di Aldo Gilardi e Pino Bertelli, 2013
Conversazioni sulla storia infame della fotografia pornografica e sulla storia bastarda della fotografia sociale
Prefazione di Maurizio Rebuzzini
“NON FOTOGRAFARE…” di Ando Gilardi
Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati. Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese, i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte.
Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime della droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia.
Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perché non possono respingerti. Non fotografare il suicida, l’omicida e la sua vittima.
Non fotografare l’imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo. Non fotografare il carceriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già sopportato la violenza, non aggiungere la tua. Loro debbono usare la violenza tu puoi farne a meno.
Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l’eroico moncherino.
Non ritrarre un uomo, solo perché la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. Non perseguitare con il flash la ragazza sfigurata dall’incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l’attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungervi le tue fotografie.
Non fotografare la madre dell’assassino e nemmeno quella della vittima. Non fotografare i figli di chi ha ucciso l’amante, e nemmeno gli orfani dell’amante.
Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso. Le peggiori infamie fotografiche si commettono in nome del “diritto all’informazione”. Se è davvero l’umana solidarietà quella che ti conduce a visitare l’ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica.
Come giudicheremmo un pittore in costume bohemienne seduto con pennelli, tavolozza e cavalletto a fare un bel quadro davanti alla gabbia del condannato all’ergastolo, all’impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, a un corpo lacerato che affiora dalle rovine? Perché presumi che il costume da free-lance, una borsa di accessori, tre macchine appese al collo un flash sparato in faccia, possano giustificarti?