una valigia piena di sogni che in tutti i santi del cielo.
La fotografia della bellezza o della rêverie è qualificata dalla coscienza che la pratica. Di questo dibattiamo con Francesco, mentre il sorriso aperto di Paola e l’attenzione intima di Anna Maria ci proteggono nelle nostre favole di fraternità e di giustizia sociale… pensiamo che una scrittura fotografica così fatta, contiene e si muove in una filosofia d’indignazione che disvela il conformismo e détourna o decostruisce l’arte servile o sapienziale nell’autentico e nel differente!
Ciascuno è fatto del tessuto di cui sono fatti i suoi desideri.
Sotto gli alberi del pane amaro ricordiamo a “gatto selvaggio” i nostri “cattivi maestri”… i passatori di confine dell’immaginale liberato o dell’iconografia della bellezza… Lewis Carroll Eugène Atget, August Sander o Walker Evans, Dorothea Lange o Henri Cartier-Bresson, Lewis W. Hine o Jacob Riis, W.E. Smith o Robert Capa, Tina Modotti o Diane Arbus, Robert Frank o Peter Magubane, Roman Vischiac o Sebastião Salgado… nelle loro immagini (al di là dei differenti linguaggi etici ed estetici affabulati) si coglie il genio collerico che porta alla critica radicale delle disuguaglianze. Siamo la memoria delle nostre gesta e dei nostri canti.
La libertà, come la bellezza, non si dà, si conquista. Nessun uomo è veramente libero di godere della bellezza se da qualche parte della terra altri esseri umani sono privati della libertà. Dove c’è lo spirito d’amore dell’uomo per gli altri uomini, lì c’è la bellezza della libertà. L’esercizio del potere non si concilia mai con il rispetto dell’uomo. Quando i popoli si accorgeranno della fame di bellezza che c’è nei lori cuori, ci sarà la rivoluzione nelle strade della terra.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 17 volte novembre 2016