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A mosca cieca (1966) di Romano Scavolini

Inserito da serrilux

A mosca cieca (1966) di Romano Scavolini

(Appunti sul film più censurato della storia del cinema italiano e mai dimenticato)

“Amo tutti gli uomini nella loro umanità e per quello che dovrebbero essere,
ma li disprezzo per quello che sono”.

Emile Henry

 

A ricordo della rivoluzione della gioia nel ’68. Un anno formidabile, quando le giovani generazioni hanno dato l’assalto al potere, non per possederlo, ma per meglio distruggerlo. Il vecchio detto (détournato delle parole di un curato di campagna del ‘700, Jean Meslier, ateo, comunista e rivoluzionario) – “L’umanità sarà felice soltanto il giorno in cui l’ultimo burocrate sarà impiccato con le budella dell’ultimo capitalista”  – non è stato mai dimenticato… prima o poi verrano i giorni in cui i desideri di rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato saranno anche la realtà dei desideri di molti… e attraverso la grammatica del sampietro (e strumenti più adeguati), la gente scoprirà che sotto il pavé c’è la spiaggia dell’utopia realizzata.

La dolce anarchia del ’68 si riversò anche nel cinema… Augusto Tretti, Romano Scavolini, Tinto Brass, Carmelo Bene, Franco Brocani, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Roberto Faenza, Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini, Silvano Agosti, Salvatore Samperi (senza mai dimenticare la lezione etica di Rossellini, De Sica e del primo Fellini)… facevano film che rivendicavano non solo una differente costruzione estetica ma anche la circolazione di una più profonda riflessione politica… la contestazione si allargò a tutti i grandi eventi internazionali (Pesaro, Venezia, Cannes, Berlino, Locarno, San Sebastian)… la protesta di registi, sceneggiatori, attori, critici… passò dallo schermo alle strade e vennero messi in discussione il funzionamento mercatale e l’esistenza stessa della macchina /cinema… qualcuno disse che bisognava contrapporre «la realtà del cinema al cinema della realtà» (Philippe Garrel), altri invitano a distinguere tra «fare dei film politici» e «fare dei film politicamente» (Jean-Luc Godard)… altri ancora, «che il cinema vada incontro alla sua fine è il solo cinema, che il mondo vada incontro alla sua fine è la sola politica» (Marguerite Duras)… la coscienza dionisiaca del cinema diffondeva una nuova innocenza o una diversa costruzione della realtà che chiedeva di essere liberata… si trattava di non giudicare il nemico, ma di condurlo al suo annientamento.

Il film più emblematico del ’68 lo gira Romano Scavolini nel 1966, A mosca cieca. Un’opera maledetta, censurata dalle istituzioni, dal mercato e dall’ambiente del cinema. Contiene tutta l’eversione montante della gioventù del ’68 e mostra la disfatta clamorosa della società spettacolare in decomposizione. Sinossi: Un uomo trova una rivoltella in una macchina in sosta e decide di utilizzarla per colpire – senza motivo apparente – una vittima scelta fra la folla in uscita (o forse in entrata) dallo stadio. Come Jean-Luc Godard che filma l’avventura anarcoide di Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro (1960), e si chiude con l’uccisione di Belmondo sotto il fuoco della polizia, Scavolini racconta la deriva metropolitana di Carlo Cecchi, che finisce nel gesto surrealista di uno sparo su un volto qualsiasi che passa per la strada… il cinema – sembra dire Scavolini -, non è tollerabile se non per il grado di rivolta che vi si mette.

Occorre attendere il film di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Delitto sul Po (2002) per raggiungere la medesima visività surreale, cinica, anarcoide e rivedere una ricodificazione del linguaggio cinematografico… ed è quanto si “legge” nell’intera opera di Giovanni Andrea Semerano, film-maker ostico, abrasivo, libertario che volge il suo fare-cinema nel disincanto poetico di chi impugna la videocamera con la disinvoltura dei partigiani, quando passavano il ferro da una spalla all’altra per conquistare dignità e bellezza perdute nell’inventario delle contraddizioni e delle servitù prolungate.

A mosca cieca ha una genesi complessa… non fa parte del cinema underground, né di quello sperimentale o che altro… il film di Scavolini è un cinema in rivolta, spudoratamente anarchico, che spacca gli assunti a dire poco, ridicoli, sui quali poggiava il successo della commedia all’italiana e molte variazioni sul medesimo tema, anche del cinema più “impegnato”… stessi attori, stessi sceneggiatori, stessi registi, perlopiù verniciati a sinistra, che dicevano di dissentire con l’ordine politico e quello del mercato… creavano solo grandi personaggi come Totò, Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi o Nino Manfredi – naturalmente fatte salve indimenticabili interpretazioni che qui non interessa evocare -, maschere stereotipate della mediocrità o mattatori del disagio indefinito che (fuori da registi come Ferreri, Pasolini, Rossellini, Lattuada, Monicelli o Scola) andavano a sostenere proprio l’oggetto del loro scherno… la seduzione della risata compiacente ha maestri illustri, uno su tutti, Charlie Chaplin… il sorriso al veleno è riservato a Buster Keaton, il silenzio dell’interrogazione è di Jacques Tati. Attraverso la costruzione della parola, del gesto e del corpo come imperativi economici, il cinema dell’italietta catto-comunista non poteva che essere parte di una civiltà agonizzante, modello di un umanismo futuro, rassegnato alle ghigliottine dei mercati… se il Neorealismo, a ragione, spaccava cumuli di convinzioni e volgarità indegne, la commedia all’italiana, come i western-spaghetti poi (Sergio Leone incluso), imperversavano sulle superfici della vita e negli entusiasmi del botteghino o nelle idiozie appassionate giustificavano e sostenevano l’edificazione di un sistema di corruttele (disfacimenti, decomposizione, corrompimento) estetiche/etiche che passavano dal malcostume alla santificazione del sogghigno politico… marionette di beati del cinematografo che mescolavano farsa, amarezza e saggezza popolare nel gioco delle idee… commedianti di rara abilità figuravano una massa di disadattati che riadattavano la speranza secondo i dettami del potere in carica: l’inautenticità della loro fioritura lessicale (poi tracimata nella scatola televisiva) li faceva sprofondare nei baratri di una mediocrità ripetitiva, quasi asfissiante, fino a raggiungere lo sbadiglio universale.

A mosca cieca anticipa o contiene molto del cinema di Augusto Tretti (La legge della tromba, 1962 e Il potere, 1972), Mario Schifano (Satellite, 1968 e Umano, non umano, 1969), Carmelo Bene (Nostra signora dei turchi, 1968), Franco Brocani (Necropolis, 1970), Alberto Grifi e Massimo Sarchielli (Anna, 1975) e tutto il cinema indipendente italiano (Bargellini, Bacigalupo, Brunatto, De Bernardi, Leonardi, Miscuglio, Turi, Capanna, Lajolo, Lombardi, Loffredo, Baruchello, Angeli, Patella, Nespolo, Gioli, Farri, Granchi Boero, Luginbühl, Martelli, Ontani, Colantoni, Mazzoleni, tanto per fare qualche nome)… in una flânerie del massacro o del senso estremo, l’interprete del film di Scavolini (Carlo Cecchi, a dire poco, meraviglioso!) figura una vita senza lacrime e senza genuflessioni… mostra che all’infuori della creazione e della distruzione del mondo, tutte le iniziative sono senza valore, diceva. Quando ogni fede, ogni ideologia, ogni illusione si riconoscono nell’evanescenza di un mondo piegato all’arroganza di pochi, tutte le profanazioni e le ribellioni sono autorizzate… toccare gli estremi di una coscienza senza infatuazioni istituzionali, vuol dire afferrare al volo gli itinerari dell’odio contro l’intero sistema di tirannie spettacolari e decretare la fine di epoche dissolute.

Scavolini, autore (nel tempo) di film singolari come Un bianco vestito per Marialé (1972), Nightmare (1981) o del documentario Le ultime ore del Che (2004), lavori anomali, innovativi o fuori dalle rispondenze mercatali… dopo alcuni cortometraggi (I devastati, 1959; La quiete febbre, 1964), debutta (a ventisette anni) nel lungometraggio con A mosca cieca. Lo realizza con una cinecamera 16mm, pellicola bianco/nero e una piccola troupe di amici. Dicono che fuoriesca da oltre sei ore di girato, poi ridotte a poco più di due ore e infine alla visione attuale 65’. La commissione di censura blocca il film tre volte e infine lo vieta definitivamente per pornografia… si vede solo il seno nudo di Laura Troschel (nemmeno bene) e finisce nei sotterranei del Ministero del Turismo e dello Spettacolo (dove impera il socialista Achille Corona). La scrittura filmica del giovane Scavolini è aritmica, provocatoria, discrepante… Cecchi trova la pistola in un’automobile parcheggiata a piazza Venezia… vorrebbe ammazzare il padre? un amico? un carrozziere? Il film è quasi muto, i dialoghi (forbiti e metaforici) sono ridotti al minimo e travalicano oltre la sequenza… le musiche elettroniche (atonali) di Vittorio Gelmetti avvolgono l’intero film e l’amore di Carlo e Laura… la pellicola è sovraesposta, sottoesposta, intercalata da bianchi, neri, buchi di code di montaggio, sfocature, ripetizioni, sguardi in macchina… cinecamera a mano… violazione del linguaggio schermico… ricorda abbastanza il manifesto cinematografico del Lettrismo, Traité de bave et d’éternité (1951) di Isidore Isou, e in qualche modo il cinema sovversivo di Guy Debord, special- mente Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps (1959)… più in profondità si colgono certi riferimenti (sul concetto di vita-morte come scelta individuale o destino dal quale nessuno può fuggire) a La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Th. Dreyer, Questa è la mia vita (1962) di Jean-Luc Godard o I 400 Colpi (1958) di François Truffaut, certe inquadrature riportano all’austerità espressiva del maestro Robert Bresson in Au Hasard Balthazar (1966). Poco importa se Scavolini aveva visto questi film o ne aveva letto sui libri… quello che vale è che A mosca cieca, nella sua disperata vitalità, resta un’opera di forte impatto sociale e più ancora, il risultato (anche dimezzato dal produttore e dalla censura) di una scrittura filmica eversiva quanto intelligente… un canto d’amore in anarchia che rifiuta tutto e tutti lo rifiutano… né salvezza né redenzione è quello che Scavolini butta sullo schermo… ma un’estrema unzione della cattività della vita perseguitata dalla morale dominante.

Carlo insegue la vittima scelta a caso e attende il momento per ucciderla (a mosca cieca, appunto!). Il tempo è frammentato nell’attesa… lo sparo viene anticipato da un fumetto e quando il corpo della vittima cade a terra, il portiere di una squadra di calcio (siamo nei pressi dello stadio Olimpico) si getta sull’erba per afferrare il pallone. La fuga sul Lungotevere di Cecchi riporta a quel Boudu salvato dalle acque (1932) di Jean Renoir… figura deliziosa di un uomo libero che non accetta nessun “ideale” né proselitismo ecumenico e al culmine dell’ineluttabile si chiama fuori da ciò che non merita di esistere. Il montaggio di Mauro Contini (e Scavolini) è metaforico, estraniante, rompe l’usale sintassi filmica e s’inventa abrasioni stili- stiche coraggiose… s’accorpa alla magia delle inquadrature non proprio cattedratiche di Sca- volini e incrocia primi piani a movimenti di macchina (spesso traballanti) che conferiscono al film una sorta di sinfonia visiva. La fotografia è un elogio all’imperfezione… la firmano in molti (Romano Scavolini, Roberto Nasso, Mario Masini, Cesare Ferzi), ma quello che resta negli occhi è l’eco della bellezza selvatica di una Roma insolita, quasi bruciata nell’apologia del vero, come si vede in Accattone (1961), Mamma Roma (1962) o Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Un’immagine di verità che rigetta l’estetismo degli eroi e dei santi… che mette le cose al loro posto e slabbra la visione di universi convenuti. Il film si chiude sul matrimonio di Pippo Franco e Laura Troschel, in super-8mm (ripresi all’interno e sul terrazzo della loro casa). La ricchezza interiore di A mosca cieca non lascia spazio a sofismi né a glorie postume… come dice Godard: «In un film tutto quel che serve sono una ragazza e una pistola», il resto è solo una prerogativa dei servi di ogni convenienza… la poesia (in ogni forma d’arte) esprime l’essenza di ciò che si riesce a distruggere o, più ancora, è tutto quanto trasfigura l’infelicità in amore per un’esistenza liberata. Ci sono talenti di cui non abbiamo bisogno e geni dei quali non possiamo fare a meno… e sono quest’ultimi che fanno impallidire l’immoralità del momento e agiscono sulla distruzione dell’ordine del discorso… poiché le nature eccezionali hanno orrore di qualsiasi potere, s’addossano ai dubbi del dissidio e annunciano le prossime rivolte nel mondo.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 8 volte gennaio, 2018

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